Magistratura democratica
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Il fascino discreto della carriera. Dirigenza giudiziaria: proposte a confronto

di Massimo Michelozzi
sostituto procuratore della Repubblica, Tribunale di Venezia
Alcune scelte operate dal Csm in materia di nomine ad incarichi dirigenziali ed in Cassazione, che sono state oggetto di critiche in ambito associativo e tra i magistrati, hanno indotto i gruppi della magistratura associata ad elaborare ed offrire alla valutazione dei colleghi proposte per superare le criticità imputate al sistema del conferimento degli incarichi disciplinato dal testo unico sulla dirigenza giudiziaria (TUD) come riformato con delibera del 28 luglio 2015. In particolare, in tal senso si sono mosse, con un occhio rivolto anche alle prossime elezioni per il rinnovo della componente togata del Csm, Autonomia e indipendenza e Area democratica per la giustizia.

Le proposte di Autonomia e indipendenza

La corrente Autonomia e indipendenza (ultima nata il 28 febbraio 2015, ma, fino a quella data, parte di Magistratura indipendente, una delle prime correnti sorte in seno all’Anm) ha recentemente sottoposto a “consultazione on-line” tra i magistrati cinque proposte di riforma del TUD in materia di criteri per il conferimento di incarichi dirigenziali, per le nomine in Cassazione e Massimario, per gli incarichi al Csm, nonché di trasparenza per tutte le procedure concorsuali.

Queste le proposte relative agli incarichi dirigenziali: per gli incarichi direttivi, reintroduzione delle “fasce di anzianità” e dello “spiccato rilievo”; per gli incarichi semidirettivi, punteggi funzionali attribuiti oggettivamente (in relazione ad: anni di svolgimento di funzioni giudiziarie e di svolgimento di funzioni omologhe a quelle del posto a concorso; pregressi incarichi semidirettivi o attività di coordinamento o specifiche esperienze organizzative in ruolo).

Nelle intenzioni, si dovrebbe in tal modo realizzare «il bene della credibilità del Csm» ed «il bene del servizio giustizia» rendendo chiaro e prevedibile l’esercizio della discrezionalità «per realizzare percorsi di carriera che tutti i magistrati preparati e laboriosi possono percorrere» in cui «le specifiche competenze ed attitudini siano valutate sulla base di parametri sempre più oggettivi, predeterminati e non derogabili e (…) la positiva esperienza professionale (…) sia (…) adeguatamente valorizzata» [1].

Quale analisi alla base di tali proposte?

A&I imputa alla «discrezionalità senza regole» esercitata dal Csm nelle nomine dei dirigenti degli uffici «la morte della carriera» intesa come «percorso professionale in cui tutti possono, nel corso del tempo, con l’impegno, il sacrificio ed il merito, essere nominati per posti apicali». Ed indica nelle «degenerazioni del correntismo» (cui, ovviamente, la neocorrente si chiama fuori… anche per il periodo ante 28 febbraio 2015..?), la causa della sostituzione della carriera con il «carrierismo» e cioè «l’affannosa ricerca di appoggi in Consiglio, convinti che tanto tutto sarà possibile a prescindere dall’anzianità, dai titoli attitudinali, dal percorso professionale sino a quel momento svolto».

A questi mali – discrezionalità, correntismo – i rimedi sono: «limitare l’eccessiva discrezionalità del Csm (…) con attribuzione di punteggi oggettivi che tengano conto dell’esperienza professionale esercitata nelle funzioni omogenee, con la massima valorizzazione dell’esercizio continuativo dell’attività giudiziaria» e «ridare valore all’anzianità», ridefinita «esperienza professionale», «positivo esercizio dell’attività giudiziaria protratto nel tempo» (cioè nulla di più e di diverso del numero delle valutazioni quadriennali di professionalità con esito positivo, quindi … dell’anzianità di servizio) [2].

A sua volta il rilievo dell’anzianità è dovuto in quanto, a differenza di quanto accade per la dirigenza nella magistratura, «in qualsiasi altro ambito lavorativo (…), l’esperienza professionale dei candidati rappresenta un cardine tra i criteri di scelta da parte del datore di lavoro per gli avanzamenti di carriera» [3].

Altre proposte, poi, A&I ha avanzato con riferimento alla valutazione comparativa dei candidati a posti dirigenziali [4].

Le ipotesi di lavoro di Area democratica per la giustizia

A sua volta, il Coordinamento nazionale di Area democratica per la giustizia ha recentemente diffuso in rete un documento contenente «Dieci ipotesi per cambiare le regole per le nomine», accompagnate dalle relative possibili controindicazioni, invitando i magistrati al confronto.

Nelle premesse si prende atto che non è stato raggiunto l’obiettivo, perseguito dal Csm con il nuovo TUD, di «assicurare prevedibilità e leggibilità delle nomine di dirigenti» e che nelle nomine in Cassazione «i criteri di selezione sono scarsamente intellegibili».

Si ritiene, pertanto, necessario procedere alla «revisione» del TUD per assicurare «coerenza e trasparenza alle decisioni consiliari in materia di nomine», rifuggendo un ritorno ad un passato che non ha dato buona prova e «soluzioni di retroguardia che promuovano l’anzianità “a prescindere” e mortifichino i giovani».

E, con riferimento alle nomine in Cassazione e Massimario, individuare «criteri selettivi trasparenti e verificabili».

Delle «ipotesi di lavoro» indicate, alcune hanno valenza procedurale (trasparenza totale; calendarizzazione delle decisioni; prelevamento di atti del dirigente e interlocuzione dei magistrati dell’ufficio nella procedura di conferma dopo il quadriennio).

