Magistratura democratica

Dall’università alla magistratura: considerazioni sul rapporto tra studio e lavoro

di Cecilia Blengino

Dedicando uno specifico spazio di attenzione al tema della formazione accademica, la ricerca ha invitato i giovani magistrati a riflettere retrospettivamente sul ruolo esercitato dagli studi universitari nel percorso di formazione del loro sapere di magistrati. Le considerazioni raccolte delineano una cultura giuridica critica nei confronti di un’educazione che veicola una concezione del diritto ideale e distante dalla realtà. Allo stesso tempo, la ricerca rileva, nella percezione dei magistrati, la mancata corrispondenza tra le conoscenze richieste dal sistema di reclutamento e le competenze necessarie all’effettivo svolgimento delle funzioni.

Intervistatore: «facendo un passo indietro, 
che cosa pensate della formazione 
universitaria valutandola ex post?»
Intervistato: «Qui rischiamo 
di esser cattivi… » (focus group n. 2). 

 

1. La formazione dei giovani magistrati / 2. Formazione e cultura giuridica / 3. Dagli studi universitari al concorso / 4. Dagli studi universitari al lavoro del magistrato

 

1. La formazione dei giovani magistrati

La formazione alla professione del magistrato richiede, come osserva Daniela Piana, di integrare due dimensioni: «la conoscenza del know that, ovvero sapere ciò che concerne il diritto e la dottrina» e «la conoscenza del know how, ovvero il sapere come fare in casi specifici per risolvere i singoli problemi»[1]. Il percorso formativo pensato per consentire il raggiungimento di tali obiettivi si articola in diversi momenti e differenti contesti. 

Le esperienze di formazione vissute dai magistrati nell’ambito dei rispettivi corsi di laurea, nei corsi privati di preparazione del concorso in magistratura, nelle scuole di specializzazione per le professioni legali e nei tirocini sono state prese in considerazione dalla ricerca per consentire agli intervistati di soffermarsi retrospettivamente sul significato assunto da tali esperienze nella costruzione del loro “sapere di magistrati”.

Si può qui anticipare, come dato generale, che le considerazioni di coloro che hanno preso parte all’indagine convergono nel fotografare la formazione ricevuta come un percorso spiccatamente indirizzato verso un approfondimento specialistico delle conoscenze tecnico-giuridiche. All’interno di tale percorso, le prime opportunità di apprendimento del know how riportate dagli intervistati risultano essere state tendenzialmente successive alla conclusione degli studi universitari o all’ingresso stesso in magistratura. Le prime hanno coinciso tendenzialmente con il tirocinio “ex art. 73”[2] e con i periodi di tirocinio negli uffici giudiziari previsti dalle scuole di specializzazione per le professioni legali. Tra le seconde, si annoverano il periodo da magistrato ordinario in tirocinio e i corsi organizzati dalla Scuola superiore della magistratura per consentire il confronto tra colleghi su questioni operative.

Il presente contributo prende in considerazione i risultati emersi, nel corso della ricerca, con riferimento alla formazione giuridica acquisita nel periodo degli studi universitari[3]

 

2. Formazione e cultura giuridica 

La formazione universitaria coniuga una funzione descrittiva del diritto con una connotazione prescrittiva[4]. Il modo con cui il diritto viene insegnato costruisce e veicola, infatti, il sapere giuridico tra i diretti destinatari, i futuri operatori del diritto, e per loro tramite produce effetti di carattere culturale e sociale[5]

La ricerca ha sollecitato i magistrati a riflettere retrospettivamente sul proprio percorso universitario, valutandolo in relazione al ruolo rappresentato dagli studi universitari ai fini dell’ingresso in magistratura e dello svolgimento delle funzioni. Tali riflessioni offrono, peraltro, diversi elementi utili a cogliere come, nell’ambito dei processi di modernizzazione dell’istituzione giudiziaria, la cultura giuridica della magistratura si caratterizzi sempre più per la contemporanea presenza, nel modo di ragionare dei magistrati, di elementi che affiancano a un tradizionale ritualismo formalista espressioni di una nuova cultura di tipo manageriale[6]. Sebbene, in coerenza con gli assunti del formalismo giuridico, la magistratura italiana si configuri sul modello burocratico[7], diverse ricerche evidenziano come, sul piano empirico, il lavoro del magistrato oscilli tra attività «destinate alla “cura” adempimentale dei fascicoli» e attività «votate alla “produzione” delle decisioni sulla base di un giudizio esperto e specialistico»[8].

Il tentativo di far coesistere un’immagine vicina al modello formalista del magistrato come “bocca della legge” con considerazioni che portano a configurare il ragionamento giudiziario e l’azione della magistratura nell’alveo del problem solving[9], trova conferma nei dati raccolti dalla ricerca. 

La percezione del ruolo esercitato dal magistrato nella società, così come i metodi attraverso i quali si insegna il diritto nelle università, si legano indissolubilmente al delinearsi della cultura giuridica in relazione al luogo e al tempo[10]. Limitandoci al contesto europeo continentale, risulta evidente come i mutamenti nell’insegnamento universitario del diritto, nel corso dei secoli, si siano intrecciati alle trasformazioni del ruolo sociale del giurista[11]. Nell’ambito della premodernità giuridica, scopo dello studio universitario era la formazione del giurista pratico. Questi era considerato come un personaggio illuminato e illuminante, accreditato a un ruolo di mediazione sociale che richiedeva il possesso e l’esercizio di qualità personali, quali l’equità e l’onestà[12]. La concezione dell’attività interpretativa del giurista come «tecnico-conoscitiva»[13] è conseguente all’affermarsi, nella tradizione della scienza giuridica continentale, dell’idea del diritto come scienza pura[14] e socialmente decontestualizzata. Tale idea fornisce, inoltre, legittimazione scientifica a un insegnamento fondato sul metodo esegetico[15] e finalizzato più o meno consapevolmente a formare servi legum[16]. Il delinearsi di un modello di formazione giuridica che stabilizza «un rapporto strettissimo fra lo studio dei codici, l’elaborazione della dottrina e la Iuris prudentia»[17], assumendo quale principale obiettivo la trasmissione dei contenuti e degli strumenti propri della dogmatica giuridica, implica l’irrilevanza della dimensione metacognitiva[18] e spiega perché la formazione del giurista moderno sia venuta ad assumere una modalità tendenzialmente predicativa[19].  

