Magistratura democratica

Da un Porcellum al Marta-rellum: una prima lettura della nuova legge elettorale per il Csm di cui alla l. 17 giugno 2022, n. 71

di Valerio Savio

Una legge elettorale per tre quarti ad effetti maggioritari, frutto di compromesso tra logiche diverse. Dai possibili effetti in concreto i più diversi, a seconda della “tenuta” delle aggregazioni associative “storiche”. Con rilevanti criticità, in particolare in punto di tutela della rappresentanza di genere e di una piena rappresentatività delle diverse sensibilità in magistratura, ma nel contesto politico positiva espressione, da un lato, del rifiuto del sorteggio quale criterio base nella selezione dei candidati, così come di sistemi maggioritari “puri”; dall’altro, della volontà di garantire comunque la formazione di un Consiglio superiore sufficientemente pluralista.

1. Il contesto di approvazione / 2. Le norme strutturali del nuovo sistema elettorale / 3. Elettorato attivo e passivo / 4. Il meccanismo di ripartizione di cinque seggi con metodo proporzionale / 5. Le criticità in punto di rappresentanza di genere / 6. I collegi / 7. Le criticità in punto di pluralismo. Le possibili dinamiche politico-associative che la legge può innescare

 

1. Il contesto di approvazione

Nell’operare una prima lettura della nuova legge elettorale per il Consiglio superiore della magistratura – introdotta dalla legge 17 giugno 2022, n. 71 novellando gli artt. da 22 a 27 della l. 24 marzo 1958, n. 195 (articoli che di seguito si preferisce non citare in ogni occasione, per snellezza del testo) –, al netto dei condizionamenti della cronaca relativi agli effetti prodotti prima delle elezioni per il rinnovo del Consiglio del 18-19 settembre 2022, non si può fare a meno di operare alcuni minimi rilievi di ordine politico generale, relativi al contesto nel quale la legge è stata approvata.

Inserita in una riforma ordinamentale che vuole essere di ampio respiro e che è certamente la più ampia da quella del 2006-2007, e approvata al termine dei tre anni di acceso dibattito politico nato dall’inchiesta della Procura della Repubblica di Perugia, che ha rivelato le degenerazioni delle prassi consiliari, la nuova legge elettorale è stata discussa dentro e fuori il Parlamento in un clima politico difficilissimo, in cui altissimi sono stati i rischi di opzioni distruttive per il Consiglio, in cui un ampio partito trasversale si è schierato apertamente per una riduzione non solo e non tanto del ruolo delle “correnti” (indistintamente assurte nel discorso pubblico al ruolo di indiscusso nemico pubblico numero uno, senza possibilità di declinazioni del tema) quanto, altresì, del ruolo e del protagonismo istituzionale del Csm. È il clima che ha portato al fatto inedito ed emblematico di indicare espressamente il “controllo correntizio” sulle elezioni quale obiettivo primo della riforma addirittura nella Relazione illustrativa al disegno di legge, e diverse forze politiche a sostenere il sorteggio dei candidati (e, in alcune proposte: degli eletti) quale ritenuta unica vera riforma possibile della legge elettorale per il Csm. 

In tale quadro, dominato dall’illusoria convinzione che con una legge elettorale si possano cancellare i “corpi intermedi” di una comunità politica (intesa senso lato) che voglia continuare a riconoscerne la funzione, in un contesto che vedeva altresì in corso referendum abrogativi volti a introdurre la responsabilità civile diretta dei magistrati e una sostanziale separazione delle carriere tra pm e giudicanti in un’ottica “punitiva” della magistratura; che vedeva favorevole al sorteggio dei candidati una parte seppure minoritaria della dottrina costituzionalistica e (malinconicamente) anche della stessa magistratura; che vedeva in tutti i settori dell’emiciclo parlamentare un sentimento dominante contrario al proporzionale (perché ritenuto, senza ragione, meno adatto del maggioritario a superare il famigerato “controllo correntizio” sulle elezioni), e che, senza sorprese, avrebbe potuto portare a un sistema di soli collegi uninominali maggioritari che avrebbe ucciso il pluralismo nel Consiglio, deve innanzitutto darsi atto alle forze che hanno sostenuto la legge, e in primo luogo alla Ministra Marta Cartabia, della cultura costituzionale con la quale – oltretutto in un Parlamento balcanizzato e a fine legislatura – si è voluto rifiutare l’incostituzionale soluzione del sorteggio e della sensibilità istituzionale (riferibile alla correttezza di rapporti tra esecutivo e magistratura) con la quale al contempo si è voluto mostrare di dare parziale ascolto al recente referendum consultivo indetto dall’Associazione nazionale magistrati, espressosi all’81% a favore di sistemi elettorali a effetti proporzionali: arrivandosi, modificando l’originario ddl incentrato unicamente su collegi maggioritari binominali, a un sistema, se si vuole, di compromesso, ma che accanto a 15 componenti magistrati eletti con meccanismi maggioritari ne vede 5 eletti con meccanismo proporzionale.

Se la “vecchia” legge elettorale che ha regolato gli ultimi cinque rinnovi del Csm si è dimostrata indiscutibilmente il “Porcellum” della magistratura, per la sua attitudine a creare un Csm (piuttosto che di eletti) di nominati dalla dirigenze dei gruppi, la nuova normativa potrebbe esserne il “Mattarellum” – o, se la Ministra ci consente: il “Martarellum” – per similitudine con la legge elettorale per le Camere del 1993, fondata appunto su tre quarti di maggioritario e un quarto di proporzionale. Con la differenza, certo non di poco conto, che ciò che poteva far apprezzare il Mattarellum per il Parlamento – la possibilità di assicurare che dalle elezioni uscisse, pur in presenza di una tutela delle opposizioni, una chiara indicazione di maggioranza, a garantire la governabilità in un’alternanza di coalizioni (alla fine, in qualche modo, attuatasi nelle elezioni politiche dal 1994 al 2008) – lo è molto meno con riguardo al Consiglio superiore della magistratura, dove un problema di governabilità notoriamente non si pone e dove, anzi, è preferibile che maggioranze precostituite o stabili non ve ne siano.

