Magistratura democratica

New Public Management e organizzazione giudiziaria: la prospettiva dei magistrati

di Giovanni Torrente

In questo articolo si introducono alcune riflessioni, frutto delle testimonianze offerte dai magistrati coinvolti nella ricerca, sul rapporto fra scelte organizzative e gestione dei carichi di lavoro. In particolare, si è inteso indagare l’approccio dei magistrati rispetto a quell’insieme di pratiche e concezioni definite attraverso l’etichetta di “New Public Management”. Ne emerge un quadro molto conflittuale, dove gli intervistati si mostrano particolarmente critici sia nei confronti delle scelte del legislatore, sia rispetto ai criteri di assegnazione degli organici e dei carichi di lavoro. I risultati stimolano alla produzione di nuovi studi e ricerche sull’amministrazione della giustizia in Italia, in vista di ulteriori riforme che dovrebbero essere – finalmente – condivise da tutti gli attori in campo.

1. New Public Management e organizzazione della giustizia / 2. La questione (dis)organizzativa, figlia di variabili esogene / 2.1. L’iniqua distribuzione delle risorse come ostacolo a una giustizia uguale in tutta Italia / 2.2. Ampliamento dell’area del controllo penale e lavoro dei magistrati / 2.3. Le riforme che peggiorano le cose / 3. Conclusioni (a mo’ di). La questione organizzativa in lontananza

 

1. New Public Management e organizzazione della giustizia

Con il presente contributo si intende dar conto dei risultati emersi durante il percorso di ricerca, relativamente alle opinioni e alle rappresentazioni offerte dai magistrati sul rapporto fra scelte organizzative e amministrazione della giustizia.

Come è noto, il tema è stato per lungo tempo molto rilevante nell’ambito della discussione sull’amministrazione della giustizia nel contesto anglosassone, ma non solo. Attorno all’etichetta di “New Public Management” si sono sviluppate, tra la fine degli anni settanta e i primi anni duemila, numerose teorie relative a un nuovo approccio di stampo efficientistico nell’ambito della pubblica amministrazione[1]. Tali teorie, secondo molti[2], avrebbero avuto un impatto significativo sull’amministrazione della giustizia in diversi Paesi, là dove ha visto l’introduzione di strumenti di calcolo dei costi/benefici e la valutazione dei risultati in relazione ai rischi assunti. Ciò si sarebbe tradotto nell’introduzione, all’interno del vocabolario giuridico, di termini e concetti propri dell’analisi economica: best practices, criteri di funzionamento, management delle performances, previsione del rischio. Tali pratiche hanno riguardato numerosi Paesi, influenzando fortemente l’organizzazione giudiziaria e le modalità operative dei tribunali, soprattutto nei Paesi di common law[3], ma anche, seppur in una maniera più frammentata, Paesi di civil law[4]

Parallelamente, l’estraneità di tali concetti rispetto al tradizionale linguaggio giuridico avrebbe “depoliticizzato” l’attività delle agenzie di controllo sociale attraverso l’utilizzo di un vocabolario apparentemente neutrale, ma nei fatti in grado di produrre un impatto in termini di amministrazione della giustizia e, nel campo penale, di politiche criminali. Nell’ambito statunitense, ad esempio, è stato rilevato come l’adozione di pratiche fondate sul rapporto costi/benefici abbia favorito una contrazione nella concessione del beneficio del parole, oltre a un aumento degli arresti per la violazione delle prescrizioni previste dal regime di libertà sulla parola[5]. Tale mutamento sarebbe anche dovuto a un diverso atteggiamento culturale dei parole officers, i quali avrebbero modificato le proprie pratiche facendo prevalere l’aspetto del controllo su quello del supporto nei confronti del liberato. Tale cambiamento rispecchierebbe l’impatto prodotto dall’utilizzo di criteri di efficienza nell’operato degli attori della giustizia penale. Ciò si tradurrebbe in un approccio volto alla riduzione dei rischi connessi all’esercizio delle professioni legali[6], anche attraverso una maggiore rigidità delle pratiche, là dove in precedenza prevaleva un approccio di stampo paternalistico. In definitiva, si passerebbe da un modello di giustizia (in primis penale, ma non solo) fondata sul fatto, a uno fondato sul rischio connesso ad alcuni fenomeni o categorie sociali, dall’utilizzo di criteri fondati sulla ragionevolezza a una galassia di pratiche semi-automatizzate rappresentate dal modello della giustizia attuariale[7].