Anche il modello con cui la magistratura si configura oggi in Italia affonda le sue radici storiche nel paradigma giuridico della modernità[20]. Entro tale paradigma, al magistrato è assegnato il compito di «garantire, mantenere e ripristinare un ordine pubblico creato attraverso regole codificate, la cui applicazione e interpretazione sono nelle mani di un corpo competente e specializzato»[21]. La prospettiva del formalismo costruisce l’immagine del magistrato come “bocca della legge” e del ragionamento giuridico come «sillogismo deduttivo, in cui la premessa maggiore è data dalla norma codificata, la premessa minore dal fatto accertato e la conclusione dall’applicazione della norma al fatto, ossia alla decisione che si traduce in sentenza»[22]

La decisione giudiziaria è concepita come il frutto di un processo esclusivamente logico-formale[23]. L’accettazione implicita dell’assunto secondo cui conoscere il diritto sia condizione necessaria e sufficiente «a garantire che le decisioni giudiziarie rispondano solo e soltanto al diritto e, proprio per questo tramite, siano protette da qualsiasi potenziale ingerenza ovvero influenza indebita che ne metta in discussione l’imparzialità»[24] conduce le riflessioni sulla funzione giudiziaria ad addentrarsi nel merito delle conoscenze e delle competenze effettivamente necessarie per l’esercizio di tale funzione.

Offrendo uno spaccato sulla cultura giuridica dei giovani magistrati, le considerazioni raccolte fotografano negli intervistati un’idea più complessa in merito alle competenze indispensabili per essere un “buon magistrato”: «c’è tutta una serie di saperi di cui ho sentito la carenza durante lo svolgimento della professione (…). Per esempio, io ho iniziato come prima funzione a fare il giudice della famiglia e mi sono accorto che il lavoro mi imponeva di ascoltare minorenni chiedendo loro cose personalissime… E io questa abilità di parlare con un ragazzino di tredici anni non ce l’ho, non l’ho avuta, nessuno mi ha insegnato a farlo» (focus group n. 3). 

Che il ruolo del magistrato richieda competenze e abilità che vanno ben oltre le competenze tecnico-giuridiche e rimandano a doti quali equilibrio e capacità di ragionamento ponderato risulta, implicitamente, dalle considerazioni che i magistrati formulano sulla prova orale del concorso. È, infatti, opinione comune tra gli intervistati che la difficoltà che connota tale prova risponda allo scopo non dichiarato di vagliare non tanto la conoscenza delle materie d’esame, quanto la «capacità di tenuta psicologica» (intervista 20) e «quella resistenza psicologica allo stress [che] è una competenza che poi serve nel lavoro» (intervista 32) del magistrato. Emerge, da questa convinzione diffusa, l’idea condivisa che il ruolo del magistrato richieda un certo grado di equilibrio:

«non soltanto diciamo la chirurgica quindi asettica applicazione della norma, ma anche (…) un senso di equilibrio che deve caratterizzare anche una decisione, la consapevolezza delle sue conseguenze... nella vita delle persone su cui incide» (intervista 24).

«Sicuramente è (…) un ruolo di grande equilibrio, quindi dove è richiesta una particolare predisposizione, appunto, all’equilibrio» (intervista 30).

Le interviste e i focus group restituiscono come esperienza comune il ricordo delle sensazioni di smarrimento e impreparazione provate, dopo gli studi, di fronte alla distanza che separa il diritto studiato «sui libri»[25] dal diritto in azione: «Io un magistrato in vita mia (…) non l’avevo mai visto (…) non avevo mai conosciuto un magistrato; quindi, non avevo un’idea del tipo di lavoro, sinceramente. Nessuna idea» (intervista 13).

Si danno, in proposito, numerose sollecitazioni a ripensare il modello formativo ereditato dalla modernità giuridica, arricchendo la formazione con un approccio pratico e fattuale in grado di superare tale distanza:

«Secondo me, fossilizzarsi cinque-sei anni, quanti poi ormai sono quelli che richiede lo studio sui libri, è un po’ nocivo (…). Mi è sempre sembrato di studiare… di capire, di non capire… Molte cose anche giuridiche, il vederle, se l’università consentisse un minimo di pratica in più, anche semplicemente già assistere a un’udienza penale, come dire, fa capire molte cose che in realtà si studiano sui libri. Cioè uno studia, non so, le notifiche (…). S’immagina la notifica, l’apertura del dibattimento, le questioni preliminari all’apertura del dibattimento… Sembrano cose; invece, se uno le vedesse nella pratica – cose che magari, nel processo, succedono in tre minuti – si farebbe un’idea di quello che sta studiando, toccherebbe con mano quello che sta studiando. È un peccato che, dall’università, questo aspetto non sia [adottato]» (intervista 12).

«Mi sono iscritto a Giurisprudenza un po’ per caso. Secondo me anche con una certa fortuna, perché andavo a scuola bene, ma non benissimo. Andavo molto bene in storia. Ho scoperto poi – col senno di poi – che il metodo storico e quello giuridico sono fondamentalmente identici, quindi è per quel motivo che [all’università] sono riuscito bene» (focus group n. 3).

Le considerazioni critiche che gli intervistati esprimono sul sistema dell’insegnamento universitario, ricordando l’università come un luogo in cui «si scrive poco e non si frequentano le aule di giustizia» (focus group n. 1), sollecitano coloro che si occupano di formare i futuri operatori del diritto a una profonda riflessione sul proprio ruolo e sugli obiettivi stessi della formazione giuridica[26].

La crisi in cui versa il modello di insegnamento del diritto centrato sulla lezione frontale e dogmatica[27] e le sollecitazioni al cambiamento provenienti dal processo europeo di riforma dell’istruzione superiore conducono, oggi, diverse università a sperimentare metodi didattici che integrano teoria e pratica, per fare acquisire agli studenti abilità e competenze attualmente ritenute essenziali per ogni operatore del diritto. La dimensione pratica, che fino alla premodernità era stata costitutiva dello stesso sapere giuridico, viene oggi riabilitata attraverso laboratori di scrittura giuridica, simulazioni processuali e cliniche legali[28], mediante i quali le università intendono rispondere alla richiesta – emersa in modo chiaro dalle considerazioni degli intervistati – di offrire, fin dagli anni della formazione accademica, l’opportunità di comprendere che «le attività attraverso cui prendono forma i processi interpretativi del diritto» entro i ruoli e le funzioni di operatori giuridici diversificati «consistono in mediazioni tra fatto e diritto, tra contesto e testo e in adattamenti del significato giuridico agli incessanti e inevitabili mutamenti della realtà»[29]

Sullo specifico versante della magistratura, merita di essere segnalato come i tentativi di orientare la formazione giuridica verso l’acquisizione di competenze pratiche e l’esigenza di “migliorare le prestazioni della giustizia” abbiano trovato recentemente un punto di convergenza nel «PON Governance e Capacità Istituzionale» 2014-2020. Al fine di promuovere il miglioramento dell’efficienza e delle prestazioni degli uffici giudiziari, tale progetto ha incluso espressamente, tra i propri obiettivi, il consolidamento del «rapporto tra sistema della formazione universitaria e contesto giudiziario al fine di migliorare l’offerta formativa e favorire lo sviluppo del partenariato pubblico/pubblico nel settore universitario e giudiziario»[30].