Ma qui siamo già alle criticità della nuova legge, e dobbiamo prima vedere di che si discute.

 

2. Le norme strutturali del nuovo sistema elettorale

La nuova normativa (come si è detto, ora rinvenibile nei nuovi artt. 22-27 l. n. 195/1958) porta da 16 a 20 i componenti «togati» e da 8 a 10 quelli di nomina parlamentare.

Per i componenti «togati», si prevedono: a) un collegio unico nazionale per due componenti che esercitano funzioni di legittimità in Cassazione e relativa Procura generale, maggioritario, in cui vengono eletti i due candidati più votati; b) due macro-collegi territoriali pure binominali maggioritari per 5 magistrati che esercitano funzioni di pm presso uffici di merito e presso la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, in ciascuno dei quali vengono eletti i due candidati più votati nonché il «miglior terzo» per percentuale di voti presi sul totale degli aventi diritto al voto; c) quattro macro-collegi territoriali binominali maggioritari per l’elezione di 8 magistrati con funzioni di merito o destinati alla Cassazione ex art. 115 rd n. 12/1941, in ciascuno dei quali vengono eletti i due candidati più votati; d) un collegio unico nazionale definibile come “virtuale”, in cui vengono eletti 5 magistrati con funzioni di merito o destinati alla Cassazione ex art. 115 rd n. 12/1941, con ripartizione proporzionale dei seggi. 

Per tutti tali collegi, si viene eletti a prescindere dal genere di appartenenza. Non ci sono cd. “quote di risultato”. 

I collegi territoriali vengono composti ogni quattro anni, aggregando «in continuità territoriale» distretti e, se del caso, circondari «o uno o più uffici», con la priorità di garantire che abbiano «corpo elettorale» in composizione «tendenzialmente» equivalente. Agli effetti del «corpo elettorale», i magistrati di legittimità e che «esercitano funzioni presso uffici con competenza nazionale» (in primo luogo, quindi, Cassazione e relativa Procura generale) «sono conteggiati» nel Distretto di Roma, i fuori ruolo nel distretto dove lavoravano prima del collocamento fuori ruolo. 

Nel collegio nazionale per i componenti di legittimità, così come in ciascuno dei macro-collegi territoriali per componenti magistrati/pm e giudici di merito, devono esserci almeno 6 candidati, «e ogni genere deve essere rappresentato in misura non inferiore alla metà dei candidati effettivi». Ammesse le candidature dall’Ufficio elettorale centrale presso la Cassazione nominato dal Csm, se non si raggiungono tali soglie, si integrano le candidature «volontarie» con un sorteggio «in seduta pubblica» tra i magistrati eleggibili nel singolo collegio, che in precedenza – entro un dato termine – non si siano dichiarati al Csm indisponibili a essere candidati in tal modo. «L’estrazione avviene da elenchi separati per genere, in modo tale che sia raggiunto il numero minimo di sei candidature e sia rispettato l’indicato rapporto tra generi»; a tal fine, «i magistrati eleggibili sono estratti a sorte in numero pari al triplo di quelli necessari per raggiungere il numero minimo di sei o per assicurare l’indicato rapporto tra i generi. I magistrati estratti a sorte sono inseriti in un elenco numerato progressivamente, differenziato per genere, formato secondo l’ordine di estrazione, e sono candidati nel collegio seguendo l’ordine di estrazione per integrare il numero delle candidature» necessarie secondo i due profili; «in presenza di gravi motivi ciascuno dei magistrati estratti può comunicare la propria indisponibilità alla candidatura entro il termine di quarantotto ore dalla pubblicazione dell’esito dell’estrazione»; nel caso in cui il numero delle indisponibilità complessivamente dichiarate prima e dopo il sorteggio «non consent[a] di raggiungere il numero minimo di candidature o di rispettare il rapporto percentuale tra i generi» del 50%, «si procederà senza ulteriore integrazione».

 

3. Elettorato attivo e passivo

L’elettorato attivo spetta ai magistrati «ai quali siano state conferite le funzioni giudiziarie», e che non siano sospesi dalle stesse ex artt. 30 e 31 dl n. 511/1946. 

Ciascun elettore riceve tre schede, una per eleggere un componente di legittimità nel collegio nazionale relativo, una per votare il candidato/pm, una per votare il candidato giudice di merito. Si possono votare solo i candidati del macro-collegio territoriale cui appartiene il distretto nel quale si lavora. Su ogni scheda si può indicare il nominativo di un solo candidato.

Ineleggibili, oltre ai magistrati senza funzioni e ai sospesi secondo le norme appena citate, nonché ai condannati a gravi misure disciplinari (ed oltre ai consiglieri superiori uscenti, come già da art. 104 Cost.), i magistrati che non possono garantire «quattro anni di servizio prima della data di collocamento a riposo» (così chiudendosi la querelle sulla possibilità di far parte del Csm da pensionati) e i magistrati «che abbiano prestato servizio presso l’Ufficio Studi e la Segreteria del Consiglio Superiore» uscente (norma già presente) e altresì «per cinque anni dal ricollocamento in ruolo». E ineleggibili, ancora, sono i magistrati «che fanno parte del Comitato Direttivo della Scuola Superiore della Magistratura o che ne hanno fatto parte nel quadriennio» antecedente alle elezioni.