Le ricerche condotte in Italia sull’organizzazione giudiziaria hanno dimostrato come i paradigmi legati all’efficientismo organizzativo abbiano faticato a imporsi nella cultura giuridica del nostro Paese, sia all’interno del campo penale[8], sia nel civile[9]. Ciò non ha, peraltro, determinato un’immunità da parte degli uffici giudiziari italiani di fronte a quelle pratiche di giustizia attuariale che hanno caratterizzato altri Paesi. Al contrario, diverse ricerche hanno testimoniato l’esistenza di procedure semi-automatizzate nella gestione dei fascicoli che, in particolare nel campo penale, incidono sulle dinamiche del processo di criminalizzazione[10]. Tuttavia tali pratiche, fatti salvi rari casi[11], non parevano esser figlie di un approccio efficientistico, dove i processi di gestione dei fascicoli erano predeterminati secondo criteri di efficienza e prudenza. Al contrario, le ricerche condotte in Italia fra la fine degli anni novanta e l’inizio del nuovo secolo mostravano un quadro dove la gestione dei fascicoli appariva orientata da scelte legate alle continue emergenze, dai carichi di lavoro, spesso accompagnate dall’utilizzo di nozioni di senso comune e di stereotipi sulla sicurezza e la criminalità.

Ad anni di distanza da quelle ricerche, l’indagine in oggetto permette di offrire alcuni spunti di riflessione sulle rappresentazioni della questione organizzativa offerte dai magistrati coinvolti nella ricerca. I prossimi paragrafi saranno quindi dedicati alla breve discussione di diverse tematiche individuate dai soggetti intervistati e alla prospettiva adottata nel confrontarsi con l’efficienza del sistema giustizia. 

Una premessa appare, a questo punto, doverosa. Il tema organizzativo non era al centro della traccia d’intervista semi-strutturata, né della scaletta dei focus group: è emerso – spesso a prescindere dalle intenzioni delle/dei ricercatori, talvolta stimolando vivaci dibattiti – durante i focus group. Ed è in quest’ottica che ne daremo conto, senza alcuna pretesa di rappresentatività né di esaustività, ma piuttosto come stimoli a una più ampia riflessione che, inevitabilmente, dovrà svilupparsi attraverso ulteriori ricerche.

 

2. La questione (dis)organizzativa, figlia di variabili esogene

Il dato più evidente – come risulta dalle trascrizioni delle interviste e dei focus group realizzati – è che la questione organizzativa, nelle rappresentazioni dei soggetti coinvolti, quasi mai venga interpretata come lo specchio di un’incapacità interna agli uffici di appartenenza. Di regola, ciò appare come il portato ultimo di scelte del legislatore, del Ministero e del Consiglio superiore della magistratura, che attraverso le loro decisioni complicherebbero la gestione dei fascicoli, contribuendo in maniera decisiva a una non efficiente gestione della giustizia.

Poco o nulla traspare, inoltre, sul rapporto tra questione organizzativa e politiche giudiziarie o criminali. La questione dell’organizzazione degli uffici sembra, infatti, essere prevalentemente declinata in termini di distribuzione delle risorse e gestione dei fascicoli, senza che compaia all’orizzonte una visione critica legata al rapporto tra efficientismo e pratiche di giustizia attuariale. Certo, emerge spesso il tema della necessaria depenalizzazione. Tuttavia, come si vedrà fra breve, esso appare richiamato nel senso dell’inutilità della gestione dei fascicoli bagatellari di fronte a una mole di reati ben più importanti che richiedono di essere trattati.

Il tema dell’efficienza organizzativa appare quindi, in ultima analisi, come il frutto di numerose criticità, di scelte di terzi, che rendono il lavoro del magistrato più difficile del dovuto. 

Occorre, quindi, soffermarsi su talune di queste criticità.

