Magistratura democratica

La violazione del dovere del giudice di essere e apparire imparziale

di Antonietta Carestia

Il caso Apostolico ha riproposto il tema dell’imparzialità del giudice, facendo emergere vecchie e nuove questioni che alimentano la conflittualità tra politica e magistratura. L’applicazione del codice etico e specifici corsi di formazione della Ssm, aperti all’avvocatura, sono vie percorribili per una giustizia rispondente alle attese e alle esigenze di tutela dei cittadini.

1. Il nuovo modello di giudice interprete della legge / 2. Codice etico e norme disciplinari / 3. Il caso Apostolico / 4. L’imparzialità del giudice nel sistema delle fonti / 5. La violazione del dovere di essere e di apparire imparziale / 6. Come superare la “mistica” dell’apparenza / 7. Un nuovo rapporto con l’avvocatura

 

1. Il nuovo modello di giudice interprete della legge

Nei primi anni settanta, nel prendere servizio presso il Tribunale di Savona, mia prima sede di assegnazione, il vecchio presidente, con toni paternalistici, mi congedò con la raccomandazione di «Non prendere neppure un caffè al bar con gli avvocati», perché «i giudici devono non solo essere, ma anche apparire imparziali».

Una raccomandazione che mi parve più espressione delle strettoie culturali della vita di provincia che dell’esigenza di un rigoroso rispetto di regole deontologiche. Un commiato che, peraltro, era stato preceduto da un saluto che mi aveva fortemente colpito, ferendo il mio orgoglio di giovane magistrata: «Avevo chiesto un uditore e non una uditrice», queste le parole a prima vista pronunciate.

Da quel giorno, l’imparzialità e il pregiudizio (non solo di genere) sono stati alcuni dei temi di riflessione che hanno accompagnato il mio percorso professionale, ponendomi interrogativi e sollecitando delle risposte. 

Sperimentai poi che quell’abito di riservatezza che dovevo indossare, di fatto, si traduceva in una separatezza esasperata non solo con l’avvocatura, ma con tutto il mondo circostante, impedendo utili scambi culturali e professionali e rendendo altresì difficili le relazioni sociali. Per converso, produceva effetti fortemente aggreganti e autoreferenziali tra i magistrati, tutti quotidianamente presenti in ufficio e impegnati nello studio, nelle discussioni sui casi più difficili da decidere oltre che in lunghe udienze penali e civili. 

È stato un formidabile periodo di acquisizione di tecniche e di nuove conoscenze giuridiche, reso ancora più proficuo dalla presenza di colleghi di grande spessore culturale e umano, ma ho sempre avvertito i limiti di quella scelta, che evocava una concezione quasi castale della figura del magistrato e che di fatto impediva di avere contezza del quadro complessivo dell’esercizio della giurisdizione e di guardare alla realtà fenomenica sulla quale si andava a incidere con la piena consapevolezza degli interessi in gioco e delle effettive esigenze di tutela dei cittadini e/o delle parti coinvolte nel giudizio. 

Eppure, erano già presenti nella giurisdizione nuovi fermenti e segnali di cambiamento.

Dopo il Congresso di Gardone dell’Anm, del 1965, si andava delineando un nuovo modello di giudice che, nel rivendicare l’indipendenza da ogni centro di potere, dava nuovo senso e nuovo contenuto alla funzione di interpretazione della legge, da intendere non più come applicazione automatica delle norme nel loro significato letterale, ma alla luce e in diretta applicazione dei principi della Costituzione, in quanto “principi fondamentali dell’ordinamento giuridico statuale”, salvo eventuali questioni di costituzionalità per le norme che in ipotesi fossero in contrasto con il dettato costituzionale. 