Se tali ultime cause di ineleggibilità sono un chiaro esempio della filosofia anticorrentizia della legge, perché evidentemente ispirate al voler evitare lo sfruttamento di rendite di posizione derivanti da ruoli che si è ritenuto in qualche modo controllati dai gruppi, la più importante delle innovazioni in materia, vale a dire l’ineleggibilità di chi non abbia «conseguito la terza valutazione di professionalità» (e laddove in precedenza erano sufficienti 5 anni tra uditorato e funzioni, e non i 12 ora necessari per tale valutazione) appare una indiretta concessione alla “filosofia” – da taluni proposta – del Csm quale consesso, se non di “ottimati”, almeno di “esperti”. Della norma si è autorevolmente adombrata la possibile incostituzionalità con riguardo all’art. 104 Cost., laddove prevede l’elezione «tra gli appartenenti alle varie categorie», per la notevole restrizione dell’area degli eleggibili e per la compromissione dell’elettorato passivo. L’opzione, però, si crede rientri nella discrezionalità del legislatore (le «categorie» di cui all’art. 104 Cost., non più riferibili alle qualifiche di magistrati “di tribunale”, “di appello”, di “cassazione”, potendo forse ancora essere riferibili a funzioni e ruoli – con incostituzionalità, secondo la ratio che ha presieduto all’approvazione della norma costituzionale, di una legge che ne escludesse alcuni –, ma certamente non apparendo riferibili alle «valutazioni di professionalità»; la norma, ovviamente discutibile nel merito, non essendo in sé irragionevole in relazione all’esperienza che indiscutibilmente richiedono le funzioni consiliari; il limite non essendo “discriminatorio” in senso tecnico, riguardando condizione che tutti possono raggiungere; in Costituzione rinvenendosi una valorizzazione dell’esperienza nella norma che per i componenti «laici» chiede avvocati «con quindici anni di esercizio effettivo»), potendosi rilevare come la norma, piuttosto, oneri in prospettiva consigli giudiziari e Csm a essere particolarmente tempestivi nel disporre in ordine alla terza valutazione di professionalità per chi può averla in tempo utile per le elezioni, per gli effetti sull’eleggibilità.

Per il collegio unico nazionale di legittimità possono candidarsi solo magistrati della Suprema corte e della relativa Procura generale. Per i collegi territoriali per magistrati/pm e per giudici di merito ci si può candidare solo nel collegio in cui si esercitano le funzioni. Per candidarsi non servono più le firme di presentatori in numero da 25 a 50 necessarie per la vecchia legge (è la norma che è stata oggetto di referendum il 12 giugno 2022). 

 

4. Il meccanismo di ripartizione di cinque seggi con metodo proporzionale

Nata anche per superare la vecchia normativa che ha portato storicamente a candidati in numero di poco superiore a quello dei consiglieri da eleggere (e, in un ultimo celebre caso-limite, a 4 candidati pm per 4 posti), la legge “vuole” e promuove quindi una competizione con un’ampia platea di candidati individuali che non hanno bisogno di presentatori (ciò sempre nella dichiarata ottica anticorrentizia che, nel caso ingenuamente, non considera che una candidatura anche estranea a correnti organizzate, che non sia in grado di avere qualche decina di presentatori ha, evidentemente, pochissime chance già in partenza). 

La candidatura è sempre più, quindi, un fatto individuale. Ma con un importante correttivo (del tutto apprezzabile, dal punto di vista della potenziale migliore qualità del confronto elettorale e, come vedremo, del pluralismo in Csm): nei soli quattro collegi per giudici di merito è previsto che il singolo candidato, con una formale dichiarazione entro trenta giorni prima delle elezioni, possa “collegarsi” «con uno o più candidati dello stesso o di altri collegi» sempre per giudici di merito. «Ogni candidato non può appartenere a più di un gruppo di candidati collegati e il collegamento non opera se non è garantita la rappresentanza di genere e non è reciproco tra tutti i candidati del gruppo» (regole su cui vigila l’Ufficio elettorale centrale: e si ritiene che ove la dichiarazione non sia reciproca proprio tra tutti i candidati di un gruppo valga, almeno, tra coloro tra i quali è reciproca ).

Di fatto, vengono così rese possibili, per i giudici di merito, delle “liste”. Evidentemente, non necessariamente riferibili alle “correnti”, dal momento che possono formarsi tra candidati individuali.

Il collegamento è funzionale nella legge alla ripartizione con metodo proporzionale dei cinque seggi del collegio “virtuale” nazionale per giudici “di merito”. Infatti, eletti con metodo maggioritario gli 8 componenti di cui ai quattro macro-collegi territoriali (in ciascuno, i due più votati), per ripartire i cinque seggi “proporzionali” si calcola innanzitutto il totale dei voti conseguiti nei diversi collegi da ciascun gruppo di candidati collegati e da ciascun candidato non collegato. Con un meccanismo pensato, evidentemente, per dare tutela ai candidati non collegati e ai gruppi di candidati collegati che non hanno avuto eletti nei collegi con il meccanismo maggioritario, si detrae dal totale dei voti conseguiti da ciascun gruppo di candidati collegati il numero dei voti dei candidati di quel gruppo che – arrivati nel loro collegio primi o secondi – sono stati eletti nel loro collegio col maggioritario. Così ottenute le “cifre elettorali” utilizzabili, si divide la cifra dei voti validi complessivamente espressi per tutti i candidati nei diversi collegi per 5 (il numero di seggi da assegnare), così ottenendo il “quoziente-base”. Si attribuiranno quindi i seggi a seconda dei quozienti pieni colti da ciascuna “lista” di candidati collegati o da ciascun singolo candidato non collegato, e a seguire, per i seggi non assegnati con i quozienti pieni, i seggi vengono assegnati a seconda dei maggiori resti (e, nel caso residuale di “parità di resti”, a seconda del “maggior numero di voti” e per ultimo “per sorteggio”). 