Altre riguardano i criteri per le nomine ai posti direttivi e semidirettivi (valorizzazione dell’anzianità come indice dell’esperienza professionale acquisita con riferimento ai tempi in cui è stata svolta, ai risultati dello svolgimento dell’attività e dei vari incarichi; differenziazione degli indicatori attitudinali, determinazione del “peso” delle esperienze fuori ruolo e differenziazione a seconda della loro prossimità o meno alla giurisdizione; tabellarizzazione dei semidirettivi; valorizzazione della specializzazione per i posti semidirettivi nei settori fallimentare, famiglia, imprese, riesame, prevenzione e nelle Magistrature minorili e di sorveglianza) [5].

Il segno politico di tali proposte si rinviene nella mozione finale approvata nell’Assemblea nazionale di Area di Roma del 26-27 novembre 2016.

In essa si affermava che il fine dell’esercizio della discrezionalità nelle scelte del Csm deve essere «l’individuazione del magistrato più idoneo a ricoprire un determinato incarico, nell’esclusivo interesse dell’Ufficio» e che la discrezionalità delle scelte è «propria dell’alto ruolo» riconosciuto dalla Costituzione al Csm e, pertanto, non può essere compressa da «criteri oggettivi così esaurienti da rendere automatica la scelta dei direttivi», dovendosi, invece, elaborare «linee di orientamento che possano riempire di contenuti» la discrezionalità e renderne migliore e più coerente l’esercizio.

In tal senso si indicava, relativamente alle esperienze fuori ruolo, la necessità, da un lato, di una attenta e specifica valutazione delle diverse esperienze, dall’altro dello svolgimento di attività giudiziaria per un congruo periodo successivamente alla cessazione dall’incarico fuori ruolo in caso di incarichi politici, o di scelta politica, o di lunga durata.

Relativamente all’anzianità di servizio, si rifiutava la rilevanza del solo criterio dell’anzianità, indicandosi l’obiettivo della valorizzazione della durata della concreta esperienza giudiziaria e della efficacia dei risultati raggiunti in essa.

Relativamente alle conferme al quadriennio di esercizio di funzioni dirigenziali, si sottolineava l’esigenza di un maggior rigore nelle valutazioni, a tal fine valendo l’introduzione di fonti di conoscenza procedimentalizzate.

Nei passaggi da un incarico dirigenziale ad un altro, infine, si indicava la necessità di una adeguata valutazione dei concreti risultati raggiunti, evitandosi automatismi, al fine di promuovere l’effettiva temporaneità degli incarichi dirigenziali in linea con il principio costituzionale per cui i magistrati si distinguono solo per diversità di funzioni.

Si individuavano, altresì, i temi della partecipazione dei magistrati dell’ufficio alla scelta dei dirigenti, dell’ampliamento delle fonti di conoscenza da utilizzare nelle valutazioni comparative per gli incarichi direttivi, della «tabellarizzazione degli incarichi semidirettivi» [6].

Le diverse proposte presentano elementi comuni (quali quelle relative alla trasparenza ed alla valorizzazione dell’anzianità) ma anche evidenti diversità, così come ben distinte ne sono le relative basi di partenza.

Per una analisi critica, occorre allora fare chiarezza sui concetti di fondo che fungono da premessa di ogni discorso sulla dirigenza giudiziaria e sui criteri per il conferimento degli incarichi dirigenziali: il «senso» della discrezionalità del Csm, l’obiettivo della selezione, la «carriera» in magistratura, il «senso» della dirigenza giudiziaria.

Solo così è possibile cogliere, delle diverse proposte, le diverse ed opposte funzionalità e ricadute rispetto al modello di magistratura e di magistrato che vogliamo, e verificarne l’esaustività ai fini della miglior configurazione della dirigenza giudiziaria e del miglior esercizio della discrezionalità.

Per non correre il rischio di una riedizione di slogan semplicistici e fuorvianti: dai “carichi esigibili per tutti”, alla “carriera con incarichi direttivi per tutti”.

La discrezionalità del Csm

È diffusa tra i magistrati l’opinione che il Csm, nelle nomine, abbia “troppa” discrezionalità e non la usi nel migliore dei modi.

La discrezionalità, però, non è un optional essendo coessenziale alla natura stessa del Csm quale organo di rilevanza costituzionale.

Ecco perché, pena la svalutazione dell’organo di governo autonomo (in oggettiva sintonia con i ricorrenti tentativi da parte di taluni orientamenti politici di ricondurre il Csm al novero degli organi di alta amministrazione), non è consentito «introdurre nelle procedure selettive criteri tali da minare la discrezionalità propria di un organo di rilevanza costituzionale» dovendosi, invece, «preservare l’autonomia valutativa del Csm», «anche al fine di arrestare (…) tentativi di degradazione della discrezionalità consiliare a mera discrezionalità tecnica» [7].

Lungi dal ritenere che tanto più il Csm riprenderà credibilità ed autorevolezza quanto più la sua discrezionalità sarà vincolata da «punteggi oggettivi» cui ragionieristicamente far ricorso nelle nomine, è un responsabile e trasparente esercizio della discrezionalità che va preteso dal Csm.

Perché fuori dal «difficile ma necessario esercizio della discrezionalità» ci sono solo gli interessi e le aspettative di ciascun magistrato, le «rivendicazioni della categoria e delle sue sottocategorie (dirigenti e non, giovani e anziani, magistrati di uffici superiori e quelli di più basso grado)» [8].

Naturalmente la discrezionalità non è prerogativa fine a sé stessa: riguardo alle nomine, ha una sua precisa finalità.

L’obiettivo della selezione

Il fine della discrezionalità nelle nomine, non potendo, intuitivamente, consistere nella soddisfazione di «aspettative di carriera» del singolo candidato, è, e non può che essere, quello della «scelta del miglior dirigente da preporre al posto da ricoprire, nel rispetto del superiore interesse pubblico» [9].

Ne deriva che tale obiettivo lo si può raggiungere solo operando una valutazione comparativa fra tutti gli aspiranti e le rispettive esperienze professionali, con una predefinita ed ampia gamma di parametri, ma senza vincoli (quali: “pesi” predeterminati di indicatori, prevalenze aprioristiche) da rivelarsi, da un lato, lesivi della discrezionalità stessa, dall’altra disfunzionali all’obiettivo, specie nel caso di un numero di candidati non abbastanza ampio.