In questa nuova stagione dei diritti mi trovai a svolgere le funzioni di giudice presso il Tribunale per i minorenni di Roma, dove la struttura e le modalità di intervento evocavano scelte e stereotipi culturali di un passato non ancora archiviato, rendendo non facile il fare giustizia e tutelare in concreto i diritti dei minori, anche se nati al di fuori del matrimonio, come imponeva la Costituzione. Fu un’esperienza professionale di grande impatto, che mi consentì di praticare un diritto minorile in continuo divenire, sulla base di una effettiva conoscenza delle dinamiche sociali che facevano da sfondo al singolo caso e che offrivano uno spaccato del disagio morale, che attraversava tutte le classi sociali, per l’emersione di varie forme di violenza, con effetti disgreganti sui nuclei familiari e una sensibile crescita dei fenomeni di devianza minorile.

Una realtà difficile rispetto alla quale, come giudice della persona, non sono stata indifferente. Non potevo esserlo, anche per le peculiarità della funzione svolta e la gravità dei casi da affrontare.

Ma ben presto il vento del cambiamento si diffuse in tutti gli uffici giudiziari. 

Il nuovo modello di giudice che si andava delineando si potenziò nei successivi anni ottanta e novanta. Con le loro significative trasformazioni sociali ed economiche, quegli anni mi portarono, nelle nuove funzioni di giudice civile di primo e secondo grado, ad affrontare le problematiche delle clausole vessatorie, delle tutele del consumatore e anche del nuovo diritto di famiglia, già investito nel 1975 da una profonda riforma. Quest’ultima, in attuazione della Costituzione, aveva rivoluzionato l’istituto della famiglia e dei rapporti familiari, avviando un ampio processo di depurazione di norme inficiate dai residui di una concezione patriarcale della famiglia, ancora oggi presenti nell’organizzazione della società, nella formazione e nell’applicazione della legge.

Fu proprio in questo periodo di forte sviluppo economico, dovuto anche agli effetti di un crescente fenomeno di globalizzazione dell’economia di mercato, che il già difficile rapporto tra magistratura e politica si incrinò per l’emergere di collusioni tra politica e imprenditoria e l’accertamento di gravi comportamenti corruttivi. 

Si trattò di una frattura profonda, che segnò l’inizio di un percorso accidentato e di periodici tentativi da parte della politica di ridurre gli spazi del potere giudiziario, tentativi cui la magistratura non fu sempre in grado di dare risposte adeguate a causa di una crisi interna determinata anche da forme di potere e di sovraesposizione mediatica e dalla scarsa consapevolezza, da parte di alcuni magistrati, della rilevanza del proprio ruolo e della forte incidenza sul comune sentire della società.

 

2. Codice etico e norme disciplinari

In un contesto di fibrillazione del potere politico si colloca il codice etico della magistratura, adottato dall’Anm nel 1994 in applicazione dell’art. 58-bis d.lgs n. 29/1993, (introdotto dal d.lgs n. 546/1993) che, nel disciplinare i rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, prevedeva «per ciascuna magistratura e per l’Avvocatura dello Stato» l’adozione, da parte delle associazioni di categoria, di un codice etico nel termine di 120 giorni, salvo l’intervento dell’organo di autogoverno in caso di inutile scadenza.

Della anomalia di questo atto di nascita vi è traccia nella «Premessa» del codice, in cui si sollevano dubbi di costituzionalità sulla disposizione di legge «sia sotto il profilo dell’eccesso di delega sia sotto quello della violazione della riserva assoluta di legge in materia di ordinamento giudiziario», dandosi comunque atto dell’opportunità della individuazione di norme etiche, anche se prive di efficacia giuridica, come espressamente si sottolineò.

Nonostante le esplicite finalità e il linguaggio descrittivo dei comportamenti da tenere, il codice fu riversato in modo alquanto confuso nella nuova normativa sugli illeciti disciplinari, già oggetto della generica disposizione di cui all’art. 18 rd.lgs 31 maggio 1946, n. 511 («Guarentigie della Magistratura»), che per decenni era stata l’unica fonte normativa di riferimento in materia di illeciti disciplinari dei magistrati. 