 

3. Dagli studi universitari al concorso

Se è opinione condivisa che «il problema forse del sistema universitario italiano, [sia] l’aspetto, l’approccio pratico» (intervista 11), non unanimi sono, tuttavia, i giudizi che vengono espressi in merito all’approccio formalista della formazione giuridica. In proposito, le opinioni degli intervistati distinguono in modo netto le questioni del superamento del concorso e delle competenze richieste nello svolgimento delle funzioni. 

Elemento ricorrente nelle interviste è la distinzione netta che, nel valutare il proprio percorso di studi universitari, i magistrati compiono tra l’ambito concorsuale e quello lavorativo. Si tratta di una distinzione che si fonda sulla constatazione condivisa che «superare il concorso in magistratura (…) non ha pressoché nulla a che vedere con il saper fare bene il magistrato» (intervista 25).

Il reclutamento della magistratura per via concorsuale, pienamente coerente con il modello burocratico[31] sui cui è formalmente configurato il ruolo del magistrato nell’ordinamento giuridico, intende vagliare impersonalmente le capacità tecnico-giuridiche dei partecipanti, e fonda il suo elevato livello di selettività sulla base dell’accertamento, da parte dei candidati, del possesso di una conoscenza estremamente specialistica delle discipline giuridiche positive oggetto del concorso. Le considerazioni espresse dai magistrati sull’adeguatezza della formazione ricevuta durante il percorso universitario riguardano la capacità di tale formazione di fornire le conoscenze e le competenze per affrontare le prove scritte e la prova orale del concorso. 

I magistrati intervistati concordano nel ritenere che il superamento delle prove richieda il possesso contestuale di approfondite conoscenze tecnico-giuridiche, capacità di ragionamento e buone capacità di scrittura. Le considerazioni che gli stessi formulano sulla formazione universitaria ricevuta riecheggiano quelle che Antonio Padoa Schioppa identifica come le tre carenze strutturali dei corsi di laurea in giurisprudenza, nei quali «non si insegna a studiare bene; non si insegna a impostare e a risolvere un caso; non si insegna a scrivere»[32].

La preparazione del concorso è un’esperienza che tutti ricordano per l’elevato livello di difficoltà e selettività, oltre che per la dedizione, la fatica e il tempo che è stato loro necessario investire nello studio. Appare, al proposito, significativa la distinzione che i magistrati operano nel fare riferimento alle competenze necessarie per superare le prove scritte e per sostenere la prova orale. Tali considerazioni riflettono le opinioni degli intervistati in merito agli obiettivi a cui le prove di selezione rispondono o debbano rispondere[33].

Quasi tutti i magistrati intervistati, ripensando ai propri percorsi di studio, ritengono che la preparazione ricevuta prima della laurea sia stata insufficiente ai fini del superamento del concorso in magistratura. 

«È un concorso a mio avviso impossibile da passare non appena usciti dall’università. Nel senso che l’università ti dà, appunto, i pilastri di quella che è una disciplina… ma la parte relativa allo studio della giurisprudenza, delle sentenze… è veramente minimale» (intervista 15).

Senza addentrarci, in questa sede, nel dibattito di chi ritiene che ciò sia «normale» (intervista 15), perché «l’università non deve preparare al concorso» (intervista 7), e chi al contrario considera indispensabile una riforma dei corsi di laurea, è opinione unanime dei magistrati coinvolti dalla ricerca che la preparazione universitaria non sia sufficiente per affrontare le prove concorsuali.

Ritornano, in modo ricorrente, a sostegno di tale considerazione l’assenza di prove scritte durante il percorso di studi universitari e la carenza di approccio pratico nell’offerta formativa universitaria. 

La capacità di scrittura risulta fondamentale per affrontare e superare le prove scritte. 

Gran parte degli intervistati concorda nel ritenere che «la selezione attraverso una prova scritta è importante, perché il magistrato scrive. La prima cosa che fa il magistrato è scrivere. Quindi la necessità che la prima selezione sia attraverso una prova scritta (…) è molto importante» (intervista 40). Molti intervistati hanno, tuttavia, evidenziato come l’assenza di opportunità per cimentarsi nella scrittura nel corso degli esami universitari costituisca una criticità significativa rispetto al superamento del concorso in magistratura:

«Per superare il concorso in magistratura… occorre conoscere, occorre saper scrivere, tutte cose che poi sono fondamentali per fare il magistrato» (intervista 25);

«Può sembrare una banalità, ma la capacità di saper scrivere in italiano e seguendo un percorso logico-argomentativo corretto e lineare è comunque la prima cosa (…) che viene chiesta al concorso. Quindi, ritengo che la selezione sia sicuramente molto rigida, ma sia fatta anche (…) bene, in vista della funzione che poi il magistrato è chiamato a esercitare» (intervista 8).

La scrittura risulta un requisito indispensabile, sia per superare il concorso sia per svolgere il lavoro di magistrato: «i magistrati scrivono. Non possono immaginare il loro lavoro senza l’atto della scrittura» (intervista 10).