Occorre adesso affrontare un discorso di più ampio respiro.

La “carriera” in magistratura: il modello di magistratura

Presentare, come fa A&I, il “carrierismo” quale patologica degenerazione della “carriera” (della cui “morte” ci si duole), significa assumere quest’ultima come dato fisiologico e positivo.

Tanto da porre l’accesso alla stessa, sub-specie di incarichi dirigenziali, come tendenzialmente disponibile a tutti i magistrati anziani (pardon, i dotati di adeguata esperienza professionale giudiziaria) che abbiano svolto le funzioni giudiziarie con «impegno, sacrificio, merito».

E allora, quale la differenza tra una magistratura il cui “percorso professionale” si snodi lungo la linea prolungato esercizio di attività giudiziaria-funzioni semidirettive-funzioni direttive ed un modello di magistratura burocratico e piramidale?

Modello non solo distonico rispetto a quello costituzionale (art. 107 Cost.: «i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni»), ma contrastante anche con il movimento costante della magistratura associata, che, da lungo tempo, è nel segno della lotta alla carriera [10].

Farla rivivere sotto l’aspetto delle funzioni direttive, come traguardo da tutti i magistrati auspicabile e da tutti raggiungibile è, quindi, anzitutto, antistorico.

Un altro modello di magistratura c’è.

È tra le ragioni fondanti di Magistratura democratica che, fin dalla nascita, nel 1964, ha posto tra gli obiettivi primari dell’associazionismo giudiziario la democratizzazione dell’ordine giudiziario contro ogni forma di gerarchia e di carriera.

È un «modello di magistratura orizzontale ed egualitaria» [11].

In questo modello non c’è posto non solo per il carrierismo ma nemmeno per la carriera.

Perché incompatibile con l’uguaglianza dei magistrati.

Perché, prima ancora, incompatibile con la loro indipendenza, potendo questa essere intaccata non solo dal metus (dal timore, cioè, di conseguenze negative dall’esercizio della giurisdizione), ma anche dalla spes: dalla speranza di “avanzamenti di carriera” che fa spendere le proprie energie nella ricerca dei più vari “titoli” da far valere in sede di concorso ai posti dirigenziali, magari rifuggendo quelle funzioni “meno utili” a tal fine o spendendo minor cura nel quotidiano esercizio delle stesse [12].

Ed allora, della dirigenza si tratta di accettarne come dato, ove non addirittura incentivarne, la valenza carrieristica, o, al contrario, di sdrammatizzarla e neutralizzarla [13].

Va dunque affrontata la questione del “senso” della dirigenza giudiziaria.

Il “senso” della dirigenza giudiziaria

Non occorre spendere alcuna parola per ricordare la assoluta peculiarità delle funzioni dirigenziali in magistratura rispetto a qualsiasi altra funzione che in altri ambiti burocratici porti lo stesso nome.

La compresenza di funzioni giurisdizionali ed amministrative nella dirigenza giudiziaria è ben nota.

Né è questo il luogo per affrontare il tema della cd. “managerialità” dei dirigenti, negata, tra gli altri, da Giuseppe Borrè relativamente alla dirigenza degli uffici giudicanti [14] e, con specifico riferimento ai semidirettivi giudicanti, da Ilio Mannucci Pacini [15].

Riguardo, poi, al profilo di sovraordinazione gerarchica delle figure semidirettive giudicanti (ma il discorso vale, con i dovuti adattamenti, anche per quelle requirenti), la compresenza di funzioni giurisdizionali e di funzioni di coordinamento ed organizzative depone, anche in relazione al sistema tabellare, per una netta svalutazione di tale valenza.

Più in generale, e salvo la specificità delle prerogative del Procuratore della Repubblica (quali disegnate dalla riforma del 2006 pur con la lettura costituzionalmente orientata fattane dal Csm con la delibera del 16 novembre 2017 sulla organizzazione degli Uffici di procura), al di là delle indicazioni che si possono ricavare dal contenuto specifico dei compiti attribuiti dall’ordinamento alla dirigenza giudiziaria, è chiaro che è una opzione culturale di fondo che ne può definire il “senso” proprio.

Dirigente come “capo”, dirigenza come “potere” gratificante, funzione “superiore”, promozione, premio alla carriera.

O invece, dirigenza come munus, servizio all’ufficio, “parentesi” nella vita lavorativa del magistrato.

Anche qui, perciò, come per il modello di magistratura, l’alternativa è netta.

E, per Magistratura democratica, da gran tempo risolta: «la magistratura giudicante non ha alcun bisogno di capi» [16], «la magistratura inquirente ha bisogno di coordinamenti e di provvedimenti organizzativi adeguati» [17].

Ed è chiaro, poi, come l’una o l’altra opzione abbiano una decisiva ricaduta sulle “vocazioni” a dirigere tra i magistrati: nel primo caso pervase dalla “vocazione alla carriera”, nel secondo dalla volontà di mettere a disposizione degli uffici specifiche capacità ed attitudini.

Ma qui il discorso si interseca con quello del modello, culturale e deontologico, di magistrato.

Il modello di magistrato

Anche qui l’alternativa è netta:

magistrato burocrate, che cerca protezione corporativa, attenzione sindacale ai suoi interessi e una carriera tranquilla all’ombra rassicurante della anzianità, che rifugge da quelle funzioni giurisdizionali e da quegli incarichi che non abbiano valenza spendibile ai fini della carriera, per accumulare i quali, al contrario, profonde le sue energie, che aspira a funzioni dirigenziali per fuoriuscire dalla (fatica della) giurisdizione e per acquisire prestigio e potere, che considera gli incarichi dirigenziali premio dovuto alla carriera.