La nuova disciplina approvata con d.lgs 23 febbraio 2006, n. 109, sul finire della XIV legislatura, all’art. 1, comma 1, elencava i doveri di «imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio» che fanno carico al magistrato, oltre al rispetto della dignità della persona, aggiungendo, al comma 2: «il magistrato, anche fuori dell’esercizio delle proprie funzioni, non deve tenere comportamenti, ancorché legittimi, che compromettano la credibilità personale, il prestigio e il decoro del magistrato o il prestigio della istituzione giudiziaria»; il comma 3 si limitava a prevedere la tassatività degli illeciti perseguibili nelle ipotesi previste negli articoli successivi (2, 3 e 4).

Nel corso della XV legislatura, sotto il Governo Prodi, con legge 24 ottobre 2006, n. 269, con un insolito intervento legislativo che rifletteva la tensione dei rapporti tra politica e magistratura, venne modificata in più punti la disciplina appena entrata in vigore e, in particolare, vennero abrogati i commi 2 e 3 dell’art. 1 sopra indicati. 

Quanto agli illeciti disciplinari fuori dell’esercizio delle funzioni elencati all’art. 3, comma 1, venne abrogata la lettera l, che conteneva una clausola di chiusura con la generica previsione che costituiva illecito disciplinare «ogni altro comportamento tale da compromettere l’indipendenza, la terzietà e l’imparzialità del magistrato, anche sotto il profilo dell’apparenza» (c.vo aggiunto).

 

3. Il caso Apostolico

Il caso della giudice Apostolico ha riacceso i fari su una disciplina che cade periodicamente sotto i riflettori.

Come diffusamente riportato dalla stampa, con provvedimento del 29 settembre 2023, la giudice del Tribunale di Catania non ha convalidato il provvedimento del Questore di Ragusa, relativo al trattenimento di immigrati provenienti da Paese di origine designato come “sicuro”, sul rilievo che la normativa di riferimento è in contrasto con la normativa comunitaria. Le sezioni unite della Corte di cassazione, a seguito di ricorso proposto dal Ministro della giustizia, hanno emesso in data 30 gennaio 2024 ordinanza interlocutoria con la quale, in applicazione dell’art. 267 Trattato UE, hanno chiesto alla Corte di giustizia di pronunciarsi in via pregiudiziale sulla questione di interpretazione del diritto dell’Unione europea in materia. 

Forti reazioni ha suscitato la diffusione di alcuni video che documentavano la partecipazione della Apostolico a una manifestazione pubblica tenutasi alcuni anni prima a sostegno dei migranti, comportamento che – secondo le considerazioni espresse dal Ministro della giustizia in risposta a un’interrogazione parlamentare – non configura un illecito disciplinare, ma potrebbe giustificare «l’introduzione di un illecito per i magistrati che, nella loro vita privata, tengono comportamenti che potrebbero compromettere l’indipendenza, la terzietà e l’imparzialità del magistrato, anche sotto il profilo dell’apparenza». 

Il progetto sembra essere quello di reintrodurre l’illecito disciplinare di cui all’art. 3, comma 1, lett. l del d.lgs n. 109/2006, disposizione abrogata dalla legge n. 269/2006.

Il caso ha sollevato interrogativi sui contenuti del dovere di imparzialità del giudice e sulla rilevanza etica e/o disciplinare dei comportamenti dei magistrati, sia nell’esercizio che al di fuori delle funzioni, in violazione del dovere di imparzialità o, meglio, dell’immagine di imparzialità.

 

4. L’imparzialità del giudice nel sistema delle fonti

Nel nostro sistema, l’imparzialità del giudice costituisce un principio-cardine della giurisdizione ed ha avuto il riconoscimento di principio costituzionale con la modifica dell’art. 111 Costituzione, avvenuta con la legge di riforma n. 2/1999, mediante l’inserimento di un secondo comma («Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata» – c.vo aggiunto), ma già in precedenza costituiva un principio immanente nel sistema, assistito da una copertura costituzionale desumibile dagli artt. 3 (principio di uguaglianza) e 24 (diritto inviolabile di difesa) della Costituzione. 

In sintesi, anche sulla base delle comuni acquisizioni di dottrina e giurisprudenza, la terzietà garantisce, sotto il profilo istituzionale, l’estraneità del giudice alle funzioni dell’accusa e della difesa, mentre l’imparzialità attiene al giudizio e richiede che il giudice sia libero da pregiudizi, frutto di preconvinzioni o preconvincimenti che possono incidere sulla formazione della decisione. 