Nel sottolineare le carenze del percorso universitario rispetto all’allenamento alla scrittura giuridica, alcuni constatano come, non di rado, a tale funzione formativa supplisca l’esperienza della pratica professionale. Coloro che hanno svolto la pratica prima del concorso in magistratura ritengono che tale circostanza li abbia agevolati nella capacità di affrontare le prove scritte: 

«Il grande problema (…) all’università (…) è l’assenza totale di esercizio alla scrittura, (…) sono stati praticamente cinque anni di nulla» (intervista 24);

«Non si scrive mai all’università. Insomma, in cinque anni di corso di studi, soltanto forse in qualche corso, ma è tutto rimesso alla sensibilità e alle impostazioni del singolo docente (…). La prima volta che ci si approccia con la scrittura all’università, paradossalmente, è in occasione della tesi di laurea, che ovviamente però è un elaborato del tutto diverso rispetto al tema, all’elaborato pratico – diciamo, a quello che è necessario per il superamento del concorso e dell’esame di avvocato» (intervista 11);

«Ho amato sempre scrivere. Ho scritto, ho letto anche tanto, ma per mia passione, non perché l’università… Io non ho mai fatto un esame scritto all’università, ho sempre fatto esami orali, quindi probabilmente, già in ambito di formazione, per affrontare un concorso come quello in magistratura, in cui ci sono tre prove scritte, l’università sotto questo profilo è deficitaria» (intervista 40);

«Il problema vero è la scrittura, secondo me; la scrittura che manca nel percorso universitario (…). L’università, Giurisprudenza, tranne qualche esonero, è al 95% orale. Quindi, essendo tutto orale, nessuno scrive, nessuno sa scrivere. In questo senso, ritengo molto, molto carente il sistema universitario per l’approccio ai concorsi. E ce lo dicono anche gli ultimi eventi (…). E un po’ si rimedia… Come quando – come è successo a me – si va a fare l’avvocato e, se si ha la fortuna di avere un dominus che ti insegna un po’ di scrittura, che ti sta dietro e, magari, corregge le lacune che hai… Lì si fa il salto, secondo me. Unire la preparazione al concorso con una professione che ti insegna a scrivere» (intervista 10).

Altri evidenziano come le lacune dell’offerta formativa che dovrebbe essere garantita dall’università pubblica vengano colmate dalla formazione privata:

«Noi usciamo dall’università che non sappiamo scrivere (…). Veniamo da un’università che probabilmente ci forma come giuristi, ma come se fosse una sorta di scuola peripatetica aristotelica, cioè tutto orale, tutta formazione orale. Scriviamo pochissimo… Usciamo dall’università e le specializzazioni non sono competitive, non ti danno la possibilità di poter sostenere il concorso in maniera competitiva. Quindi si è sviluppato tutto questo indotto dei corsi di formazione privati» (intervista 14).

La formazione post-universitaria privata è considerata da alcuni come opportunità per uno studio “più meditato”: 

«Ho seguito dei corsi privati… e Le dico che a me sono serviti tanto per conseguire una maturità di pensiero, per avere un approccio anche totalmente diverso; perché l’approccio avuto ai corsi e, poi, lo studio in magistratura era no qualcosa di completamente diverso dall’approccio universitario: all’università si è abituati a studiare una materia, un libro… Si ha un ambito di riferimento preciso, un programma da tot pagina a tot pagina. Nel concorso in magistratura non è così. Perciò un percorso post-universitario che, comunque, ti aiuta a destreggiarti nell’affrontare il concorso (…) è stato per me molto importante (…). La fase formativa post-accademica mi ha consentito di avere una formazione molto più meditata, diversa da quella ricevuta all’università» (intervista 40).

Non manca, peraltro, chi sottolinea in modo critico le implicazioni di questo fenomeno in termini di accessibilità, anche censitaria, al ceto della magistratura[34]

«Ho imparato a scrivere… come si scrive un tema l’ho imparato dopo, e non me l’ha insegnato l’università, me l’hanno insegnato questi baroni privati di corsi-concorsi, che (…) hanno occupato questa offerta di mercato, questo indotto, e fanno tutto quello che l’università pubblica dovrebbe fare e non fa» (intervista 14).

Qualcuno degli intervistati riconduce l’inadeguatezza della preparazione fornita dall’università alla recente tendenza di orientare le prove scritte del concorso sulle novità giurisprudenziali, più che su temi generali. Sarebbe proprio tale tendenza a favorire i candidati che frequentano i corsi privati di preparazione al concorso: 

«Se tutti si preparano ai corsi privati, ovviamente sale il livello medio di preparazione, perché tu non devi prepararti solo con i tuoi mezzi, con i tuoi strumenti, ma hai qualcuno che già produce per te del materiale, che tu devi solo assimilare; quindi elimini tutta quella parte di ricerca, di acquisizione di materiale… ricerca, cioè, della sentenza: devi solo studiarla, perché c’è qualcuno che ha già fatto il lavoro preparatorio per te. E, inevitabilmente, questo fa salire il livello» (intervista 7).

Secondo gli intervistati che hanno sostenuto questa posizione, la preparazione fornita dall’università potrebbe essere sufficiente nel momento in cui le tracce delle prove scritte tornassero definitivamente a essere tracce mirate a sondare la preparazione generale del candidato. Alcuni intervistati hanno ritenuto che la formazione universitaria potrebbe costituire, in questo caso, quantomeno «una buona base» in vista del superamento del concorso. Ciò solleva considerazioni volte a una riforma radicale del metodo di reclutamento: 

«O si rivaluta enormemente il modo di esaminare i candidati, oppure non so, sinceramente, come si possa arrivare a rendere questo concorso un concorso selettivo, perché deve comunque rimanere selettivo, ma allo stesso tempo accessibile a tutti, che chiaramente sarebbe la cosa auspicabile, nel senso… che non ci siano differenze di ceto per poter accedere al concorso» (intervista 15).

Peraltro, diversi intervistati hanno sottolineato le carenze che la formazione giuridica universitaria presenterebbe anche rispetto al livello di approfondimento teorico, insufficiente ai fini del superamento del concorso in magistratura. Qualcuno contrappone l’approccio “orizzontale” dello studio universitario, caratterizzato dallo studio di molte materie in modo poco approfondito, allo studio “verticale”, concentrato su un numero limitato di materie con un elevato livello di approfondimento e indispensabile per superare le prove scritte del concorso: 

«Devo dire che l’università (…) l’ho trovata ottima (…). I professori erano molto bravi (…). Detto questo, rispetto al concorso in magistratura la formazione universitaria è molto carente, cioè non è per niente sufficiente... Dal punto di vista dottrinario, cioè proprio dei principi giuridici, all’università questi vengono affrontati in senso, per così dire, “orizzontale”, cioè si studiano gli istituti quasi a un livello nozionistico. E si studia un po’ tutto. Il concorso in magistratura richiede uno studio “verticale”, cioè molte meno cose, ma un livello di approfondimento molto più penetrante e, chiaramente, che superi quella superficialità che invece è data dallo studio universitario» (intervista 10).