 

2.1. L’iniqua distribuzione delle risorse come ostacolo a una giustizia uguale in tutta Italia

Una questione centrale di alcuni focus group è la distribuzione dell’organico tra le diverse sedi giudiziarie. Durante gli incontri, il dibattito sui criteri applicati al riguardo si è animato, spesso in forma rivendicativa.

Sono stati, in particolare, oggetto di discussione:

a) i criteri per la definizione delle piante organiche. Secondo diversi magistrati coinvolti nei focus, tali criteri non terrebbero conto di alcune variabili, tra le quali, ad esempio, il fatto che alcuni uffici del Sud Italia si occupino di indagini molto delicate e pericolose. Agli occhi degli intervistati, questo aspetto andrebbe tenuto in maggior considerazione al momento della definizione delle piante organiche;

b) a ciò si aggiunga il fatto che, proprio in ragione della difficoltà del lavoro presso alcune sedi, ad esse sono assegnati magistrati di nuova nomina i quali, appena possibile, richiedono il trasferimento in altre sedi, meno problematiche sul piano del tipo di lavoro svolto;

c) inoltre, le carenze di organico sarebbero aggravate dai criteri utilizzati nel definire le sedi disagiate, i quali non terrebbero conto della difficoltà del lavoro, quanto piuttosto del mero fatto che esse non siano state scelte da nessun magistrato per due assegnazioni consecutive;

d) infine, il tutto sarebbe reso ancora più complesso dai numerosi distaccamenti, che provocano una distanza tra piante organiche formalmente complete e realtà caratterizzate da numerose assenze.

I passi di intervista di seguito riportati paiono efficacemente rappresentare tali rimostranze.

«(…), che è comunque un tribunale distrettuale, facendo le stesse funzioni, in preparazione a quelle che ho svolto qua, e sono rimasta colpita dal fatto che a (…) c’è la stessa pianta organica rispetto a quella che ho trovato a (…), pianta organica formata da magistrati di esperienza, misure di prevenzione antimafia, quindi anche una cosa delicata… A (…) l’organico è il medesimo, siamo – a parte il presidente – tutti di primo e secondo anno di funzioni, con un carico di lavoro che, secondo me, va oltre il triplo di quello che ho trovato a (…). Perciò mi domando: ma allora è una scelta quella di lasciare un tribunale come quello di (…) in simili condizioni? Cioè, perché a (…) il giovane magistrato si trova ad avere a che fare con questioni anche più delicate di quelle che, per esempio, si trova ad affrontare a (…), con un carico di lavoro enorme che, associato all’inesperienza, associato alla corsa al numero, insomma… rende il nostro lavoro molto difficile, con tutta la passione che uno ci può mettere…» (focus group n. 2).

«Magistrato 5: Sì, diciamo che comunque, in tutti gli incontri, nei dibattiti fra colleghi e quant’altro, si vanno sempre a capire quali sono le cause dei problemi; alla fine, se uno scava, si arriva sempre alla madre di ogni rogna, che è la carenza di organico. È tutto lì. Ovviamente, ciò amplifica qualsiasi tipo di problema.

Magistrato 7: La carenza di organico nel tribunale, sicuramente… Ad esempio, nel tribunale nostro, abbiamo un organico teoricamente pieno, che poi in realtà è svuotato, perché c’è una persona applicata in corte d’appello, dove l’organico è praticamente…» (focus group n. 1).

«Magistrato 1: no, è vero, ci sono molti magistrati… Ci sono proprio i bandi per le sedi disagiate, che comportano ovviamente… Che poi (…) il concetto di “disagiato” non è connesso al deficit organizzativo… Disagiato, se non erro, è quando per due…

Magistrato 4: … Sì, per due anni va deserto il posto» (focus group n. 2).

«Magistrato 6: È un lavoro che si impara sul campo, fondamentalmente. Per quanto possa fare il tirocinio, diciamo che, in un mese o due di lavoro effettivo, uno ha imparato di più che nei diciotto mesi o nei dodici di tirocinio. Questa è la verità. Allora, quando poi finisci in un tribunale del genere, tra ragazzi… Magari, se ci fossero figure più stabili, persone di esperienza, anche in carenza di organico uno bene o male avrebbe garantita una solidità maggiore. Invece qua il problema è proprio che si viene… non dico gettati allo sbaraglio, però c’è questo aspetto dei ragazzi mandati “in trincea”, qui come in (…)» (focus group n. 2).