Od invece:

magistrato che assume a stella polare l’etica della responsabilità professionale nella miglior tutela dei diritti, nel controllo di costituzionalità diffuso, nell’interpretazione costituzionalmente orientata, che, indipendentemente da eventuali incarichi dirigenziali (che chiede solo ove abbia specifiche capacità e progettualità parametrate all’ufficio da dirigere), facendo propria la cultura ordinamentale, partecipa costantemente alla gestione degli uffici ed all’autogoverno con proposte ed osservazioni (così favorendo l’affermarsi di un modello di autogoverno diffuso e partecipato), che si mette in gioco anche fuori ruolo per crescere culturalmente ed applicare poi nella giurisdizione le conoscenze in tali ambiti acquisite.

Un magistrato che guarda con distacco e svaluta la carriera, per il quale sia «costume deontologico la non aspirazione a funzioni dirigenti», per il quale sia «una questione di stile (…) il non abbandonare il ruolo giudicante o requirente in favore di ruoli prevalentemente amministrativi e rappresentativi come sono quelli dei capi degli uffici» e risulti «più gratificante di qualunque carriera (…) essere giudicat(o) e ricordat(o) (…) per il (suo) equilibrio, per la (sua) umanità e per la (sua) capacità di rendere effettivamente giustizia» [18].

E quando si parla di modello di magistrato, ovviamente si parla anche di magistrato-membro dei Consigli giudiziari e del Csm.

Che, nelle rispettive competenze, sa distinguere tra gli aspiranti agli incarichi dirigenziali i magistrati che rientrano nell’uno o nell’altro dei modelli.

E valuta e sceglie conseguentemente.

Sulla base di queste coordinate possiamo ora tornare alle proposte finora avanzate.

Quali proposte per quale modello?

Sulle proposte di A&I

A&I parte da una profonda sfiducia nella attuale capacità del Csm di bene esercitare la discrezionalità in materia di nomine.

Il sistema, portato della normazione secondaria e della prassi consiliare, è ritenuto dominato da discrezionalità senza regole, foriera di ingiustizie (nei confronti dei magistrati che non avendo appoggi nelle correnti si vedrebbero pretermessi nelle nomine) ed irrazionalità (per tenere in non cale, contro ogni logica delle organizzazioni, il fondamentale requisito dell’anzianità), nonché lesivo delle legittime aspettative di carriera dei magistrati.

È, quindi, necessario cambiarlo con riforme sostanziali al TUD nel senso di un drastico ridimensionamento della discrezionalità del Csm e di una incisiva modifica dei criteri di valutazione.

Al di là delle parole («esperienza professionale» al posto di «anzianità»), è evidente per A&I la voglia di ritorno al passato della anzianità e della carriera.

L’orizzonte culturale sotteso traspare con evidenza dalla stessa terminologia utilizzata nei documenti di A&I esaminati.

Parlare di “carriera” come di un percorso che vede la nomina a “posti apicali” quale logico sviluppo e coronamento nel tempo, cioè col maturare dell’anzianità (certo, accompagnata da impegno-sacrificio-merito, ci mancherebbe), nient’altro significa se non applicare alla magistratura i più tradizionali schemi della burocrazia impiegatizia.

Contrapporre, poi, i nominandi (futuri) per anzianità (certo, accompagnata da impegno-sacrificio-merito, ci mancherebbe) ai nominati (finora) per «appoggio delle correnti ed ancor peggio della politica» significa strizzare l’occhio al peggiore qualunquismo di chi altro non vede nelle correnti e nella “politica” che dispensatrici di ingiuste scelte in cui tutto è possibile «a prescindere dall’anzianità, dai titoli attitudinali, dal percorso professionale sino a quel momento svolto» (sic).

Contrapporre, ancora, il (bravo) datore di lavoro pubblico/privato che sceglie per gli «avanzamenti di carriera» l’anzianità (pardon: «l’esperienza professionale») significa presentare il Csm quale (cattivo) datore di lavoro dei magistrati, ancora una volta andando a seguito di chi vorrebbe scavare un solco tra magistratura e suo associazionismo sindacal-corporativamente tutelante e Csm controparte datoriale.

Venendo alle proposte di A&I, va osservato, in via generale, come si presentino organiche e coerenti in relazione ad un preciso modello di magistratura e di magistrato.

Fasce di anzianità, prevalenza aprioristica dell’esercizio di funzioni giudiziarie su quello di funzioni fuori ruolo (e del prolungato esercizio per le nomine in Cassazione e Massimario), punteggi predeterminati per gli indici attitudinali, vanno tutte nel senso della restaurazione della carriera e dell’anzianità e della tutela del singolo magistrato e del relativo cursus honorum.

Presuppongono e perseguono una magistratura chiusa in sé stessa, che non si misura con l’esterno, tantomeno con l’aborrita “politica”, e, correlativamente, un magistrato che non alza mai lo sguardo dai propri fascicoli ed attento alla prudente costruzione della propria carriera.

Perseguono un Csm attento alle esigenze di carriera del candidato piuttosto che alle specifiche esigenze dell’ufficio da dirigere.

Con una riduzione del consigliere a “bocca dei punteggi” predeterminati dal TUD, a ragioniere impegnato in sommatorie di numeri.

In quest’ultimo senso va, in particolare, il binomio: punteggi predeterminati per i singoli indicatori attitudinali (basati su anzianità ed esercizio continuativo di funzioni giurisdizionali omogenee) – giudizio attitudinale mediante sommatoria dei punteggi (in sede di valutazione comparativa dei candidati, mediante sommatoria dei punteggi).

Di fronte a ciò, infatti, come parlare ancora di discrezionalità? E non, invece, di «automatismi preferenziali (…) forieri di indebite limitazioni delle attribuzioni che la Carta Costituzionale riserva in via esclusiva all’Organo di governo autonomo della magistratura», per di più in grado di compromettere la «scelta del candidato migliore da preporre all’ufficio» [19]?

Ed invero, è chiaro che porre criteri eccessivamente vincolanti, se in generale lede la discrezionalità del Csm, nel caso concreto, in relazione ai candidati ed allo specifico incarico direttivo, può frustrare l’obiettivo stesso della selezione, portando ad una scelta che non cada sul più adatto per quell’ufficio.