L’imparzialità trova il suo presupposto necessario nel requisito dell’indipendenza, che assicura l’autonomia del singolo giudice nell’ordine giudiziario di appartenenza, in quanto inamovibile e non soggetto a distinzioni di tipo gerarchico (artt. 104 e 107 Cost.), ma si configura anche come un dover essere che informa e guida l’agire del giudice e assume specifica rilevanza nel momento decisorio del singolo processo, essendo il giudice soggetto solo alla legge (art. 101 Cost.) e dovendo trovare nell’ordinamento giuridico le regole di giudizio del caso concreto. 

Imparzialità e indipendenza, in quanto dirette ad assicurare il giusto processo (art. 111, primo comma, Cost.), nella disciplina dei codici sono assistite da specifiche forme di tutela che, attraverso gli istituti dell’astensione e della ricusazione, rendono funzionale il sistema (artt. 34, 35 cpp e 51 cpc). Specifiche ipotesi di incompatibilità sono altresì previste per il giudice penale, preordinate ai fini dell’operatività dell’astensione e/o della ricusazione, oltre alla rimessione ad altro giudice al fine di tutelare la libera determinazione delle persone che partecipano al processo, nel caso di gravi condizioni ambientali tali da turbarne il corretto svolgimento. 

Trattasi di un articolato sistema di garanzie a tutela dei diritti fondamentali, cui poi si sono aggiunti i principi di fonte europea e internazionale. 

Al riguardo, va richiamata la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, adottata il 12 dicembre 2007, che ha lo stesso valore dei Trattati e che, all’art. 47, riconosce il diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale, nonché la Magna Charta dei giudici adottata il 17 novembre 2010 dal Consiglio consultivo dei giudici europei (CCJE), che all’art. 2 enuncia i principi fondamentali dell’indipendenza e dell’imparzialità del giudice quali precondizioni essenziali per l’adeguato funzionamento della giustizia, e all’art. 11 rende applicabile lo statuto dell’indipendenza anche ai pubblici ministeri.

La Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu), ratificata dall’Italia con legge n. 848 del 1955, all’art. 6, comma 1, prevede che «Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge».

In numerose pronunce, la Corte Edu è ferma nel richiedere l’accertamento del requisito dell’imparzialità sotto un duplice profilo, soggettivo e oggettivo, per verificare, nel primo caso, l’incidenza sul dovere di imparzialità del giudice di eventuali convinzioni personali o di comportamenti tenuti con riguardo al singolo procedimento, tali da far emergere un suo interesse personale nel giudizio, presumendosi altrimenti la sua imparzialità; per accertare, nel secondo caso, l’esistenza di fatti che, a prescindere dalla condotta tenuta in concreto dal giudice, possano generare dubbi, oggettivamente giustificabili, sulla sua imparzialità, assumendo importanza sotto questo profilo anche le apparenze, perché «non si deve solo fare giustizia, ma si deve anche vedere che è stata fatta», essendo in gioco «la fiducia che in una società democratica i tribunali devono ispirare nei cittadini» (tra le più recenti: Daineliene c. Lituania, 16 ottobre 2018; Morice c. Francia [GC], 23 aprile 2015).

 

5. La violazione del dovere di essere e di apparire imparziale

Qual è la ricaduta sul piano disciplinare della violazione del dovere di imparzialità che il giudice deve praticare, sotto il profilo dell’essere e dell’apparire imparziale?

Il d.lgs n. 109/2006, di recente modificato con la previsione di nuovi illeciti[1], all’art. 1 include l’imparzialità tra i doveri fondamentali del magistrato, insieme a quelli di correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo, equilibrio e rispetto della dignità della persona, la cui violazione costituisce antecedente logico necessario degli illeciti funzionali ed extrafunzionali elencati negli artt. 2 e 3.

Gli illeciti conseguenti a reato ricadono sotto la disciplina dell’art. 4, che alla lett. d, in via residuale, attrae nell’area del disciplinare qualunque fatto costituente reato idoneo a ledere l’immagine del magistrato anche nei casi di estinzione del reato per qualsiasi causa o di sentenza di non luogo a procedere.