Ciò che sembra mancare nel percorso universitario è la capacità di fornire le competenze per rielaborare le nozioni di diritto nella forma e agli scopi cui tendono le tracce concorsuali: 

«Di fatto, questi tre temi alla fine altro non sono che, se vogliamo vedere, la parte in diritto in una sentenza. Tutte le tracce erano, diciamo, strutturate con una modalità di questo tipo: premesse le linee generali relative a un certo istituto, il candidato tratti della questione specifica che appunto viene prospettata. Ebbene, questa era una modalità che presupponeva una particolare trattazione durante i corsi di diritto civile, di diritto penale, e che, però, nella sostanza non c’era. Perché queste materie venivano trattate oralmente, la competenza scritta era di fatto trascurata, totalmente trascurata, ecco» (intervista 41). 

C’è chi esprime considerazioni ancor più radicali in merito alla distanza tra lo studio richiesto per la preparazione universitaria e la preparazione del concorso: 

«Se penso a quello che ho studiato dopo per fare il concorso, dell’università – di quello che ho studiato all’università – non c’era niente (…), di tutti i testi che ho adottato all’università o che mi hanno fatto adottare, anche di penale e civile – quindi parliamo delle materie sostanziali – (…), non ce n’era uno che, poi, abbia potuto riprendere successivamente come base per dire: io questo l’ho già studiato, mi ci sono preparata, lo ristudio, lo approfondisco. Ho preso tutti dei manuali diversi perché le cose che mi avevano fatto studiare all’università su quei manuali non andavano (…), voglio dire: il diritto è sempre il diritto, la legge è sempre la legge, non è quello il problema; però non era un approfondimento, o meglio lo era, ma molto inferiore rispetto a quanto ci veniva richiesto» (intervista 1).

Alcuni rilevano uno sbilanciamento nella richiesta della preparazione teorica verso il diritto sostanziale, osservando l’assenza di competenze di diritto processuale richieste nelle prove scritte: 

«Potrebbe forse essere utile implementare la prova scritta, come si fa all’avvocatura di Stato, con la procedura. Penso che possa essere rilevante. Aumenterebbe la difficoltà del concorso, obiettivamente, però penso che le procedure debbano essere studiate con la medesima attenzione del diritto sostanziale perché poi, ovviamente, nel lavoro pratico del magistrato, conoscere a livello eccellente la procedura è qualcosa all’ordine del giorno» (intervista 6).

 

4. Dagli studi universitari al lavoro del magistrato

Le considerazioni sulla formazione universitaria si collocano su un diverso piano nel momento in cui, ai magistrati, è rivolto l’invito ad esprimersi in merito al ruolo che gli studi giuridici esercitano nello sviluppo delle competenze utili nel loro lavoro. È a questo proposito che le interviste rivelano l’anima “professionale” della magistratura, lasciando intendere come, nella quotidianità, il modo di pensare dei magistrati coniughi indissolubilmente sapere giuridico, competenze gestionali, organizzative e decisionali. Si tratta di «saperi di primaria importanza» dei quali coloro che lavorano negli uffici giudiziari italiani avvertono «un bisogno particolarmente stringente», ma che ordinariamente «non rientrano in prima battuta nei programmi di formazione giuridica e giudiziaria»[35].

La ricerca ha rilevato come, seppure con diverse sfumature, la maggior parte dei magistrati convenga nel ritenere l’esperienza pratica non essenziale ai fini del concorso, ricordando come per loro la chiave per il superamento delle prove sia stata rappresentata dallo «studio intenso, faticoso, spalmato nel tempo e approfondito» (intervista 32). Pur con i limiti di cui si è detto nel paragrafo precedente, l’approccio dogmatico della formazione universitaria è in qualche misura ritenuto funzionale all’obiettivo pratico del superamento delle prove concorsuali, dal momento che «approcciarsi a questi maxi-esami con uno studio, diciamo, soltanto solitario tra te e il libro è quello che poi ti capita per il concorso» (intervista 16).

Tale approccio è considerato, invece, del tutto inefficace se rapportato alla sfera lavorativa: 

«quello che sconta, secondo me, la nostra formazione è il confronto con l’ambito lavorativo» (intervista 16);

«siamo preparati: tecnicamente e teoricamente lo siamo, quello che ci manca è… il confronto con la realtà» (intervista 14); 

«nel momento in cui ho passato il concorso e, poi, mi sono trovata catapultata nel mondo del lavoro (…), se non avessi avuto le spalle larghe, effetto di sette anni di professione… e comunque un’età, (…) non sarei riuscita a gestire certe esperienze, anche particolarmente negative, che ho vissuto nella mia prima sede» (intervista 15);

«quella pratica (…) a noi mancava totalmente e ci rendeva, probabilmente, degli inetti da questo punto di vista, perché non avevamo alcun senso pratico» (intervista 24).

La discrepanza tra le conoscenze richieste dal sistema selettivo e le competenze indispensabili per esercitare le funzioni di magistrato viene sottolineata in modo unanime. Inducono a riflettere in modo critico su tale distanza le considerazioni autoironiche di uno degli intervistati: 

«A volte scherzo e dico: forse non lo so se sarei più in grado di superarlo il concorso… no? E quindi, quando a volte leggo le tracce dei concorsi – appunto – successivi al mio, dico: bah, non so se me l’avrebbero data la sufficienza. Eppure non mi ritengo proprio uno schifo di magistrato. Nel senso: cerco di fare del mio meglio, mi aggiorno, studio… Ci metto davvero il cuore, perché io non saprei fare altro nella vita. È il lavoro, a mio avviso, più bello del mondo, lo faccio con l’anima, però penso che (…) per superare il concorso devi essere sicuramente preparatissimo sull’aspetto, appunto, dell’istituto e quindi devi prendere i libri, li devi imparare, devi sapere tutto benissimo in teoria, (…) ti fanno leggere centinaia di sentenze, quindi stai sul pezzo, sull’ultima sentenza, su quello che ha detto il Consiglio di Stato piuttosto che la Cassazione… che è utile. Io ovviamente non dico che non lo sia, perché comunque ti dà una forma mentis e anche gli strumenti che ti serviranno per il lavoro, questo è indubbio. Però, secondo me, c’è un’attenzione spasmodica a un taglio così dettagliato, per cui perdi un po’ di vista l’aspetto generale (…) di quello che poi dovrai andare a fare» (intervista 9).