Esempio: se i magistrati nei quattro collegi maggioritari binominali “di merito” hanno espresso complessivamente per tutti i candidati in corsa 7500 voti validi, 2800 per i magistrati collegati nella lista dei Bianchi, 2200 per i collegati Verdi, 450 per i collegati Blu, 400 per i Rossi, 300 per i Gialli, e in un collegio un candidato non collegato ha riportato 320 voti (con i candidati dei Bianchi e dei Verdi arrivati primi e secondi in tutti i collegi, a conquistare gli 8 seggi “maggioritari”), e se i gruppi dei Bianchi e dei Verdi hanno utilizzato per fare arrivare tra i primi due i loro candidati (complessivamente, 2600 voti i Bianchi e 1950 voti i Verdi), ecco che le cifre elettorali utilizzabili per il riparto proporzionale saranno 200 per i Bianchi, 250 per i Verdi , 450 per i Blu, 400 per i Rossi, 300 per i Gialli, 320 per il candidato non collegato (con i restanti voti, per arrivare a un totale di 7500 voti validi, disseminati tra altri candidati - collegati o non collegati - con meno consenso), ed ecco allora che, con il quoziente-base, nell’esempio, di “1500” (vale a dire 7500 voti validi complessivamente espressi diviso 5, il numero dei seggi), nel nostro caso nessuna cifra elettorale raggiunge tale elevato quoziente pieno, e che con i resti vengono eletti un Blu con i 450 voti presi dalla “lista”, un Rosso con 400, il non collegato con 320, un Giallo con 300, e che i Verdi conseguiranno un altro seggio con 250, seggio che va a sommarsi agli altri quattro Verdi eletti nei collegi maggioritari.

Assegnati in tal modo i seggi “proporzionali”, per la legge, nell’ambito del medesimo gruppo di candidati collegati sono eletti coloro che hanno ottenuto nel loro collegio la percentuale più alta, calcolata non sui voti validamente espressi ma sul totale degli «aventi diritto al voto» nel collegio (scelta che appare voler neutralizzare eventuali differenze tra collegio e collegio nell’astensionismo, nelle schede bianche, nelle nulle). Per tornare all’esempio, se tra i collegati Blu nel collegio n. 1 il Blu ha avuto il 7% degli aventi diritto al voto e nei collegi 2-3-4 il candidato Blu ha avuto rispettivamente il 6, il 5 e il 4%, sarà in concreto eletto il candidato Blu del collegio n. 1.

Come si vede dall’esempio, il sistema può garantire l’elezione a un non collegato che ottiene anche solo 320 voti su 7500 magistrati che hanno espresso voti validi, e un diritto di tribuna a diversi gruppi di minoranza.

Va rilevato come si tratti di un meccanismo che è una trasposizione su collegi plurinominali del collegamento tra candidati, in vista di una ripartizione proporzionale dei seggi, proprio del sistema a suo tempo proposto per il Csm da Gaetano Silvestri, sistema ripreso dalla legge elettorale prevista per il Senato sino al 1992 e fondato, invece, su collegi uninominali.

 

5. Le criticità in punto di rappresentanza di genere

Lo si è detto e ripetuto da sempre, dalla magistratura associata e dalla migliore cultura costituzionalistica.

Il sistema elettorale “buono”, quello che meglio si attaglia al ruolo costituzionale del Consiglio: a) è quello che meglio garantisce ed esalta la rappresentatività dell’organo e l’ineliminabile pluralismo della magistratura, i diversi orientamenti culturali e politici in senso lato dei magistrati, e che quindi evita il rischio di maggioranze precostituite e/o culturalmente “monocolori” o un esercizio delle funzioni casuale e disordinato; b) è quello che meglio può portare il Csm a un esercizio delle funzioni figlio di “visioni” nazionali delle questioni di giustizia e non della considerazione di localismi e/o di interessi particolaristici; c) ancora, è quello che «promuove la pari opportunità tra donne e uomini» (art. 51, comma 1, Cost.); infine, d) è quello che, facendo tutte queste cose, riesca anche a garantire in Consiglio la presenza di tutte le “categorie” (giudici, pubblici ministeri, magistrati con funzioni di legittimità), ancora una volta per ragioni di rappresentatività del consesso oltre che per le esigenze della sezione disciplinare.

Il sistema proposto garantisce senz’altro la presenza delle tre «categorie» e in proporzione che si crede non si presti a particolari critiche, tenuto conto di quella che è la composizione della magistratura tra giudicanti, pubblici ministeri, magistrati di legittimità. Mantenendo nel solo numero di 2 i magistrati di legittimità, respinge visioni gerarchiche della magistratura, e (da taluni auspicati) ritorni a un peso specifico forte della Cassazione in Consiglio.

Per quanto concerne la rappresentatività di genere, vi sono tre novità di rilievo, in attuazione della «promozione delle pari opportunità» di cui all’art. 51, comma 1, Cost. 

La prima riguarda i componenti laici, come da art. 104 Cost., da eleggersi dal Parlamento in seduta comune tra professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati con quindici anni di esercizio effettivo. Ribadita dalla legge ordinaria anche in questa occasione la necessità per il singolo candidato dell’elezione con maggioranza dei tre quinti delle Camere riunite (dei votanti , dal terzo scrutinio), per la prima volta si statuisce che l’elezione debba avvenire «nel rispetto della parità di genere garantita dagli articoli 3 e 51 della Costituzione» e, novità altrettanto rilevante, «secondo procedure trasparenti di candidatura».

