Magistratura democratica

È configurabile un obbligo processuale sanzionabile di procedere all’audizione personale del richiedente, oltre a quello relativo alla comparizione delle parti?

di Guido Savio

Breve illustrazione della questione dal punto di vista del difensore del ricorrente.

Costituisce esperienza comune la rilevazione che quasi tutti i ricorsi avverso decisioni negative delle commissioni territoriali sono corredati dalla richiesta di audizione personale del ricorrente, in modo più o meno motivato. Tra le molteplici ragioni sottostanti meritano di essere considerate le seguenti: da un lato, il desiderio – frutto di convinzioni avulse dalla conoscenza del contesto procedurale – dei richiedenti di volere essere ascoltati, quasi che l’ascolto costituisca, nella loro percezione, la premessa necessaria dell’accoglimento della domanda. Una sorta di intima convinzione, profondamente radicata, dell’utilità di voler “parlare col proprio giudice” che costituisce, agli occhi del richiedente, una forma di riconoscimento e di rispetto della persona e della sua storia, un’occasione unica nella vita. D’altro canto, rileva l’atteggiamento del difensore che si trova a dover gestire questa pressante aspettativa e può essere indotto ad accoglierla per le più varie ragioni: sia perché ritiene fondatamente che siano necessari chiarimenti e approfondimenti rispetto alla narrazione della fase amministrativa, o anche semplicemente per accontentare l’assistito e mettersi così al riparo da eventuali responsabilità in caso di esito negativo del ricorso, o, più banalmente, perché in tal modo risparmia la fatica di approfondire il racconto del richiedente, magari redigendo ricorsi sommari e generici, fraintendendo così l’obbligo di cooperazione istruttoria che grava sul giudice della protezione.

A ciò si aggiunga che – a oltre tre anni dalle modifiche apportate dalla l. n. 46/2017 – la videoregistrazione dell’audizione in sede amministrativa, che nell’ottica del legislatore dell’epoca avrebbe consentito di snellire la fase giurisdizionale, è ben lungi dall’essere attuata.

Questa dimensione concreta e fattuale, che è all’origine delle richieste di audizione personale formulate nei ricorsi, si cala in un contesto normativo in cui il legislatore non ha disciplinato espressamente se e quando la sezione specializzata per l’immigrazione del tribunale, chiamata a dirimere una controversia ex art. 35-bis d.lgs n. 25/2008, debba procedere all’audizione del richiedente.

Mentre si è formato un orientamento giurisprudenziale consolidato in ordine all’obbligo di fissare udienza di comparizione nei casi previsti dall’art. 35-bis, comma 11 – in particolare quando la videoregistrazione dell’audizione avanti la commissione territoriale non è disponibile (cioè sempre) –, la stessa giurisprudenza ha cura di precisare che l’obbligo di fissazione dell’udienza di comparizione non comporta l’obbligo di procedere all’audizione, supportata dalla Cgue che, con la sentenza Moussa Sacko del 26 luglio 2017, ha negato la sussistenza di tale obbligo, sia pure con riferimento a una domanda di protezione rigettata per manifesta infondatezza, salvo che il giudice non la ritenga essenziale ai fini di una completa valutazione ex nunc degli elementi di fatto e di diritto.

Questa incertezza interpretativa determina, in concreto, una difformità di comportamenti sul territorio nazionale a seconda dell’orientamento delle singole sezioni specializzate: chi dispone sempre l’audizione personale, chi la dispone ogni tanto, e chi la dispone quasi mai.

Conseguentemente, il trattamento procedimentale del singolo richiedente varia secondo la competenza territoriale del tribunale cui accede, il che può determinare una ingiustificata disparità di trattamento tra posizioni identiche: si pensi, in particolare, ai numerosi casi in cui il ricorrente contesta la valutazione negativa di credibilità della propria narrazione operata in sede amministrativa; in queste ipotesi la valutazione del tribunale – che costituisce un accertamento di fatto difficilmente sindacabile in sede di giudizio di legittimità –, in assenza di un secondo giudizio di merito, è definitiva. È indubbio che, sul piano delle garanzie, un conto è una valutazione meramente cartolare e ben altro è una valutazione operata a seguito di audizione personale che, tra l’altro, consente di cogliere i cd. “riscontri non verbali”, cioè quel “non detto” che proprio con la videoregistrazione il legislatore avrebbe voluto cristallizzare e sottoporre direttamente all’attenzione del giudice senza duplicare l’audizione, oltre che porre rimedio a problemi relativi alla inesatta traduzione o verbalizzazione.