Tra gli illeciti funzionali previsti dall’art. 2, comma 1, va segnalata la «consapevole inosservanza dell’obbligo di astensione nei casi previsti dalla legge» (lett. c), che di recente il Csm ha ritenuto applicabile anche al pm che «omette di astenersi dalla trattazione di un procedimento penale riguardante un soggetto con cui ha un rapporto di frequentazione giacché la sua attività può anche solo apparire infirmata da un interesse personale o familiare», in conformità a un orientamento già espresso dalle sezioni unite[2], che hanno interpretato l’art. 52 cpp (astensione facoltativa del pm) alla luce del dovere generale di astensione previsto dall’art. 323 cp in caso di ricorrenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto.

Significativa è la liberatoria previsione contenuta nel comma 2, con la quale si esclude la rilevanza disciplinare dell’attività di interpretazione di norme di diritto e di valutazione del fatto e delle prove, salvo le eccezioni espressamente previste (che attengono in gran parte a ipotesi gravi di ignoranza o negligenza inescusabili), a conferma che il diffuso impegno di tanti giovani magistrati della mia generazione nel fare applicazione del diritto secondo i nuovi valori e i principi espressi dalla Costituzione e dalle fonti europee si muoveva nella giusta direzione.

Tra gli illeciti extrafunzionali di cui all’art. 3, dopo l’abrogazione della disposizione di cui alla lett. l, l’ipotesi di maggior interesse sotto il profilo della violazione dell’obbligo di imparzialità è quella prevista dalla lett. h, nel testo sostituito dal d.lgs n. 269/2006, che riguarda «l’iscrizione o la partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici ovvero il coinvolgimento nelle attività di soggetti operanti nel settore economico o finanziario che possono condizionare l’esercizio delle funzioni o comunque compromettere l’immagine del magistrato».

Con una lontana sentenza, la Corte costituzionale, nel dichiarare non fondate le questioni di costituzionalità dell’art. 18 rd.lgs n. 511/1946 sollevate dal Csm per violazione (anche) dell’art. 21, comma 1, Cost., affermava che «i magistrati, per dettato costituzionale (artt. 101, comma secondo, e 104, comma primo) debbono essere imparziali e indipendenti e tali valori vanno tutelati non solo con specifico riferimento al concreto esercizio delle funzioni giurisdizionali ma anche come regola deontologica da osservarsi in ogni comportamento al fine di evitare che possa fondatamente dubitarsi della loro indipendenza ed imparzialità» (Corte cost., n. 100/1981 – c.vo aggiunto).

Una motivazione che ritroviamo anche nella sentenza n. 170/2018, con la quale il giudice delle leggi, pronunciandosi sul ricorso incidentale proposto dal Csm nel procedimento disciplinare a carico di M.E., ha dichiarato non fondate le questioni sollevate in ordine al divieto per i magistrati di iscrizione e partecipazione sistematica e continuativa ai partiti politici, sanzionato dall’art. 3, lett. h, d.lgs n. 109/2006, applicabile anche ai magistrati collocati in aspettativa per motivi elettorali, sottolineando che la scelta legislativa, all’esito del bilanciamento fra titolarità dei diritti fondamentali da parte dei magistrati (artt. 17, 18 e 2 Cost.) e tutela dei principi di indipendenza e imparzialità, non impedisce di riconoscere al cittadino magistrato di manifestare legittimamente le proprie idee, anche di natura politica, a condizione che ciò avvenga con l’equilibrio e la misura che non possono non caratterizzare ogni suo comportamento di rilevanza pubblica[3].

Il ricorso proposto da M.E. avverso la sentenza n. 30/2009, emessa dal Csm a definizione del procedimento, è stato rigettato dalle sezioni unite con sentenza n. 8906/2020. 