Con riferimento, poi, alla proposta di «valorizzazione dell’anzianità», va, innanzitutto, smentito che il TUD ne sia “nemico” ricordando la rilevanza da diverse norme dello stesso riconosciuta all’anzianità di servizio [20].

La «valorizzazione dell’anzianità» sembra, comunque, strumento da «maneggiare con cura» per l’indubbia valenza di ripristino dell’idea di dirigenza come «premio alla carriera» a coronamento del prolungato esercizio di funzioni giudiziarie.

In particolare, poi, la proposta di reintroduzione delle «fasce di anzianità» va attentamente valutata avendo ben presenti, da un lato, le ragioni della introduzione delle stesse, dall’altra quelle della loro abolizione.

Gli istituti della fascia e dello spiccato rilievo [21] furono introdotti in sede di prima attuazione della riforma dell’OG per gestire la moltitudine dei procedimenti di nomina della dirigenza degli uffici, spesso con elevato numero di partecipanti, effetto della introdotta temporaneità delle funzioni dirigenziali, mediante un meccanismo che delimitasse il numero degli aspiranti da porre in comparazione.

Venuta meno l’iniziale esigenza di “filtro”, per esaurimento della fase di prima attuazione della riforma e per l’introduzione del limite delle tre domande di conferimento di incarichi dirigenziali per ciascun candidato, il Csm, anche a fronte delle criticità legate alla attuazione del principio dello «spiccato rilievo», abolì nel TUD i riferimenti a fasce e spiccato rilievo togliendo così al dato dell’esperienza professionale valenza di autonomo criterio preferenziale comportante preliminare selezione della platea dei candidati.

Ciò fece per «ampliare lo scrutinio comparativo ad una platea il più possibile ampia e ricca di aspiranti, anche per consentire di selezionare (…) (i magistrati) che abbiano (…) i profili più rispondenti alle specificità del posto da ricoprire» e, cioè, consentire «la scelta (…) del magistrato più idoneo a ricoprire l’incarico a concorso» [22].

Tali ragioni sembrano condivisibili potendo il meccanismo delle fasce, soprattutto se di limitata ampiezza, in presenza di un ristretto numero di domande, risultare eccessivamente vincolante per il Csm e foriero di scelte non funzionali alle specifiche esigenze dell’ufficio da dirigere.

… e sulle ipotesi di lavoro di ADG

Rispetto ad A&I, ADG muove da una critica più contenuta dell’operato del Csm in materia di nomine, presentato come insoddisfacente sotto gli aspetti della prevedibilità ed intellegibilità delle scelte.

Per ADG sono opportune quelle modifiche del TUD che, rispettose della discrezionalità del Csm, contribuiscano a renderne le scelte più coerenti e trasparenti razionalizzando il sistema vigente e rendendolo più “partecipato”.

Ciò vale, in particolare, per le ipotesi di differenziazione in concreto delle esperienze fuori ruolo, di valorizzazione delle specializzazioni, di valorizzazione delle esperienze nel settore delle impugnazioni per le nomine in Cassazione.

Un cenno merita la differenziazione delle esperienze fuori ruolo.

Come visto, nelle proposte di A&I queste sono aprioristicamente recessive rispetto alle esperienze nella giurisdizione. In linea con una concezione di separatezza della magistratura dal “resto del mondo”.

Distinguere, invece, i fuori ruolo per maggiore o minore affinità con le funzioni giudiziarie, per rilevanza sotto il profilo attitudinale per le funzioni direttive, per “utilità” per la giurisdizione del “ritorno” al suo interno di conoscenze e competenze acquisite fuori ruolo (come, peraltro, già previsto dall’art. 13 TUD), significa muoversi in un’ottica di magistratura non burocratica, non chiusa. E di un governo autonomo capace di distinguere i fuori ruolo rilevanti per la magistratura e quelli ascrivibili a “carriere parallele”, quelli funzionali alle specifiche esigenze dell’ufficio da dirigere e quelli funzionali alla carriera del magistrato, e, quindi, ancora una volta, capace di un responsabile esercizio della discrezionalità finalizzata alla individuazione del dirigente più adatto all’ufficio da conferire [23].

Di particolare rilevanza, ai fini della verificabilità delle scelte e, quindi, correlativamente della responsabilizzazione dell’organo di governo autonomo nel più corretto uso della discrezionalità e delle motivazioni delle scelte, è la proposta di “trasparenza totale” (presente, peraltro, anche tra le proposte di A&I).

Essa ha anche valenza di incentivo alla partecipazione consapevole dei magistrati all’autogoverno.

Nel medesimo senso va l’innovativa proposta del coinvolgimento dei magistrati dell’ufficio nel procedimento di conferma quadriennale del dirigente.

Come va sottolineato il valore, nell’ottica della dirigenza come funzione di servizio, dell’obiettivo di fare assumere centralità alla procedura di conferma.

Nel senso, infine, di una concezione funzionale “di servizio” e non già “di potere” degli incarichi semidirettivi, va la ipotesi, de iure condendo, della “tabellarizzazione” dei semidirettivi.

Anche la tabellarizzazione dei semidirettivi fa parte da tempi remoti dell’orizzonte culturale di Magistratura democratica [24] [25], né è stata estranea al dibattito interno all’autogoverno [26].

Di fronte ai guasti del carrierismo, sembrano decisamente maturi i tempi per una attenta analisi e valutazione della proposta sulla base, anche, delle puntuali valutazioni svolte da Ilio Mannucci Pacini in ordine alle ragioni ed ai pregi di tale opzione [27].

Rinviandosi al suo scritto, si ricorda come essi siano identificati nella coerenza con le funzioni del semidirettivo (che ne consigliano una «conoscenza sul campo dell’ufficio»), nella verifica triennale dell’operato del semidirettivo (così evitandosi il “trauma” della mancata conferma, e coinvolgendosi, a differenza del procedimento di conferma, i magistrati dell’ufficio attraverso la loro consultazione), nella diffusione delle competenze di coordinamento ed organizzative, nella acquisizione di un patrimonio di conoscenze sulle competenze organizzative dei magistrati (da utilizzare nella selezione dei direttivi).