«Magistrato 2: … ma anche perché… i posti sono pochi, il lavoro è tantissimo, quindi la gente, alla prima occasione, se ne scappa da questi tribunali… Un turnover continuo, ci sono sempre i giovani, magistrati di prima nomina, che vengono mandati (…). Sicché si è creato un circolo del genere. Si dovrebbe fare una seria riforma sull’organico, sulle piante organiche degli uffici» (focus group n. 2).

 

2.2. Ampliamento dell’area del controllo penale e lavoro dei magistrati

Dai focus realizzati risulta chiara la consapevolezza, figlia dell’esperienza maturata sul campo, di alcuni tra i fenomeni che hanno contraddistinto il campo della penalità. Senza scomodare le approfondite ricostruzioni sociologiche che hanno individuato nel passaggio dal “Welfare State” al “Penal State[12] uno dei tratti caratteristici della tarda modernità, i magistrati intervistati si mostrano consapevoli che al campo del diritto penale sia riservata la gestione di fenomeni di cui gli organi giudiziari, da un lato, non sono in grado di occuparsi efficacemente e che, dall’altro, affollano gli uffici giudiziari, togliendo tempo a indagini più importanti. 

Parallelamente, alcuni ricordano come, da diversi anni, il lavoro del magistrato sia diventato più complesso, anche a causa del fatto che i compiti loro assegnati sono oggetto di attenzione critica da parte dell’opinione pubblica. Seppur non citato direttamente, appare all’orizzonte il tema del populismo penale[13] e il fatto che, nell’ambito delle dinamiche connesse all’acquisizione del consenso, il ruolo del magistrato sia sotto la lente della pubblica informazione e della politica.

Anche in questo caso, tornerà utile riportare alcuni passaggi.

«Siamo visti come coloro che dovrebbero sopperire alla mancanza di altri enti, no? E però… se noi fossimo sfrondati di tutte le “cazzate”, mi passi il termine… lavoreremmo penso il 50% in meno, o forse anche una percentuale più alta, no? Mi dai la conferma anche per coloro che sono in Procura… Cioè, se praticamente ci togliessero i fascicoli per cose davvero bagatellari, il vicino che ti guarda storto, non so… lavoreremmo il 50% – forse anche qualcosa oltre – in meno, secondo me…» (focus group n. 1).

«Una seria depenalizzazione, cioè… facciamo il procedimento amministrativo per l’espulsione dello straniero e poi apri, in parallelo, un processo penale con la polizia giudiziaria che deve essere impiegata a cercare questo soggetto in tutto il territorio nazionale… Pagargli un difensore d’ufficio a scapito delle tasche del contribuente, occupare dei giudici che devono chiaramente portare avanti un procedimento, fare indagini, capire questo quando è arrivato… Dico, ma santo cielo, qua mettiamo i termini per i giudizi in appello o in Cassazione, ma non depenalizziamo nulla!» (focus group n. 2).

« … e ti ritrovi con la patata bollente, come quando mi hanno arrestato il ragazzetto che era in una condizione di delirio… e lo hanno arrestato. Come soluzione, alla fine, ha fatto una “resistenza a pubblico ufficiale”, perché stava delirando… Quindi tu ti ritrovi una persona che in quel momento è sotto la tua responsabilità, sta delirando, è lontano da casa – veniva da Roma –, è un pazzo in macchina, e che ne fai? Sai che è pericoloso, però che fai? Un ragazzo così lo metti in carcere? Non te la senti di sbatterlo in un carcere… e… non gli puoi fare tu un TSO, perché non sei tu il dottore… A me è capitato di fare dei provvedimenti inventati, con misure cautelari inventate, per cui disponevo che fosse tradotto con la forza dalla PG in ospedale… Cioè, io ho firmato e ho detto: va beh, quello che succede, succede, è un provvedimento extra ordinem. Tutto, per fortuna, è andato bene» (focus group n. 2).