Se la formula ha semplificato e indebolito quella invero più incisiva del testo originario del disegno di legge («secondo principi di trasparenza nelle procedure di candidatura e di selezione»), e se il richiamo agli artt. 3 e 51 Cost., in combinato disposto con l’introduzione di «procedure trasparenti di candidatura», sembra voler innanzitutto e certamente richiedere una attuazione almeno della “pari opportunità” nella selezione delle candidature, sembra altrettanto certo che già la lettera della nuova disposizione – che non si limita a parlare di rispetto delle «pari opportunità» o di «garanzia della rappresentanza di genere» (espressione, quest’ultima, invece usata in relazione ai gruppi di magistrati di merito collegati) bensì, e significativamente, di «rispetto della parità di genere» – debba essere letta come norma che, in attuazione dell’art. 51 Cost., imponga anche un identico numero di uomini e donne tra i 10 eletti (superandosi i dubbi al riguardo impostabili in relazione alla natura di una elezione parlamentare e quindi, per definizione, politicamente “libera”). In sintesi, siamo oltre le quote cd. “di chance”, con una formula che rimanda a una “quota di risultato”. Interessante sarà vedere l’interpretazione che il Parlamento darà della disposizione (l’istituzione di «procedure trasparenti di candidatura» sembrando imporre, peraltro, l’introduzione di nuove norme regolamentari, che appunto disciplinino la selezione/presentazione delle candidature presso le Camere riunite; con un richiamo alla necessaria loro pubblica «trasparenza» che appare anch’esso figlio delle polemiche degli ultimi anni sul Consiglio, e che hanno non marginalmente toccato anche le modalità di elezione dei laici, tra cui deve poi essere eletto il vicepresidente).

La seconda novità di rilievo in materia di pari opportunità di genere è invece nella regola, per i componenti magistrati, per la quale in ciascuno dei tre collegi territoriali «ogni genere» debba essere «rappresentato in misura non inferiore alla metà dei candidati effettivi», con previsione, ove le candidature spontanee non raggiungano tale soglia, del già evidenziato meccanismo di sorteggio, utile a fare il possibile per raggiungere il rapporto di parità tra generi.

La terza significativa novità è la previsione che il «collegamento» tra giudici di merito, ai fini e agli effetti del collegio “virtuale” per l’assegnazione dei seggi “proporzionali”, «non opera», tra le altre ragioni, «se non è garantita la rappresentanza di genere»: qui non si parla di “parità di genere”, ma di “garanzia della rappresentanza”, formula che di certo esclude “liste” di “collegati” di un solo genere, ma che appare legittimare “liste” di collegati anche con un solo esponente del genere meno rappresentato (essendosi evidentemente ritenuto che le cd. “quote di chance” siano già in precedenza garantite, per i profili istituzionali, dalle altre norme sulle candidature e sul sorteggio “di genere”, e di lasciare alle dinamiche politico-associative ogni garanzia ulteriore). 

Due i rilievi critici possibili. 

Il primo: che il “sorteggio di genere” nei singoli collegi esprime solo una tensione e non è, in assoluto, in grado di produrre un risultato certo. Si è visto infatti che, nel caso in cui il numero delle indisponibilità al sorteggio complessivamente rese prima e dopo di esso non consenta di rispettare il rapporto percentuale tra i generi del 50%, «si procederà senza ulteriore integrazione»: è ciò che appare essere avvenuto in concreto in questa prima applicazione della legge (ci si consenta qui un riferimento alla cronaca di queste prime elezioni con il nuovo meccanismo: dopo il sorteggio di genere e ricevute le indisponibilità, i candidati ufficialmente ammessi vedono nei quattro collegi di merito, a seconda dei casi: 10 donne e sette uomini, 7 donne e otto uomini, 7 donne e 9 uomini, 6 uomini e 6 donne; nei collegi pm: in un caso 4 donne e sei uomini, nell’altro 3 donne e 5 uomini; nel collegio di legittimità: 3 donne e sei uomini – con un totale, però, di 40 donne e 46 uomini, che appare un ottimo risultato complessivo).

La seconda ben più grave criticità è quella che balza agli occhi, tanto più in presenza della esaminata disciplina rinforzata prevista per l’elezione dei laici: resta infatti che nel meccanismo proposto, contati i voti, nulla impedisce che i togati eletti nei diversi collegi, maggioritari come proporzionali, siano alla fine tutti uomini o tutti donne. 

È un fatto che si sia lasciato il risultato “di genere” alla volontà degli elettori, e alle dinamiche politico-associative. 

 

6. I collegi

Con riguardo alla necessità di non favorire «eccessivi localismi» (come si esprime la Relazione illustrativa), il sistema proposto non si presta invece a critiche di rilievo. Non cedendosi al mantra di consentire con collegi piccoli il voto del “collega della porta accanto” (null’altro che un mito, in concreto privo oltretutto di sostanziale significato vista l’ampiezza dei distretti e le odierne possibilità di comunicazione che annullano le distanze), si prevede che il collegio per i componenti di legittimità sia nazionale, che quelli per i componenti pm siano solo due, e solo quattro quelli per i giudici di merito, creandosi così dei macro-collegi. Questi ultimi, se non li eliminano, certo attenuano di molto i rischi che i localismi abbiano un peso decisivo nella scelta dei consiglieri. 

Come si è visto, è stato disposto che i collegi siano determinati con «decreto del Ministro della Giustizia» emanato a regime «almeno quattro mesi prima del giorno fissato per le elezioni», «sentito il CSM» per un parere obbligatorio, ma non vincolante. 

Sui collegi, la questione centrale è capire quale sia per la legge, tra quelli posti, il criterio prioritario da seguire nella decisione sulla loro formazione.

La formula legislativa appare al riguardo chiara. Il Ministro deve, sì, tener conto dell’esigenza di garantire che tutti i magistrati del singolo distretto di corte d’appello tendenzialmente siano inclusi nel medesimo collegio, e che vi sia continuità territoriale tra i distretti inclusi nei singoli collegi, ma ciò solo quali criteri di partenza, l’esigenza dichiaratamente prioritaria da seguire essendo nella norma, già per dato letterale, il «garantire la composizione numericamente equivalente del corpo elettorale dei diversi collegi», se è vero che a tal fine è fatta «salva la possibilità» di sottrarre dai singoli distretti «uno o più uffici per aggregarli al collegio territorialmente più vicino»: la composizione equivalente «del corpo elettorale» – evidentemente non in assoluto, ma per massima approssimazione – è quindi criterio cui, se necessario, piegare geografia e composizione dei distretti.