Gli intervistati esprimono pareri e giudizi non univoci riguardo alle fasi della formazione successive all’ingresso in magistratura, il cui esplicito obiettivo è supportare l’apprendimento del lavoro[36]. Unanime, tuttavia, è la loro opinione in merito al fatto che l’approccio esperienziale sia essenziale per capire come affrontare le complessità che connotano il lavoro del magistrato. 

L’esigenza formativa espressa dai magistrati riguarda «le tecniche per affrontare la risoluzione di un problema… è tutta lì che sta la formazione, gli strumenti per risolvere un quesito, non tanto la nozione, che poi piano piano la impari, ma come affrontarlo» (intervista 29). 

I momenti formativi in cui tale esigenza trova risposta «sono però piuttosto rari, (…) sporadici e occasionali, non inseriti all’interno di un programma didattico» (ivi). Le narrazioni degli intervistati confermano che l’apprendimento del know how del magistrato «si acquisisce in larga misura, salvo eccezioni di poco impatto sull’intero sistema, all’interno della macchina giudiziaria»[37]

Alla formazione ricevuta durante gli anni degli studi universitari gli intervistati non riconoscono tanto la responsabilità del fatto di essere entrati in magistratura impreparati all’esercizio delle funzioni specifiche, quanto il disinteresse verso l’obiettivo di dotare i neolaureati della capacità di risolvere problemi, e l’indifferenza che tale formazione rivolge a dimensioni – quali l’organizzazione e il dialogo con saperi diversi dal diritto – che si rivelano essenziali in ogni professione giuridica.

Da questa prospettiva, l’approccio dogmatico e nozionistico allo studio del diritto viene percepito come un ostacolo allo sviluppo della capacità del ragionamento giuridico, inteso come un’attività orientata a fornire soluzione a un problema:

«Non serve sapere tutte le risposte, ma è importante che qualcuno abbia fornito strumenti adeguati per riuscire a trovarle. Perché non si può, veramente (…) sapere tutto, e anche nelle sezioni specializzate arriva sempre la tematica, o processuale o sostanziale, che non ha risposta (…). Però, riuscire ad avere la prontezza d’individuare dove si potrebbe trovare questa risposta apre la porta poi alla soluzione del problema – criticabile, ovvio, perché poi di fatto è sempre attività interpretativa, ma almeno riesci a trovare una soluzione che sia coerente e logica» (intervista 29).

Con poche voci dissonanti, le considerazioni degli intervistati confermano una tendenziale insoddisfazione verso «l’equazione: “formazione del giurista = studio delle discipline”, così come fotografate nei diversi settori scientifico-disciplinari»[38]

Da alcune interviste emerge come la scarsa propensione degli studi giuridici a coniugare il sapere con un’attenzione verso gli strumenti utili per «saper fare»[39] ostacoli la piena comprensione di alcune materie, soprattutto nell’ambito del diritto processuale. Viene lamentato, al riguardo, come diversi istituti non possano essere pienamente compresi dagli studenti di giurisprudenza fino al momento del contatto con la realtà del diritto applicato: «seguire un’udienza penale, un’udienza civile… secondo me sono cose che mancano. Insomma, l’aspetto pratico» (intervista 12).

L’approccio dogmatico, quasi interamente concentrato sullo studio delle discipline giuridiche, concorre secondo alcuni ad alimentare, nel corso degli studi, l’idea del «magistrato (…) ancora – e questa è veramente retorica settecentesca –, come “bocca della legge”» (intervista 36). Ciò non consente a chi studia di intuire la distanza che separa le modalità con cui il ragionamento giudiziario prende forma in concreto dalla dimensione idealtipica disegnata dalle teorie ispirate all’approccio normativo[40]. Tale approccio non consente di immaginare che «tutti subiscono un grosso peso emotivo, perché quando tu mandi in carcere una persona, o togli l’affido, togli un bambino alla sua famiglia, non puoi essere come il giorno prima» (intervista 36), così come non permette di intuire che, nella quotidianità del magistrato, «l’organizzazione del lavoro [è] più del 50% del lavoro stesso» (intervista 22). 

Alla formazione universitaria viene da alcuni attribuita la responsabilità di alimentare una retorica formalista sul ruolo del magistrato[41], che non permette di capire, se non nel momento dell’ingresso nella realtà lavorativa, che «il magistrato deve essere una persona preparata, ma deve essere anche una persona senziente, perché non può chiudersi all’interno di un ambiente asettico in cui l’erudizione giuridica possa fingere di bastare a se stessa» (intervista 19). 

La complessità sottesa al ragionamento e alla decisione giudiziaria si collega all’avvertita necessità di integrare la formazione di una dimensione interdisciplinare: «forse la formazione dovrebbe anticipare (…) la trasmissione di queste abilità» (focus group n. 3).

In proposito, diverse interviste rivelano come la cultura giuridica dei magistrati tenda oggi a dare per acquisita la necessità che il magistrato si «cal[i] nei drammi della vita quotidiana delle persone… » (intervista 19).

«Sicuramente è necessaria una capacità di ascolto, ma anche una particolare attenzione e capacità di decodificare la realtà che ci circonda. In generale, ritengo che un magistrato debba (…) circumnavigare la scrivania, conoscere il mondo e poi sedersi di nuovo e giudicare e valutare. Perché non c’è, secondo me, peggior magistrato di quello che non conosce o non vuole conoscere la realtà che lo circonda. E quindi si priva di uno strumento assolutamente necessario per valutare ciò che gli si pone davanti in virtù del suo lavoro» (intervista 41).

La consapevolezza che il sapere giuridico non sia sufficiente per decodificare la realtà conduce i magistrati a considerare quasi ovvio che l’attività interpretativa dialoghi con saperi diversi dal diritto. A ciò si collega l’esigenza che la formazione fornisca «ai magistrati un’adeguata conoscenza della società nella quale agiscono»[42], integrando la trasmissione della conoscenza giuridica con saperi provenienti da campi extra-giuridici: 

«No, assolutamente… Nel mio percorso di studi, che è un percorso ovviamente ordinario, non ho avuto questa possibilità» (intervista 41).

«Io penso sinceramente che la materia della protezione andrebbe trattata in questo modo, cioè ci vorrebbe un esperto antropologo… oppure… uno psicologo che si occupa di immigrazione… delle figure di esperti che in qualche modo abbiano (…) gli strumenti per valutare queste storie. Perché poi, comunque, la differenza culturale è anche tale che a volte valutiamo assolutamente implausibili cose che, invece, cioè sono assolutamente plausibili se contestualizzate in un altro posto (…). [C]redo che noi giuristi non abbiamo forse la formazione sufficiente per fare questo tipo di lavoro. Sarebbe più adeguato che fosse un lavoro di équipe, come avviene, per esempio, nei tribunali per i minorenni» (intervista 15).