Senza, peraltro, sottacere gli inconvenienti, tra i quali, in primo luogo, il rischio di aumentare il “potere” (seppure “contenibile” con ipotizzabili forme di partecipazione e coinvolgimento dei magistrati dell’ufficio) dei presidenti di tribunale e, ancor più, dei procuratori della Repubblica, titolari delle proposte dei semidirettivi in sede, rispettivamente, tabellare e di progetti organizzativi.

Oltre le attuali proposte

Va rilevato, al termine dell’analisi delle proposte finora avanzate, come vi sia una “grande assente”: l’effettiva temporaneità degli incarichi direttivi.

Va in proposito ricordato come la durata limitata nel tempo degli incarichi direttivi sia obiettivo di Magistratura democratica fin dai primi anni ’80 [28].

Nel 1986 Giuseppe Borrè sottolineava, in particolare, la necessità «che di vera temporaneità si tratti e non (…) di limiti tanto edulcorati da (…) favorire – attraverso possibili rinnovazioni dell’incarico prima nella stessa e poi in altra sede – la formazione di una vera e propria “carriera separata” (eventualmente itinerante) di capo-ufficio» [29].

Parole che, alla luce dell’esperienza attuale, risultano profetiche.

La temporaneità vigente, come disciplinata dagli artt. 45 e 46 d.lgs n. 160/2006 e dalla normazione secondaria, infatti, come noto è “finta”: il titolare di incarico direttivo, salvo mancata conferma alla scadenza del quadriennio, può ottenere altro incarico e così via senza limiti.

Siccome, poi, il pregresso esercizio di funzioni direttive è titolo preferenziale nei concorsi successivi, il risultato è che chi inizia la “carriera” direttiva mai o quasi mai torna a svolgere funzioni giudiziarie. Ciò non è senza conseguenze a livello generale ed individuale: nella magistratura si stabilizzano e divaricano i ruoli direttivi e quelli non direttivi con accentuazione della disuguaglianza interna; tra i magistrati si diffonde, esasperandosi, la spinta ad entrare nel circuito direttivo.

All’opposto, una temporaneità effettiva con limiti alla reiterazione degli incarichi e obbligatorio ritorno alle funzioni giudiziarie al termine dell’incarico e/o tra un incarico e l’altro, avrebbe l’effetto di frenare la corsa all’incarico dirigenziale visto come modo di uscire dall’ordinario lavoro ed acquisire prestigio.

Della effettiva temporaneità è ovvia la piena funzionalità all’ottica della dirigenza come servizio (e non già traguardo prestigioso), ai modelli di magistratura e di magistrato sopra delineati, ed alla realizzazione della “parola d’ordine” della dirigenza come “parentesi” nel percorso professionale del magistrato.

Per concludere: una rivoluzione culturale

Se è vero che la diffusione tra i magistrati del carrierismo e della insoddisfazione per l’uso della discrezionalità da parte dell’organo di governo autonomo costituisce un grave problema per la magistratura, una azione che si limiti al piano normativo, pur opportuna, non risulta sufficiente.

Ben vengano, cioè, tutte quelle modifiche normative che non partano da una sfiducia nel governo autonomo e ne perseguano la mortificazione.

Che rifuggano dall’illusione della predeterminabilità delle scelte con rigidità normative disfunzionali all’obiettivo della selezione.

Che non cadano nel tranello dei punteggi e dei numeri come garanzia di tutela dei candidati (la non esaltante vicenda dei “carichi esigibili” dovrebbe pur insegnare qualcosa…).

Che abbiano come obiettivo, non già il soddisfacimento di aspettative dei magistrati o di categorie di essi, ma il più razionale uso della discrezionalità finalizzata alla scelta del più idoneo per l’ufficio da dirigere e l’efficace uso dello strumento delle conferme.

Che vadano nel senso del modello di magistratura orizzontale ed egualitaria, di magistrato anticarrierista, della funzione dirigenziale come servizio, della diffusione della cultura organizzativa e di partecipazione all’autogoverno.

A partire dai fondamentali aspetti procedurali della trasparenza e del coinvolgimento dei magistrati dell’ufficio nel procedimento di conferma quadriennale (senza dimenticare l’ampliamento delle fonti di conoscenza per il merito e le attitudini).

E che, anche nominalmente, abbiano l’effetto di togliere alla radice attrattività alla dirigenza in termini di prestigio e fuoriuscita dall’ordinario lavoro nella giurisdizione.

Ma queste ben poco possono ove non cambi l’approccio culturale e deontologico del magistrato alla dirigenza.

È questa una battaglia culturale che chiama in causa tutti i magistrati e tutto il governo autonomo.

Dobbiamo, una volta per tutte, cambiare radicalmente mentalità e guardare avanti: funzione direttiva come servizio, messa a disposizione di proprie competenze e progettualità organizzative, non come riconoscimento dovuto di meriti acquisiti, traguardo ambito dell’impegno lavorativo.

C’è un unico antidoto al carrierismo: bandire dall’orizzonte culturale della magistratura lo stesso termine “carriera”.

Od usarlo in termini di paradosso: per il magistrato la carriera ha inizio il giorno della nomina e nello stesso giorno ha termine!

Quelle che, nella sua vita lavorativa si sviluppano, mutano, ne arricchiscono la professionalità, sono le funzioni (e le loro diverse declinazioni), tra le quali, eventuali e limitate nel tempo, le funzioni direttive.