Si tratta evidentemente di scelta del tutto razionale, in relazione alla necessaria pari rappresentatività dei componenti da eleggere. Ogni collegio per l’elezione di pm e di giudici di merito deve, infatti, innanzitutto eleggere direttamente con regola maggioritaria “pura” due consiglieri, e doveva certo evitarsi che in nome di altri criteri, quali una diversa o maggiore contiguità geografica o una diversa o maggiore omogeneità socio-culturale dei territori (decisa e valutata poi da chi, e su cosa? E a che titolo da tutelare?), vi fossero «corpi elettorali» di grandezza diversa.

La soluzione scelta, per giungere alla più approssimata possibile parità numerica del «corpo elettorale» dei singoli collegi, è quella di consentire come extrema ratio di sottrarre dal singolo distretto non solo un circondario di tribunale, ma addirittura in ipotesi «uno o più uffici» dello stesso: soluzione, ancora una volta, assolutamente dirimente in ordine all’enucleazione di quello che è il criterio prioritario da seguire nella formazione dei collegi, ma forse con qualche criticità, residuando nella norma il problema di come in ipotesi sceglierli, il circondario o gli uffici da scorporare: da quale dei distretti del collegio in sovrannumero di popolazione? E, nell’ambito del distretto prescelto, quale circondario, e – in ultima ipotesi – quale ufficio va distaccato ed annesso «al collegio territorialmente più vicino»? L’adottata esigenza della continuità territoriale fa necessariamente propendere per lo scorporo di un intero circondario piuttosto che di singoli uffici, e di un circondario che sia confinante con il territorio di altro collegio.

La scelta prioritaria di approssimare un numero di elettori il più possibile identico nei vari collegi non poteva, poi, non avere per corollario sia la scelta di una determinazione dei collegi in occasione di ogni elezione (e non una volta per tutte), sia il riferimento non agli organici degli uffici, ma al «corpo elettorale», e quindi alle presenze effettive negli uffici. 

È impossibile non fare qui un secondo riferimento alla cronaca, ai collegi formati dal Ministro per le elezioni del 18 settembre 2022. 

Sentito il Csm, il Ministro ha emanato in data 23 giugno 2022 il dm in parola. I collegi sono stati individuati «sulla base dei dati relativi alle presenze giuridiche del personale di magistratura come comunicati al Ministro dal Consiglio in data 20.6.2022» (così il parere del Csm varato dal plenum il 22 giugno 2022: per la cronaca, sono stati così individuati, per i collegi per l’elezione di componenti con funzioni di pm, un collegio formato da 4676 elettori e uno formato da 4565 elettori; per i collegi per l’elezione di componenti giudici di merito, quattro collegi con un numero di elettori, rispettivamente, pari a 2301, 2375, 2349 e 2215: indiscutibile che il Ministero abbia correttamente ricostruito quale sia la priorità di legge nella formazione dei collegi, e che in presenza di un riferimento al «corpo elettorale» si dovessero considerare le presenze fisiche negli uffici: il Csm glielo riconosce, nel citato parere di competenza). 

Nel corso dell’iter di approvazione della legge, da parte di alcuni, anche in Csm, si è poi criticato l’essersi attribuito al Ministro, con il dm in parola così come configurato dalla legge, «il potere di determinare, per ogni elezione, i collegi elettorali, con i conseguenti rischi di una possibile interferenza di scelte discrezionali dell’esecutivo sulle modalità di elezione dei componenti dell’organo di governo autonomo della Magistratura» (così la nota di un gruppo di consiglieri).

Rilevato come trattasi di rilievo critico derivante da sensibilità mai inutilmente spesa, può osservarsi come la necessità del Ministro di garantire al contempo continuità territoriale tra distretti inclusi in uno stesso collegio, aggregazione di interi distretti nello stesso collegio e omogeneità numerica del corpo elettorale dei diversi collegi, ancorandola alle presenze effettive, renda alla fine gli spazi discrezionali del Ministro assai limitati e molto difficilmente utilizzabili per consapevoli interferenze sulle elezioni consiliari, tenuto conto, oltretutto, che non si tratta di determinare collegi piccoli riferiti a realtà particolari che più facilmente possono consentire eventuali decisioni politicamente orientate, ma di macro-collegi molto ampi (quelli per i pm, addirittura ampissimi), rendendo tale genere di ipotetiche valutazioni assai difficoltose e improbabili (essendo però vero che tanto più il Ministro sceglierà di determinare i collegi a ridosso del termine dei «quattro mesi prima» delle elezioni, tanto più saranno difficili strategie di candidati e gruppi legate alla configurazione dei collegi). 

 

7. Le criticità in punto di pluralismo. Le possibili dinamiche politico-associative che la legge può innescare

In punto di tutela del pluralismo in Consiglio, ribadito che un sistema fatto di soli collegi uninominali maggioritari avrebbe facilmente potuto avere effetti devastanti nel facilitare un Csm in ipotesi “monocolore”, espressione di un solo orientamento, va rilevato che, come in tutte le soluzioni dichiaratamente di compromesso (nel caso, tra sistemi a effetti maggioritari e sistemi a effetti proporzionali), la “filosofia” della riforma esprime logiche contraddittorie. 