Una formazione giuridica disponibile ad aprirsi – almeno in parte – all’approccio fattuale supererebbe, secondo molti intervistati, l’incapacità del modello formativo di derivazione positivistica di formare giuristi in grado non solo «di padroneggiare il sapere giuridico [e] il saper fare» ma soprattutto «il saper essere»[43]. La ricerca rileva, peraltro, la diffidenza nei confronti della didattica esperienziale, mossi dalla preoccupazione che l’approccio pratico al diritto «uccida il pensiero» (focus group n. 1):

«L’università deve fare formazione, e uno deve studiare anche quelle robe un po’ astratte... Io mi studio la teoria del negozio giuridico e me la imparo: quando mai più lo potrò fare? A quarant’anni mi metto ad apprendere il negozio giuridico di Gazzoni? No, non lo fai più (…). Non so se uno studente anglosassone “puro”, che arriva negli studi americani a fare il diritto commerciale, avendo sempre e solo studiato meticolosamente da quando ha diciannove anni una branca del corporate law,… se lo metti a teorizzare, non te lo segue Kelsen, si perde a pagina 3! Se tu hai letto Kelsen, l’hai letto… e quando te lo leggi? Lo leggi a vent’anni, mica a cinquanta» (focus group n. 3). 

Si coglie in queste considerazioni come l’approccio sistematico continui a connotare la cultura giuridica di chi si è formato nelle università italiane, alimentando la percezione che teoria e pratica del diritto non possano che rappresentare momenti nettamente distinti nel percorso di apprendimento. Peraltro, le più recenti elaborazioni nell’ambito della pedagogia giuridica – nei contesti di common law come di civil law[44] – promuovono l’integrazione simultanea tra approccio pratico e riflessione al preciso fine contrastare il perdurare di un’artificiosa distinzione tra pensiero e azione, che non trova riscontro nella realtà. Tali sollecitazioni invitano a considerare come la pratica possa e debba assumere di per sé una dimensione riflessiva, grazie alla quale la formazione giuridica universitaria dovrebbe formare professionisti riflessivi[45], dotati della competenza di saper riflettere nel corso dell’azione[46]. Perseguire questo obiettivo, a cui guardano, per esempio, le cliniche legali[47], potrebbe costituire la chiave per ripensare i metodi della formazione giuridica rispondendo all’esigenza, emersa dalle parole degli intervistati, che essa possa integrare conoscenze e competenze. 

Ciò è reso oggi particolarmente importante dalla riforma del concorso[48], dal momento che il bagaglio formativo delle prossime generazioni di magistrati dovrebbe essere costituito, almeno formalmente, esclusivamente da quanto appreso durante i corsi di laurea.

 

 

1. D. Piana, Magistrati. Una professione al plurale, Carocci, Roma, 2010, p. 142. 

2. Art. 73 dl 21 giugno 2013, n. 69, convertito con modificazioni dalla legge 9 agosto 2013, n. 98 e successive modifiche.

3. Rispetto alla formazione post lauream, si rimanda al contributo di Chiara De Robertis, Formazione e forma mentis del magistrato, in questo fascicolo.

4. V. Ferrari, Diritto e società, Laterza, Roma-Bari, 2004. 

5. Sul primo aspetto cfr., tra i molti, F. Palazzo e O. Roselli (a cura di), I professionisti della giustizia. La formazione degli operatori dell’amministrazione della giustizia, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2007. Sulle implicazioni culturali e sociali della formazione giuridica si soffermano, per esempio, M. Vogliotti, Per una nuova educazione giuridica, in Diritto e questioni pubbliche, vol. XX, n. 2/2020, pp. 229-259, e C. Blengino e C. Sarzotti (a cura di), Quale formazione per quale giurista? Insegnare il diritto nella prospettiva socio-giuridica, Università degli Studi di Torino, 2021 (www.collane.unito.it/oa/items/show/97#dettagli).

6. C. Sarzotti, Processi di selezione del crimine. Procure della Repubblica e organizzazione giudiziaria, con saggi di C. Blengino e G. Torrente, e prefazione di M. Maddalena, Giuffrè, Milano, 2007, p. 51. Sul rapporto tra organizzazione giudiziaria e New Public Management si vedano le riflessioni di G. Torrente, New Public Management e organizzazione giudiziaria: la prospettiva dei magistrati, in questo fascicolo.

7. Cfr. C. Guarnieri, La giustizia in Italia, Il Mulino, Bologna, 2011; C. Guarnieri e P. Pederzoli, La magistratura nelle democrazie contemporanee, Laterza, Roma-Bari, 2002.

8. L. Verzelloni, Dietro alla cattedra del giudice. Pratiche, prassi e occasioni di apprendimento, Pendragon, Bologna, 2009, p. 266. Tra le ricerche che si sono occupate del tema, si vedano anche: S. Zan, Fascicoli e tribunali. Il processo civile in una prospettiva organizzativa, Il Mulino, Bologna, 2003; D. Nelken e M.L. Zanier, Tra norme e prassi: durata del processo penale e strategie degli operatori del diritto, in Sociologia del diritto, vol. XXXII, n. 1/2006, pp. 143-166; C. Sarzotti, Processi di selezione del crimine, op. cit.; L. Verzelloni, Pratiche di sapere. I rituali dell’innovazione nella giustizia italiana, Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz), 2019.

9. P. Catellani, Il giudice esperto. Psicologia cognitiva e ragionamento giudiziario, Il Mulino, Bologna, 1992.

10. Con tale concetto ci si riferisce, nell’ambito della sociologia del diritto, all’insieme degli «atteggiamenti e modi di sentire che predispongono gruppi ed individui a rivolgersi al diritto» (L.W. Friedman, Il sistema giuridico nella prospettiva delle scienze sociali, Il Mulino, Bologna, 1978, p. 325). Per un approfondimento in merito alla percezione che i magistrati esprimono circa il proprio ruolo, si rimanda al contributo di Costanza Agnella, Dalle motivazioni all’ufficio giudiziario: la percezione del ruolo del giovane magistrato, in questo fascicolo. 