Con una motivazione molto elaborata, le sezioni unite, esaminando le questioni di costituzionalità dell’art. 3, lett. h, d.lgs n. 109/2006, sollevate dal ricorrente sotto profili diversi da quelli già oggetto di controllo da parte della Corte costituzionale, hanno richiamato le precedenti decisioni in materia, precisando che l’esercizio della funzione giurisdizionale impone al giudice non soltanto di essere esente da ogni «parzialità», ma anche di essere «al di sopra di ogni sospetto di parzialità», aggiungendo che, mentre l’essere imparziale si declina in relazione al concreto processo, «l’apparire imparziale costituisce, invece, un valore immanente alla posizione istituzionale del magistrato, indispensabile per legittimare, presso la pubblica opinione, l’esercizio della giurisdizione come funzione sovrana».

 

6. Come superare la “mistica” dell’apparenza

Nonostante il linguaggio alto delle Corti, il dovere dell’apparenza di imparzialità ha perduto la sua originaria e forte valenza simbolica per divenire, nell’uso corrente, una espressione stereotipata, che – come già da alcuni rilevato[4] – sembra alimentare una “mistica” dell’apparenza, con effetti di sottovalutazione e/o di incidenza negativa, in particolare per quanto attiene all’esercizio dei diritti di libera manifestazione del pensiero e di partecipazione alla vita culturale, sociale e anche politica del Paese, che vanno riconosciuti anche al cittadino magistrato.

Trattasi di posizioni che meritano un’attenta e pacata riflessione, che la magistratura associata, in tutte le sue articolazioni, ha da tempo avviato dopo le ferite del caso Palamara, oggi ancora aperte. 

In questo nuovo percorso, che si va delineando con il coinvolgimento di tutti i magistrati, va privilegiato il valore dell’imparzialità come tensione del giudicare che si realizza attraverso l’esercizio costante dell’indipendenza da se stessi e da pregiudizi e condizionamenti esterni di varia natura, costituendo una precondizione essenziale per l’esercizio della giurisdizione. Ma è necessario fare maggior chiarezza sulla portata del valore dell’imparzialità e sulla sua operatività in concreto, uscendo dal gioco di parole e avendo come stella polare la Costituzione, con i suoi principi di uguaglianza e libertà di manifestazione del pensiero, che appartiene anche al magistrato.

In questa nuova fase, un ruolo centrale deve svolgere (e va riconosciuto) all’Anm, perché i tentativi in atto del potere politico di incidere sul potere giudiziario, modificando gli equilibri e gli assetti del sistema quali delineati dalla Costituzione, richiedono uno sforzo collettivo, oltre che dei singoli magistrati, non per alimentare una sterile contrapposizione, ma per concorrere fattivamente alla soluzione dei tanti problemi che gravano sulla giustizia, pur nel rispetto delle proprie competenze.

Mettere al centro della riflessione il codice etico dell’Anm potrebbe essere un primo passo per recuperare un’etica non minimale della professione e restituire alla figura del giudice la consapevolezza dei doveri che sono coessenziali all’attività del giudicare, ma anche per rafforzare la credibilità del sistema e la fiducia dei cittadini nei giudici.

Nella previsione degli artt. 8 e 9 del codice etico troviamo una ragionevole e persuasiva disciplina dei doveri che devono presidiare la vita professionale del magistrato, ovvero la dimensione pubblica della sua vita di relazione sociale, tra i quali il dovere di mantenere «una immagine di imparzialità e di indipendenza» e di «evitare qualsiasi coinvolgimento in centri di potere partitici o affaristici che possano condizionare l’esercizio delle sue funzioni o comunque appannarne l’immagine»; più specificamente, l’art. 9 impegna il magistrato a «rendere effettivo nell’esercizio delle funzioni il valore dell’imparzialità (…) a superare i pregiudizi culturali che possono incidere sulla comprensione e valutazione dei fatti e sulla interpretazione ed applicazione delle norme», ma anche ad assicurare che, nell’esercizio delle funzioni, «la sua immagine di imparzialità sia sempre pienamente garantita, a tal fine valutando con il massimo rigore la ricorrenza di situazioni di possibile astensione per gravi ragioni di opportunità».