«Oggi come oggi, abbiamo responsabilità molto maggiori rispetto a quelle che avevamo un tempo. Adesso siamo veramente nell’occhio del ciclone per qualsiasi cosa… Un tempo noi eravamo… potevamo fare, ovviamente salvo fatti molto gravi, però insomma… disciplinari, sanzioni erano veramente poca cosa. Oggi le cose sono completamente cambiate, la cultura nazionale è totalmente invertita, e siamo sotto un controllo anche eccessivo, no? Ogni tanto mi sento veramente (…) Siamo anche esposti, ovviamente, a sanzioni, disciplinari… [Qualcuno nomina l’opinione pubblica – ndr] … dell’opinione pubblica, sì, sì... Le cose sono completamente cambiate da questo punto di vista» (focus group n. 2).

 

2.3. Le riforme che peggiorano le cose

La terza categoria di rimostranze riguarda l’impatto prodotto dalle recenti riforme che hanno riguardato la giustizia. In particolare, forte è il disappunto verso i criteri statistici introdotti dalla riforma dell’ordinamento giudiziario nella valutazione dell’efficienza degli uffici. Se possibile, ancor più radicale è la contrarietà nei confronti dei limiti imposti alla durata dei procedimenti giudiziari che, secondo gli intervistati, provocherebbero sia uno spreco delle risorse investite per instaurare il procedimento, sia la sostanziale impossibilità a svolgere indagini complesse, a causa dei tempi troppo brevi per giungere alla conclusione della trafila giudiziaria. Una contrarietà radicale, quindi, che sembra trovare un forte livello di condivisione tra i magistrati coinvolti nella ricerca.

A tale contrarietà verso la riforma dell’o.g. si associa una certa delusione nei confronti dell’impatto prodotto dall’Ufficio per il processo. In questo caso, le critiche riguardano le reali capacità delle persone assunte nell’Ufficio, che, in alcuni casi, richiederebbero più tempo per la formazione dei neo-assunti rispetto ai vantaggi prodotti in termini di riduzione dei carichi di lavoro.

I passi citati offrono uno spaccato dell’approccio dei magistrati intervistati rispetto ai tentativi di riforma.

«Basta vedere quello che è successo recentemente. Per fare il PNRR hanno fatto queste riforme, che sono: giustizia civile…, no? Tutta la riforma… Però se si vanno vedere le statistiche del Ministero, ci sono le statistiche di tutti i tribunali. Ultimamente, dopo il Covid, ci si era rimboccati le maniche con questa trattazione scritta e, se si guardano le mappe dei tribunali, sono tutte verdi. Quindi, tutto sommato, in qualche modo si era iniziato a dare una svolta all’arretrato. Cos’hanno fatto? Hanno cambiato tutto. Termini, cose, tutto… Così, uno ha meno tempo per decidere, fa le cose di fretta, e comunque genera arretrato. Per aumentare le statistiche, hanno trasformato quello che decidevi con ordinanza con sentenza, visto che la statistica europea vuole la sentenza, e quindi aumenteranno fittiziamente il numero dei provvedimenti emessi con sentenza, diminuendo quelli emessi con ordinanza – banalmente. E, allora, raggiungeranno questi obiettivi. Ma poi, nel concreto, non c’è nulla di effettivo» (focus group n. 2).

«Poi… quelli che sono stati assegnati, non tutti sono letteralmente in grado di dare una mano, perché molti non hanno nemmeno fatto… Che so, a me è capitato l’UPP… Molti di questi non sono mai entrati in un tribunale, o ci sono entrati così, per vederlo e basta, perché non avevano precedente esperienza. Mentre ci sono altri, per esempio ex avvocati, molto più operativi. Perciò, chi ha avuto come assegnazione un UPP ed è un ex avvocato può utilizzarlo in maniera seria, perché è una persona che ha la dimestichezza col lavoro, sa cosa sta andando a fare» (focus group n. 2).