11. Cfr. C. Blengino e C. Sarzotti (a cura di), Quale formazione, op. cit., p. 14.

12. P. Grossi, L’Europa del diritto, Laterza, Roma-Bari, 2007.

13. G. Tarello, Storia della cultura giuridica moderna. Assolutismo e codificazione del diritto, Il Mulino, Bologna, 1976, p. 28.

14. L. Bugatti, L’identità del nuovo giurista e il diritto come pratica sociale, in G. Viggiani (a cura di), La didattica del diritto. Paradigmi, casi ed esperienza, Ledizioni, Milano, 2022, p. 171.

15. A.M. Hespanha, La cultura giuridica europea, Il Mulino, Bologna, 2012.

16. P. Grossi, L’ Europa, op. cit., p. 154. 

17. D. Piana, Di quali saperi abbiamo bisogno? La conoscenza tecnico-scientifica nella collaborazione fra uffici requirenti e università, in Archivio penale, vol. LXVI, n. 1/2014, p. 202. 

18. C. Blengino, Svelare il diritto, Giappichelli, Torino, 2023, p. 16.

19. V. Scialoja, L’ordinamento degli studi di giurisprudenza in relazione alle professioni (1914), in Scritti e discorsi politici, vol. II, Cedam, Padova, 1936, p. 213.

20. M.R. Damaška, I volti della giustizia e del potere. Analisi comparatistica del processo, Il Mulino, Bologna, 1991.

21. D. Piana, Magistrati, op. cit., p. 18.

22. P. Catellani, Il giudice esperto, op. cit., p. 113.

23. G. Pascuzzi, La creatività del giurista. Tecniche e strategie dell’innovazione giuridica, Zanichelli, Bologna, 2018, p. 1.

24. D. Piana, Di quali saperi abbiamo bisogno?, op. cit., p. 203. 

25. Il riferimento è alla celebre distinzione operata da Roscoe Pound tra «law in the books» e «law in action» (Law in the books and law in action, in American Law Review, vol. XLIV, n. 1/1910, pp. 12 ss.).

26. Tra coloro che negli ultimi anni hanno tentato di animare tale riflessione si possono citare, per esempio, i contributi di G. Pascuzzi, Giuristi si diventa. Come riconoscere e apprendere le abilità proprie delle professioni legali, Il Mulino, Bologna, 2008; Id., La creatività del giurista, op. cit.; M. Vogliotti, Per una nuova educazione giuridica, op. cit.; O. Roselli, Scritti per una scienza della formazione giuridica, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2012; B. Pasciuta e L. Loschiavo (a cura di), La formazione del giurista. Contributi per una riflessione, RomaTre Press, Roma, 2018; C. Blengino e C. Sarzotti (a cura di), Quale formazione, op. cit. 

27. Cfr. C. Blengino e C. Sarzotti (a cura di), op. ult. cit., p. 12.

28. Per approfondimenti in merito all’educazione clinico-legale vds., tra gli altri: C. Blengino, Svelare il diritto. La clinica legale come pratica riflessiva, Giappichelli, Torino, 2023; A. Maestroni - P. Brambilla - M. Carrer (a cura di), Teorie e pratiche nelle cliniche legali, Giappichelli, Torino, 2018; M. Barbera, The Emergence of an Italian Clinical Legal Education Movement: the University of Brescia Law Clinic, in A. Alemanno e L. Kaddar (a cura di), Reinventing Legal Education: How Clinical Education is Reforming the Teaching and Practice of Law in Europe, Cambridge University Press, Cambridge, 2018, pp. 59-75.

29. M. Vogliotti, Il giudice al tempo dello scontro tra paradigmi, in Diritto penale contemporaneo, 2 novembre 2016, p. 22 (https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/upload/VOGLIOTTI_2016a.pdf).

30. Cfr. Azione 1.4.1 del progetto: www.pongovernance1420.gov.it/it/progetto/ufficio-per-il-processo/.

31. Per una panoramica sull’attuale funzionamento concorsuale si rimanda al contributo di C. De Robertis, Formazione, op. cit.

32. A. Padoa Schioppa, Ri-formare il giurista. Un percorso incompiuto, Giappichelli, Torino, 2014, p. 84. 

33. Con riferimento alle considerazioni sugli obiettivi della prova orale, cfr. il contributo di C. De Robertis, Formazione, op. cit. 

34. Per la concettualizzazione del ceto dei giuristi si rimanda al pensiero di Max Weber, Economia e società, Edizioni di Comunità, Milano, 1981 [1922]. 

35. D. Piana, Di quali saperi abbiamo bisogno?, op. cit., p. 201. 

36. Tale argomento viene analiticamente affrontato nel saggio di C. De Robertis, Formazione, op. cit. 

37. D. Piana, Magistrati, op. cit., p. 142.

38. M.C. Giorgetti, La formazione del giurista in Italia, con uno sguardo all’esperienza di Francia e Germania, in Cultura e diritti, Scuola superiore dell’avvocatura, Fondazione del Consiglio nazionale forense, vol. III, n. 2/2014, pp. 15-28.

39. G. Pascuzzi, La creatività del giurista, op. cit., p. 221.

40. I processi cognitivi che sostengono empiricamente il ragionamento giudiziario sono oggetto di diversi studi. Tra questi si rimanda, per esempio, a: P. Catellani, Il giudice esperto, op. cit.; C. Bona e R. Rumiati, Psicologia cognitiva per il diritto. Ricordare, pensare, decidere nell’esperienza forense, Il Mulino, Bologna, 2013; A. Forza - G. Menegon - R. Rumiati, Il giudice emotivo. La decisione tra ragione ed emozione, Il Mulino, Bologna, 2017.

41. Sul tema, si rimanda al contributo di C. Agnella, Dalle motivazioni all’ufficio giudiziario, op. cit.

42. D. Piana, Magistrati, op. cit., p. 150.

43. G. Pascuzzi, La creatività del giurista, op. cit., p. 221.

44. C. Blengino - S.L. Brooks - M. Deramat - S. Mondino, Reflective Practice: Connecting Assessment and Socio-Legal Research in Clinical Legal Education, in International Journal of Clinical Legal Education, vol. 26, n. 3/2019, pp. 54-92.

45. D. Schon, Il professionista riflessivo. Per una nuova epistemologia della pratica professionale, Dedalo, Bari, 1993 [1983].

46. Ivi.

47. C. Blengino, Svelare il diritto, op. cit.

48. Cfr. C. De Robertis, Formazione, op. cit.