Deve diventare senso comune tra i magistrati:

che spetta a tutti i magistrati e non solo ai membri dei Consigli giudiziari e del Csm partecipare, con proposte, vigilanza, segnalazione, all’autogoverno della magistratura;

che non si chiede un incarico dirigenziale se non si ha “qualcosa da dire” in relazione a quello specifico ufficio della cui direzione si tratta;

che non si fa il dirigente per il prestigio od il minor lavoro, ma per spirito di servizio;

che se si è nominati ad incarichi dirigenziali non si è raggiunto un plus rispetto alla giurisdizione;

che se non si è nominati non si è subita una deminutio;

che, terminata l’esperienza dirigenziale, si torna alle ordinarie funzioni giudiziarie.

Se non si compirà questa “rivoluzione culturale” [30], tra cinquant’anni saremo ancora a lagnarci di questa o quella nomina, di questa o quella “ingiustizia” commessa dal Csm.

E a non capire che nelle scelte delle mutevoli maggioranze del Csm spesso, più e prima che “logiche di appartenenza”, vi sono opzioni legate a modelli di magistrato che, quando non giuridicamente censurabili, appartengono al politicamente opinabile e tali vanno, rispettivamente, responsabilmente esplicitate dall’organo di governo autonomo e, dai magistrati, singoli ed associati, consapevolmente e senza eccessi sottoposte a critica.

E, specularmente, il governo autonomo nel suo insieme deve sentire la responsabilità permanente del buon governo e del buon andamento degli uffici giudiziari.

Nel momento della scelta del dirigente, da assumere con buon esercizio della discrezionalità e trasparenza. Sapendo, ad esempio, distinguere il magistrato carrierista, il collezionista di incarichi in e fuori ruolo a fini individuali, il turista dirigenziale, da colui che, a fini collettivi, mette a disposizione in ruolo e fuori ruolo proprie competenze e professionalità o che nelle esperienze fuori ruolo vuole accrescere la propria professionalità per poi trasfonderla nella giurisdizione, e trarne motivo di differente valutazione.

E, dal momento stesso della presa di possesso delle funzioni, con un cammino di accompagnamento vigilante dell’esercizio delle funzioni che, con il coinvolgimento dei magistrati assegnati all’ufficio, verifichi costantemente l’attività del dirigente e le sue ricadute sul funzionamento dell’ufficio.

Monitorandone la capacità di coinvolgere i magistrati dell’ufficio, l’elaborazione di buone prassi e la loro applicazione, l’efficace interazione e collaborazione con gli altri uffici (es. Tribunale-Procura) per il perseguimento del miglior servizio giustizia.

E deve, costantemente, promuovere il coinvolgimento dei magistrati in un sistema di autogoverno diffuso e partecipato.

Ci sono dunque diverse proposte (e altre ce ne possono essere), ma soprattutto, diversi modelli di magistratura e di magistrato.

Si tratta di scegliere.

Fare un decisivo passo avanti nello storico movimento per l’attuazione piena del disegno costituzionale di magistrati uguali, liberati da ogni residuo di carriera.

Oppure farne due indietro bloccando la magistratura nelle secche della carriera e dell’anzianità, mortificando per di più il nostro bene supremo: il governo autonomo della magistratura.

Scegliere conoscendo il passato e pensando all’oggi ed anche, un po’, al domani della magistratura italiana (quella magistratura, non dimentichiamolo, cui guardano, in ragione della sua autonomia ed indipendenza, con interesse quando non con invidia i colleghi degli altri Paesi europei).

 

____________________

[1] Consultazione on line su proposte modifiche circolari CSM (nomine direttivi/semidirettivi, Cassazione e CSM 17.10.2017 pubblicato sul sito di A&I. Le altre proposte: per l’accesso in Cassazione, raddoppio del punteggio in relazione agli anni di esercizio delle funzioni giudiziarie, e, per l’accesso al Massimario, assoluta prevalenza dell’esercizio decennale di funzioni giudiziarie; per gli incarichi in Segreteria e Ufficio studi del Csm, prova scritta in materia di OG, e, per gli incarichi ex art. 28, albi aperti a tutti i magistrati e rotazione.

[2] L’analisi è esposta nel documento del Gruppo di coordinamento di A&I, La morte della carriera e la discrezionalità senza regole, pubblicato sul sito di A&I

[3] Così nel documento del Gruppo di coordinamento di A&I, A&I sul testo unico della dirigenza,pubblicato sul sito di A&I

[4] Nel documento da ultimo citato, queste sono così indicate: attribuire normativamente «prevalenza alle esperienze maturate nell’ambito dell’attività giudiziaria rispetto a quelle fuori ruolo» e sostituire al giudizio attitudinale complessivo e unitario attualmente previsto, una «oggettiva sommatoria dei punteggi (predeterminati per ciascun indicatore attitudinale) ottenuti» (salva la facoltà per il Csm di discostarsi da tale risultato con onere di specifica motivazione).

[5] Con riguardo, poi, alle nomine negli uffici di legittimità, si propone: attribuzione di peso reale alla valutazione della Commissione tecnica; valorizzazione dell’esperienza maturata nel settore delle impugnazioni; validità prestabilita per le graduatorie con assegnazione a scorrimento dei posti banditi e resisi vacanti nel periodo. Le ipotesi di lavoro sono contenute nella Nota del Coordinamento nazionale di Area democratica per la giustizia pubblicata sul sito di ADG e diffusa nelle mailing list.

[6] La mozione finale è pubblicata sul sito di Area democratica per la giustizia.

[7] Così la Relazione introduttiva al Testo unico sulla dirigenza giudiziaria, pagg. 2-3.

[8] M. Guglielmi, Nomine e tentazioni conformiste: il difficile ma necessario esercizio della discrezionalità, in questa Rivista on-line,25 luglio 2017, http://questionegiustizia.it/articolo/le-giornate-di-napoli-i-nodi-critici-dell-esercizi_25-07-2017.php.

[9] Così la Relazione introduttiva al Testo unico sulla dirigenza giudiziaria, cit., pag. 3.