Così, si crea una “riserva” di proporzionale, e anzi una riserva di proporzionale a tutela rinforzata delle minoranze, riconoscendosi il valore del pluralismo e della presenza in Consiglio di formazioni rimaste minoritarie nei collegi binominali maggioritari, ma il tutto si innesta su un sistema, e come deroga e palliativo a un sistema che è, invece, per i tre quarti dei consiglieri da eleggere, largamente e strutturalmente maggioritario, e che rende concretamente possibile almeno sulla carta la formazione in Consiglio di due grandi “blocchi” di rappresentanza, ciascuno dei quali – se in grado di esprimere una forza su base nazionale anche minimamente rilevante, e tanto più se in presenza di un voto frammentato tra tanti candidati – con grande facilità potrà essere di 6/7 componenti, o anche più ampio (pur magari i due blocchi essendo espressione ciascuno, in ipotesi, di non più del 15/20% dei voti, però sufficienti a far arrivare i loro candidati sempre primi o secondi nei singoli collegi). Sistema che potrebbe poi vedere uno dei blocchi maggioritari, magari composto da 8/9 consiglieri, fare stabilmente maggioranza in Consiglio con un coeso e numeroso gruppo di componenti laici, di affine orientamento culturale e politico (o espressione di forze politiche diverse, ma accomunate dalla finalità di pesare in modo decisivo, e nello stesso segno, nelle scelte consiliari), con l’effetto di ridurre di molto il ruolo dei consiglieri espressione delle componenti rimaste minoritarie, anche se magari rappresentative di percentuali rilevanti di elettorato. Il tutto come se il problema principale fosse garantire quella “governabilità” che in Csm non è necessaria ed evitare quella eccessiva frammentazione della rappresentanza che, oltretutto, è stata presentata nella logica anticorrentizia come un fattore idoneo a impedire, insieme alle maggioranze stabili, quegli accordi “di potere” consolidati tra gruppi che unanimemente, in Parlamento, si è dichiarato di voler rendere difficoltosi.

Ancora: nel dibattito politico si è rifiutato radicalmente di tornare al proporzionale per liste già proprio della legge elettorale del 1975, quale sistema che favorirebbe il correntismo deteriore (oltretutto con un abbaglio storico frutto più di incultura che di malafede, quel sistema avendo accompagnato la fase più affluente e ricca della storia delle correnti). Ma poi si prevede il descritto meccanismo di recupero proporzionale. E, ancora una volta, sfugge la “filosofia” complessiva. 

Singolare, rispetto a regola in genere presente nei sistemi elettorali, e foriero di possibili disfunzioni nella gestione del complessivo processo elettorale, è poi il fatto che non sia previsto per il collegio “virtuale” del recupero proporzionale un numero massimo di collegamenti possibili, ad esempio corrispondente al numero massimo (13) dei magistrati “di merito” da eleggere con i quattro macro-collegi più quello “virtuale” (o, ad esempio, nel doppio o nel triplo di tale numero). Si è evidentemente puntato ad avere una platea vasta, se non vastissima, di candidati (a chiudere la stagione della vecchia legge elettorale, con un numero di candidati pari o di poco superiore agli eleggibili, con ridottissima scelta per l’elettore). Tuttavia, attesa l’evidente convenienza che si può avere in vista della ripartizione dei seggi della quota proporzionale, a candidare in ipotesi decine se non centinaia di candidati (per aumentare la cifra elettorale generale della singola “lista” di collegati) il rischio di disfunzioni è duplice: di disfunzioni tecniche, legate al rischio che si impiantino confronti elettorali in cui l’eccessivo numero di candidati determini criticità al processo elettorale in senso proprio (si pensi ai possibili numerosi contenziosi dinanzi all’Ufficio elettorale centrale, per la legge da risolversi in tempi ristrettissimi), e di disfunzionalità “politiche”, legate al rischio che si impiantino tornate elettorali in cui l’eccessivo numero di candidati – decine, ma in ipotesi anche centinaia – renda assai difficile un reale ed effettivo confronto dei candidati davanti agli elettori sui temi consiliari, con il possibile precipitato di un Consiglio eletto molto più su personalismi che non su un consapevole dibattito sulle diverse opzioni politico-culturali coinvolte dalle attribuzioni consiliari. 

Per altro e diverso profilo, un eccessivo numero di candidati nei singoli collegi (non solo “di merito”) potrà facilmente portare ad una altrettanto eccessiva frammentazione del voto, disperso tra tanti candidati, e in ipotesi a consiglieri eletti, nel “recupero” proporzionale del collegio “virtuale” (ma in ipotesi estrema anche per gli eletti “maggioritari”), con un basso numero di voti, a fronte di altri consiglieri eletti in altri collegi col metodo maggioritario (innanzitutto in quello di legittimità e in quelli per i pm), magari con 1500/2000 voti: con potenziali rischi sulla loro diversa rappresentatività in Consiglio. 

Di certo, e se non altro, proprio la convenienza che il singolo gruppo di candidati collegati ha ad allungare le liste in ipotesi a decine di candidati per alzare la cifra elettorale spendibile nel collegio proporzionale virtuale, prevedibilmente, concorrerà a rendere puramente teorica la possibilità che nel collegio dei giudici di merito si debba arrivare al sorteggio per raggiungere la soglia minima dei 6 candidati. 

Del pari, in un panorama associativo che vede allo stato cinque/sei possibili “formazioni” in vario modo organizzate, e che consente ai singoli di candidarsi e collegarsi senza un numero minimo di firme di presentatori, altrettanto teorica appare la possibilità che si debba arrivare al sorteggio per giungere al minimo di 6 candidati nei due collegi per i pubblici ministeri e nel collegio unico nazionale per i componenti di legittimità, anche perché è evidentemente possibile che, al limite, i gruppi organizzati possano presentare “candidature di servizio” per arrivare al numero di 6 ed evitare comunque l’operatività del sorteggio (essendo invece meno “gestibile” il risultato della parità di genere nelle candidature: qui, presentatisi nei collegi tutti i candidati “volontari”, evidentemente fisiologico potrà essere che uno dei due generi sia meno rappresentato o anche largamente meno rappresentato dell’altro, a innescare il meccanismo del sorteggio, il quale - sia detto incidentalmente, e pur restando una discutibile concessione a una logica che dovrebbe rimanere estranea ai meccanismi di composizione di un organo elettivo di rilievo costituzionale -, in tali sussidiari ed anzi residuali termini, non pare presentare profili di illegittimità costituzionale, non intaccando neanche in minima parte il diritto di elettorato passivo dei singoli magistrati, anzi esaltato nella nuova legge dalla previsione per cui ogni magistrato può candidarsi con una semplice personale dichiarazione, senza un anche minimo numero di firme di presentatori). 