Anche per il pm è previsto, nell’art. 13, il dovere di comportarsi con imparzialità nello svolgimento del proprio ruolo, acquisendo «elementi di prova a favore dell’indagato», secondo quanto già previsto dall’art. 358 cpp, a conferma del ruolo non meramente accusatorio del pm, tenuto invece a esercitare la sua funzione senza preconcetti, con il solo intento di fare corretta applicazione della legge.

Rivisitare il codice etico, aggiornandolo con i principi di deontologia che si vanno affermando a livello europeo e internazionale, facilitarne la conoscenza tra i magistrati e attuarlo in tutte le sue articolazioni, rendere visibile l’attività del Collegio dei probiviri, ad oggi quasi sconosciuta, è un obiettivo che va perseguito con convinzione e lungimiranza, al fine di contrastare il tentativo in atto di depotenziare l’azione della magistratura con effetti negativi sui diritti dei cittadini a un’effettiva risposta di giustizia.

Peraltro, l’istituzione di una Procura europea (EPPO) come organismo indipendente dell’ Unione europea, operativa dal 1° giugno 2021, sollecita un aggiornamento, anche alla luce dei pareri adottati in materia dalla Commissione europea per la democrazia attraverso il diritto (cd. “Commissione di Venezia”), dal Consiglio consultivo dei procuratori europei (CCPE) e dalla Rete europea dei consigli di giustizia (ENCJ)[5]

Funzionale a questo progetto è la Ssm, struttura in via di espansione, che già da tempo organizza seminari sul codice etico e sulle questioni relative agli illeciti disciplinari, con felici incursioni sulle problematiche che vanno emergendo in tema di uso della tecnologia informatica e di linguaggio degli atti giudiziari inficiati da radicati pregiudizi di genere[6]; un programma di grande complessità per le energie professionali coinvolte, ma articolato secondo modalità e tempi che andrebbero rivisitati perché insufficienti ad assicurare una diffusa partecipazione dei magistrati.

Forse questa è la risposta che può essere data alla proposta del Ministro della giustizia di reintrodurre la clausola generale di chiusura degli illeciti disciplinari fuori delle funzioni.

Diffondere la conoscenza e rendere praticabile il codice etico significa, infatti, scaricare il disciplinare da improprie applicazioni ed estensioni e rafforzare l’etica dei magistrati, favorendo una nuova cultura che, in modo più appropriato, riporti l’apparenza di imparzialità nei confini della credibilità del magistrato[7], valore che implica e, forse, meglio esprime la necessaria immagine pubblica di imparzialità del giudice.

 

7. Un nuovo rapporto con l’avvocatura

Un ulteriore profilo va preso in considerazione ai fini e nell’ambito del processo di rinnovamento in corso.

Quella separatezza, predicata dal mio vecchio presidente, in termini di chiusura al mondo dell’avvocatura è una delle cause che hanno certamente alimentato la situazione di conflittualità tra avvocatura e magistratura, risalente nel tempo ma che, da ultimo, ha assunto toni particolarmente accesi.

È necessario guardare nel profondo alle cause di questo conflitto e contrastare quel senso di esclusione e reciproca separatezza, non superabile a mio parere con il diritto di tribuna né, tanto meno, modificando la proporzione dei laici nella composizione del Csm (questioni oggi molto dibattute e fonte di ulteriori contrasti con l’avvocatura e la politica) ma instaurando un dialogo costruttivo che porti a uno scambio di saperi ed esperienze, anche attraverso percorsi di comune formazione. 

I principi di Bangalore sulla condotta dei giudici, approvati nel 2002 dai presidenti delle Corti supreme dei Paesi di civil law, su mandato ONU, indicano tra i valori di riferimento, oltre all’indipendenza e all’imparzialità, anche la correttezza («propriety») che deve presiedere a tutte le attività del giudice, il quale, nei rapporti con gli avvocati del foro in cui opera, deve evitare comportamenti che possano ragionevolmente far sorgere sospetti o ingenerare l’apparenza di favoritismi o parzialità («the appearance of propriety»). Nell’assoluto rispetto di questi limiti, credo che le occasioni di scambio culturale e professionale siano non solo opportune, ma necessarie per acquisire un linguaggio comprensibile e strumenti di analisi comuni, per avere una migliore conoscenza delle problematiche della giustizia e per dare un fattivo contributo alla loro soluzione.