Con questo non s’intende certo sostenere che l’audizione personale avanti il tribunale comporti sempre un vantaggio per il richiedente: nella prassi elevatissimo è il rischio di contraddizioni, di affermazioni incoerenti con il precedente narrato o racconti privi di credibilità alcuna, che, in definitiva, non possono che ottenere l’effetto diametralmente opposto di quello auspicato con la richiesta di audizione. Però, il vecchio adagio secondo cui le parti processuali, intese come persone fisiche, meno parlano davanti ai giudici e meglio è, cede almeno parzialmente il passo a causa della specificità del processo di protezione internazionale, che non ha natura inquisitoria ed è caratterizzato da un onere di allegazione dei fatti da parte del richiedente, dall’obbligo di cooperazione istruttoria del giudice e, soprattutto, dal fatto che la dichiarazione del richiedente costituisce un mezzo di prova, sovente l’unico.

Come si fa a valutare la credibilità di vicende narrate in termini drammatici e umanamente devastanti, se non si guarda in faccia chi le racconta? Pensiamo all’accertamento della vulnerabilità di una vittima di tratta, di una vittima di mutilazioni genitali femminili o di matrimonio forzato, di violenze sessuali o di sfruttamento sessuale o lavorativo: la credibilità del narrato è un fatto accertabile solo tramite l’audizione diretta.

Ma se è sicuramente vero che il narrato costituisce l’assolvimento dell’onere probatorio di parte, è altrettanto vero che senza audizione non si può accertare in che misura la vulnerabilità abbia eventualmente inciso sulla capacità di narrazione e, conseguentemente, sulla credibilità del narrante.

Ecco quindi che la funzione nomofilattica della Corte di legittimità dovrebbe sopperire a tale obiettiva ingiustificata disparità di trattamento, che varia a seconda dell’orientamento delle singole sezioni specializzate, indicando alcuni criteri cui i giudici di merito dovrebbero attenersi.

Con riferimento alle ipotesi tipizzate al comma 11, lett. b e c dell’art. 35-bis d.lgs n. 25/2008 – si tratta delle ipotesi in cui il richiedente fa motivata richiesta di fissazione dell’udienza nel ricorso introduttivo e di quelle in cui l’impugnazione si fonda su elementi di fatto non dedotti in sede di audizione innanzi alla commissione territoriale, in cui è possibile sostenere il diritto all’audizione –, un ruolo centrale spetta all’avvocato che redige il ricorso.

Tanto più la richiesta di udienza è motivata specificamente e chiaramente con precisa indicazione dei punti su cui il ricorrente chiede di essere sentito e tanto più il giudice sarà costretto a motivare adeguatamente circa l’essenzialità dell’audizione ai fini della decisione. Diversamente, una richiesta di audizione generica è sostanzialmente inutile.

Per quel che concerne la deduzione di nuovi fatti nel ricorso, non dedotti nel corso della procedura amministrativa, le allegazioni debbono essere specificamente indicate in ordine alla loro rilevanza per la valutazione ex tunc (si tenga conto che il ricorso è sovente trattato ad anni di distanza dall’audizione in sede amministrativa, sicché la realtà fattuale può ben essere mutata nel corso del tempo), ma, soprattutto, occorre che nel ricorso si dia conto delle ragioni per cui tali allegazioni non siano state dedotte tempestivamente, questo al fine di evitare allegazioni strumentali dedotte a scopo meramente dilatorio e, conseguentemente, ottenere una motivazione adeguata da parte del giudice in caso di rigetto della richiesta.

Nel panorama giurisprudenziale di legittimità, un contributo rilevante è fornito dalla sentenza del 23 ottobre 2019, n. 27073, che cerca di individuare i limiti alla discrezionalità del tribunale circa la necessità di disporre l’audizione proprio quando vengano dedotti fatti nuovi[1].

La Corte ritiene violato l’art. 46, par. 3, direttiva n. 32/2013 (il diritto a un ricorso effettivo prevede l’esame completo ed ex tunc degli elementi di fatto e di diritto, quantomeno nei procedimenti di impugnazione dinnanzi al giudice di primo grado) e l’art. 35-bis d.lgs n. 25/2008 interpretato alla luce della direttiva e della giurisprudenza Cgue, che la sentenza riassume esaustivamente per concludere che «Deve dunque ritenersi che, se i nuovi motivi o i nuovi elementi di fatto risultino sufficientemente circostanziati e rilevanti, il giudice non possa sottrarsi, se richiesto, all’audizione del richiedente, quale essenziale strumento per verificare, anche su tali questioni, che integrano il thema decidendum e sulle quali il richiedente non è stato sentito dalla Commissione territoriale, coerenza e plausibilità del racconto, quali necessari presupposti per attivare, se del caso, il dovere di cooperazione istruttoria. In tal caso, non appare sufficiente a garantire la tutela del contraddittorio la mera fissazione dell’udienza di comparizione (…)».