Un fatto pare certo: il meccanismo garantisce che non si possa riprodurre, in nessun collegio, la situazione “quattro pm per quattro seggi” vista alle elezioni del 2018 e ideale “capolinea” del meccanismo creato nel 2002. Nei singoli macro-collegi per giudici di merito, in particolare, per quanto si è detto l’elettore si troverà comunque di fronte una pluralità di candidati, collegati come non collegati: essendo oltretutto tutt’altro che remota la possibilità, come si è visto nell’esempio/simulazione di voto di cui sopra, che in tali collegi possa risultare eletto, magari con i resti, nel collegio virtuale proporzionale un candidato non collegato con grosso seguito personale nel proprio collegio di appartenenza. 

Per il resto, è difficile prevedere quali dinamiche il nuovo sistema potrà determinare, in quanto potrà modificare in futuro il terreno di gioco e le regole di ingaggio del confronto politico-associativo. 

Le elezioni del settembre 2022 daranno evidentemente una prima risposta.

Sulla base della sola lettura della legge, sono possibili solo alcune osservazioni “di quadro”.

Gli effetti che la nuova legge elettorale potrà determinare molto dipenderanno, ed in molto divergeranno, dalla “forza” che le correnti tuttora organizzate saranno in grado di esprimere, dal tipo di seguito che potranno ricevere le loro indicazioni di voto.

Se tale seguito sarà anche in futuro forte, è prevedibile che il Consiglio rimanga composto, per la maggior parte, dalla rappresentanza di più formazioni associative (espressione delle correnti tradizionali, o di nuove aggregazioni), con diritto di tribuna di quelle rimaste minoritarie. Se tale seguito dovesse rivelarsi di molto diminuito o addirittura minimo, il sistema elettorale potrebbe esitare un Consiglio con una maggioranza di consiglieri eletti uti singuli al di fuori di indicazioni collettive e di programmi collettivamente costruiti, estremamente e forse troppo frammentato, in cui sarebbe certamente molto difficile costruire maggioranze sulle grandi scelte di governo autonomo, e con il rischio che il consesso si ripieghi di fatto e si rimpicciolisca ad occuparsi solo di ordinaria amministrazione, e con maggioranze casuali delle cui scelte, a fine consiliatura, non potranno chiamarsi a rispondere che singoli. 

Dal punto di vista dei comportamenti politici – che sempre fisiologicamente le leggi elettorali modificano –, può solo rilevarsi che se i gruppi organizzati più forti riterranno in previsione comunque di rilievo il seguito che potranno avere le loro indicazioni di voto, è prevedibile che possano decidere di presentare nei singoli collegi (territoriali come “di legittimità”) un unico candidato o di concentrare il voto su di un unico candidato per puntare in sicurezza a uno dei primi due posti del collegio. E che, al contrario, i gruppi che si ritengono meno forti ma non del tutto minoritari puntino a trovare rappresentanza nel “proporzionale”, presentando lunghe liste di candidati collegati, per raggiungere un quoziente che garantisca almeno un seggio. 

La criticità maggiore in punto di pluralismo, rilevata si può dire da tutto l’associazionismo giudiziario negli scorsi mesi, resta comunque quella di cui si è già detto: quella per cui un effetto concreto e possibile della nuova legge è che le due formazioni più forti – corrispondenti a due delle attuali correnti, o a future diverse aggregazioni – possano essere in grado di eleggere ciascuna un componente di legittimità, almeno due pm, e quattro giudici di merito nei collegi maggioritari, e magari con tecniche di gestione del voto almeno uno o due componenti nel collegio virtuale proporzionale, arrivando a 7/8 seggi (e una di loro magari a 9, con il “miglior terzo” tra i pm), così costituendo in Consiglio una componente che iper-rappresenta la sua forza effettiva, pur avendo una percentuale non superiore al 15/20%, o magari anche inferiore: essendo comunque eletti nei collegi i due più votati, anche se con pochi voti in assoluto, anche se in caso di scuola con il 5%.

Si tratta di dinamiche possibili. 

Ma tra il dire e il fare c’è, notoriamente, di mezzo il mare, e si tratta di dinamiche immaginabili solo a partire dall’ipotesi di una forte “tenuta” della capacità dei gruppi organizzati di organizzare e blindare il voto su singoli candidati; “tenuta” che, nelle prime elezioni Csm “post-Champagne”, nell’attuale assai fluida situazione interna alla magistratura e dopo quanto avvenuto negli ultimi anni, è tutta da dimostrare , almeno in un certo grado. 

È, del resto, possibile che la legge in prospettiva, per i suoi meccanismi e, innanzitutto, per il favor per le candidature individuali, promuova la figura del candidato e del consigliere cavaliere solitario, magari sull’onda di fenomeni mediatici. Ma questa è un’altra storia, probabilmente oggi collegabile a sistemi elettorali tra i più diversi.

In definitiva, pur con le non certo marginali criticità evidenziate, al Martarellum va comunque riconosciuto di rifiutare l’incostituzionale e irrazionale sorteggio dei candidati quale regola primaria e non eventuale e residuale, e di consentire comunque una composizione consiliare sufficientemente pluralista, con diverse e variegate componenti, anche in ipotesi minoritarie, non necessariamente espressione di gruppi. 

Il concreto funzionamento della democrazia dell’autogoverno dipenderà, come sempre, non dalle regole, ma dalla partecipazione dei magistrati, dal confronto vero sui contenuti dell’azione consiliare.

Come la vicenda delle degenerazioni consiliari ha assai bene evidenziato, e come avviene in tutte le comunità “politiche” in senso ampio, più è ridotta la partecipazione e più avanza il potere delle oligarchie. Con qualsivoglia legge elettorale.