Percorsi di formazione comune tramite la Ssm, che peraltro ha già aperto in via sperimentale alla partecipazione di avvocati ed esperti, può concorrere ad assolvere questa funzione, delineando nuovi modelli operativi più rispondenti alle esigenze di rinnovamento del sistema e alle istanze di giustizia dei cittadini. 

 

 

1. Con l’art. 11 della legge n. 71/2022 sono stati introdotti nuovi illeciti disciplinari a modifica degli artt. 2 e 3 d.lgs n. 109/2006, oltre agli istituti della estinzione e della riabilitazione. 

2. Vds. Csm, n. 154/2022; Cass., sez. unite, nn. 21853/2012 e 33537/2018.

3. Il procedimento riguarda il caso del Sindaco di Bari, magistrato da tempo fuori ruolo per svolgere incarichi di partito e mandati di rappresentanza politica. Ma, già con sentenza n. 224 del 2009, la Corte aveva dichiarato infondata la questione di costituzionalità dell’art. 3, comma 1, lett. h, sollevata dalla sezione disciplinare del Csm per violazione degli artt. 2, 3, 18, 49 e 98 Cost., in relazione all’accettazione ed esercizio di una carica di partito, sul rilievo che la partecipazione a un partito, rispettoso del metodo della legge fondamentale e quindi non organizzato militarmente, costituisce espressione di un diritto della personalità oltre che irrinunciabile strumento di democrazia e, dunque, estensione del principio di cui all’art. 3 Cost. (Csm, ord. n. 23/2008).

4. G. Natoli e D. Bifulco, Il codice etico dei magistrati tra effettività, prassi e tempo, in Giustizia insieme, n. 1/2010, pp. 27-42 (www.giustiziainsieme.it/PIDIEFFE/Pages%20from%203180%20interno-3.pdf); G. Cataldi, I giudici, l’imparzialità e la moglie di Cesare, in Questione giustizia online, 20 ottobre 2023 (www.questionegiustizia.it/articolo/i-giudici-l-imparzialita-e-la-moglie-di-cesare); E. Scoditti, Magistrato e cittadino: l’imparzialità dell’interprete in discussione, ivi, 22 novembre 2023 (www.questionegiustizia.it/articolo/magistrato-e-cittadino-l-imparzialita-dell-interprete-in-discussione), ora in questo fascicolo.

5. Più diffusamente, vds. E. Bruti Liberati, Principi deontologici del pubblico ministero in Europa, in questa Rivista trimestrale, n. 2/2021, pp. 95-102 (www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/942/2-2021_qg_brutiliberati.pdf).

6. La Corte Edu, con sentenza del 27 maggio 2021, relativa al ricorso J.L. c. Italia, ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 8 della Convenzione in relazione a una decisione della Corte di appello di Firenze, sul rilievo che il linguaggio utilizzato dai giudici di appello, con l’uso di stereotipi sessisti, aveva esposto la vittima a vittimizzazione secondaria. Sul tema del pregiudizio nel linguaggio giuridico, la Ssm ha programmato per il 2024 un corso di formazione molto articolato.

7. N. Rossi, L’etica professionale dei magistrati: non un’immobile Arcadia, ma un permanente campo di battaglia, in questa Rivista trimestrale, n. 3/2019, pp. 44-57 (www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/649/qg_2019-3_05.pdf); G. Luccioli, I principi deontologici nella professione del magistrato, in Giudicedonna, n. 1/2018; E. Riva Crugnola, Codice etico dei magistrati, collegio dei probiviri della ANM: questi sconosciuti?, in Questione giustizia online, 10 novembre 2023 (www.questionegiustizia.it/articolo/codice-etico-dei-magistrati-collegio-dei-probiviri-della-anm-questi-sconosciuti); L. Ferrajoli, Giustizia e politica. Crisi e rifondazione del garantismo penale, Laterza, Bari, 2024.