La presentazione, in fase di ricorso, di nuovi elementi di fatto pone, però, qualche problema di coordinamento rispetto alla precedente fase amministrativa. Infatti la sentenza 27073/19 cita un arresto della Cgue (sentenza Alheto, C-585/16, 25 luglio 2018) secondo cui i nuovi elementi di fatto debbono essere qualificati alla stregua delle «ulteriori dichiarazioni» ex art. 40, par. 1, direttiva n. 32/2013, rubricato «Domande reiterate» che, a mente del par. 3, sono sottoposte a esame preliminare: di qui il dubbio se il procedimento debba regredire alla fase amministrativa per consentire tale esame preliminare. È stato però osservato che, secondo la sentenza Cgue Ahmedbekova, del 4 ottobre 2018, l’art. 40 contempla come ipotesi autonoma rispetto alla reiterata quella del rilascio di nuove dichiarazioni. In tal senso la sentenza Cgue consentirebbe di ritenere che, se il richiedente allega solo “elementi nuovi”, il giudice procede all’esame; se invece presenta un “motivo di protezione internazionale” taciuto in sede amministrativa occorre un esame complementare da parte dell’autorità amministrativa. Secondo la Cgue, la fase amministrativa è essenziale e l’obbligo di cooperare del richiedente non può essere eluso in base all’esame completo del giudice ex nunc.

La questione può essere risolta garantendo l’integrazione del contraddittorio con la commissione territoriale: se il motivo nuovo è contenuto nel ricorso, la commissione ne è a conoscenza, atteso che il ricorso le è stato notificato; se, invece, emerge nel corso dell’audizione dipende se la commissione sia o meno costituita. Nel primo caso lo apprende in udienza e potrà chiedere un termine per memorie e repliche sul punto; nel secondo occorre notificare il verbale, con invito a prendere posizione e termine per repliche alla difesa.

Secondo altra tesi, che pone l’accento sul fatto che nel diritto unionale la fase amministrativa è essenziale e v’è una stretta correlazione tra la fase amministrativa e quella giudiziale, il richiedente dovrebbe esser risentito dalla commissione territoriale, in una sorta di regresso alla fase amministrativa del procedimento da quella giudiziale, perché la commissione deve sentire il richiedente sui motivi nuovi e svolgere istruttoria nel termine fissato dal giudice. Diversamente ci sarebbe contrasto con il diritto unionale.

Questo resta quindi un problema aperto, anche se il nostro ordinamento non prevede il regresso del processo di protezione alla fase amministrativa e, soprattutto, il processo di protezione non ha natura annullatoria del provvedimento amministrativo, ma di accertamento di un diritto soggettivo preesistente.

In conclusione, l’audizione potrebbe essere disposta in tutti i casi previsti al comma 11 dell’art. 35-bis:

a) se manca la videoregistrazione perché il verbale cartaceo non è idoneo a soddisfare la verifica della credibilità, ove questa sia oggetto di contestazione nel ricorso;

b) se il ricorrente ne fa precisa, motivata e puntuale richiesta nel ricorso dimostrando perché e su quali specifici punti è essenziale sentirlo, ai fini della verifica dell’esistenza di cause di inclusione;

c) se l’impugnazione si fonda su elementi di fatto non dedotti nella fase amministrativa secondo i principi di diritto enucleati nella sentenza n. 27073/19.

In questi casi, l’omissione dell’audizione sarebbe sanzionabile per violazione dell’art. 46, par. 3, direttiva n. 32/2013 e dell’art. 35-bis d.lgs n. 25/2008, esattamente come ha ritenuto la prima sezione con la citata sentenza n. 27073/2019.

Un’ultima considerazione: visto che – almeno fino a che non ci sarà la videoregistrazione – è sempre fissata l’udienza di comparizione, forse sarebbe utile sfruttare questa occasione affinché il giudice decida in contraddittorio se accogliere o meno la richiesta di audizione personale del ricorrente. Questo al fine di giungere a una interpretazione dell’art. 35-bis, commi 10 e 11, che sia rispettosa sia dei principi costituzionali (art. 24 Cost.) che delle norme sovranazionali e, in particolare, dell’art. 6 Cedu (diritto a un equo processo), dell’art. 46 (diritto a un ricorso effettivo davanti a un giudice), nonché dell’art. 47 Tfue (diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale).

 

1. Sul tema vds. altresì Cass. civ., sez. I, sent. n. 21584/2020, pubblicata il 7 ottobre 2020.