[10] Già nel Congresso dell’Anm di Napoli dell’aprile 1957, in nome della «condizione di assoluta parità» di tutti i magistrati, fu proposta, nella sostanza, l’abolizione della carriera (sotto l’aspetto, in relazione all’allora vigente ordinamento, dell’abolizione di «ogni forma di avanzamento» e del collegamento dello sviluppo del trattamento economico all’anzianità e non alle funzioni esercitate). Vds. la mozione conclusiva approvata dal congresso negli stralci citati da G. Mammone, 1945-1969. Magistrati, Associazione e correnti nelle pagine de La Magistratura, in Cento anni di Associazione magistrati, a cura di E. Bruti Liberati e L. Palamara.

[11] G. Cascini, La crisi dell’associazionismo giudiziario tra caduta degli ideali e riemergere delle carriere, in Questione giustizia 4/2015, http://questionegiustizia.it/rivista/2015/4/la-crisi-dell-associazionismo-giudiziario-tra-caduta-degli-ideali-e-riemergere-delle-carriere_297.php.

[12] Sui rapporti tra carriera, uguaglianza ed indipendenza dei magistrati, vedi L. Ferrajoli, Associazionismo dei magistrati e democratizzazione dell’ordine giudiziario in Questione Giustizia trimestrale, 4/2015, http://questionegiustizia.it/rivista/2015/4/associazionismo-dei-magistrati-e-democratizzazione-dell-ordine-giudiziario_296.php.

[13] Di «carica di conflittualità» e di «effetti distorcenti» di una dirigenza concettualmente inscritta nell’orizzonte della “carriera” ha parlato G. Borrè in C’è ancora una “carriera” in magistratura?,in La professione del giudice analisi e proposte di MD, in Quaderno di Questione giustizia 1986, pagg. 94 ss.

[14] G. Borrè, La carriera dei magistrati, in L’organizzazione della giustizia: servizio o disservizio-Le proposte di MD, in Quaderno di Questione giustizia 1993, pag. 142 segg. In ragione della natura delle funzioni di “amministrazione della giurisdizione” (formazione delle tabelle, assegnazione degli affari, etc.) e delle funzioni giurisdizionali di competenza dei dirigenti, l’autore concludeva che non di un «dirigente-manager» dovesse parlarsi, ma di «un dirigente-giudice, anzi un giudice-dirigente, alla cui funzione giurisdizionale soprattutto il compito della gestione dei meccanismi organizzativi di tutela dell’indipendenza dei giudici dell’ufficio».

[15] I. Mannucci Pacini, La “professionalità” del Presidente di sezione penale e la prospettiva di tabellarizzazione delle funzioni semidirettive, in Questione giustizia trimestrale, ed. Franco Angeli, n. 2-3/2013

[16] Così E. Paciotti, La questione dei dirigenti degli uffici giudiziari in Questione giustizia trimestrale, ed. Franco Angeli, 1983, pagg. 1023-1024

[17] E. Paciotti, I dirigenti degli uffici giudiziari in L’organizzazione della giustizia: servizio o disservizio - Le proposte di MD, in Quaderno di Questione giustizia, 1993, cit., pag. 207 ss.

[18] L. Ferrajoli, Associazionismo dei magistrati e democratizzazione dell’ordine giudiziario, in Questione Giustizia trimestrale, n.4/2015, http://questionegiustizia.it/rivista/2015/4/associazionismo-dei-magistrati-e-democratizzazione-dell-ordine-giudiziario_296.php.

[19] Così la Relazione introduttiva al Testo unico sulla dirigenza giudiziaria, pagg. 22, 23 e 28.

[20] Si fa riferimento agli artt. 24 e 35 TUD.

[21] Determinazione di periodi di durata dell’esperienza giudiziaria con conseguente preliminare valutazione dei magistrati ricadenti nella corrispondente fascia e possibilità di recupero nella platea dei candidati da sottoporre alla preliminare valutazione di quelli dotati di professionalità riconosciuta di spiccato rilievo.

[22] Così la Relazione introduttiva alla delibera del 21 novembre 2013 (Modifica del testo unico sulla dirigenza giudiziaria relativo al conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi – spiccato rilievo)

[23] Vedi, in proposito, le considerazioni di M. Guglielmi in Nomine e tentazioni conformiste: il difficile ma necessario esercizio della discrezionalità, cit.

[24] Già nel 1986 Giuseppe Borrè proponeva di «trasformare gli attuali incarichi semidirettivi in posti tabellari», in G. Borrè, C’è ancora una “carriera” in magistratura?, cit., pag. 108.

[25] In un compiuto «progetto di riforma per l’ordinamento giudiziario e l’organizzazione della giustizia», poi, nel 1993, Magistratura democratica proponeva, tra l’altro, la «attribuzione dei cd. “incarichi semidirettivi” con provvedimento tabellare» con «audizione, nella procedura di nomina, dell’assemblea dell’ufficio», in Le proposte di MD.

[26] Lo stesso Csm, nel 1992, poneva, in generale, il problema di «valutare se la titolarità di un ufficio direttivo debba essere collegata alla titolarità di uno specifico posto dell’organico, come avviene attualmente, o se invece non potrebbe più vantaggiosamente essere considerata come un incarico di funzioni conferito ad uno dei magistrati appartenenti all’ufficio», in L’attuazione della VII disposizione transitoria della Costituzione – Orientamenti per la riforma dell’ordinamento giudiziario in Relazione annuale sullo stato della giustizia in Quaderni del CSM, 1992, n. 56.

[27] I. Mannucci Pacini, La “professionalità” del presidente di sezione penale e la prospettiva di tabellarizzazione delle funzioni semidirettive, cit.

[28] Già nel 1983 Elena Paciotti indicava tra le possibili linee di riforma della dirigenza giudiziaria la fissazione di «tempi ridotti di durata degli incarichi direttivi». Vds. E. Paciotti, La questione dei dirigenti degli uffici giudiziari cit., pag. 182.

[29] G. Borrè, C’è ancora una “carriera” in magistratura? cit,, pag. 107

[30] G. Cascini, cit., pag. 190.

22/01/2018
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