«... e non hanno la responsabilità della firma. Cosa che a me infastidisce molto, in quanto si pretende che il mio lavoro si velocizzi tramite l’ingresso di ufficiali per il processo, spesso laureati in scienze sociali o in economia, che non hanno fatto il concorso in magistratura… e a me creano… I miei, per esempio, sono un aggravio. Devo insegnargli, devo correggerli… Se invece avessero determinati provvedimenti, determinate questioni di loro competenza, nelle quali ciascuno ha l’obbligo, la responsabilità di firma, il mio lavoro effettivamente ne sarebbe alleggerito» (focus group n. 2).

«C’è una sorta di prescrizione in appello se non riesci a chiudere in giudizio… Allora, mi sembrano risposte al problema della giustizia del tutto incoerenti. Cioè tu spingi in primo grado a fare indagini, a portare avanti tutti i processi, che poi verranno – verosimilmente, una volta intasato l’appello – censurati tutti in appello, come una “mannaia”… Sarà quasi impossibile concludere il processo in quei termini, soprattutto quando conti un organico che è proprio – diciamolo – non adeguato all’esigenza dell’ufficio. Quindi sono tutte riforme… solo in apparenza… perché il carico lo tagli, ma come? Non facendo giustizia alla fine. In appello c’è quella “mannaia” e, se non riesci a chiudere il giudizio in appello o in Cassazione nei termini indicati, il procedimento viene chiuso a prescindere. Peraltro, anche le forze di polizia, nella riduzione dei termini di indagine, hanno un numero esiguo sul territorio perché – anche qui – le piante organiche non sono aggiornate. Praticamente, la polizia giudiziaria risponde anche dopo sei, sette mesi e tu hai perso un semestre di indagine (in sostanza, metà del tuo tempo per le indagini, per ottenere soltanto un esito delega). Come fai a chiudere un’indagine in un anno? Sono termini che proprio non si confrontano a quelli che sono i problemi reali, attuali degli uffici. Sembrano scritti da chi, gli uffici, non li ha mai visti» (focus group n. 1). 

 

3. Conclusioni (a mo’ di). La questione organizzativa in lontananza

I dati della ricerca rivelano un quadro molto provvisorio, nel quale la questione organizzativa è al centro di una rivendicazione di fronte a scelte che non appaiono eque agli occhi dei magistrati coinvolti. All’orizzonte non c’è traccia dell’adozione di criteri e obiettivi propri del New Public Management nell’ambito della giustizia. Anche a livello lessicale, non risulta che tali paradigmi siano divenuti oggetto di condivisione tra i vertici della magistratura, i dirigenti degli uffici e i singoli magistrati. Piuttosto, si critica un sistema che non appare né equo né razionale, e nel quale le riforme, piuttosto che rendere la giustizia più efficiente, sembrano porsi in contrasto con la cultura giuridica dei destinatari delle riforme stesse. Non riuscendo, peraltro, ad incidervi, perlomeno nel breve periodo.

L’incubo dei carichi di lavoro, spesso evocato durante i colloqui, pare nascondere un universo di strategie informali che qui è solo accennato, quasi sottinteso, e che meriterebbe nuovi studi in grado di far luce sulle pratiche di una giustizia che soffre la mancanza di direttive chiare, ma che tuttavia deve confrontarsi con l’espansione della competenza. Quest’ultimo aspetto, specie nel campo del diritto penale, mostra tutta l’irrazionalità del ruolo attribuito alla giustizia in epoca contemporanea.

«Questo, però, è anche un fatto di mentalità… Bisogna distinguere il problema del deficit organizzativo… Un conto è il problema dell’organizzazione del lavoro, che secondo me è nazionale… Il problema delle piante organiche, il problema della carenza di magistrati e quello della disorganizzazione e cattiva organizzazione del personale amministrativo: questo è nazionale. Nel caso specifico di Palmi, ieri ragionavamo sul fatto che ora abbiamo 3 cancellieri e 480 funzionari; non si capisce i funzionari cosa devono fare, ma abbiamo 3 cancellieri. Secondo me, quindi, è una questione proprio generale…» (focus group n. 2).

Di fronte a un quadro simile, si prospetta l’urgenza di un nuovo ciclo di ricerche empiriche sull’amministrazione della giustizia, a vent’anni oramai dal fortunato ciclo di ricerche promosse dal Csm e dal Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale[14]. Rispetto ai risultati degli studi allora prodotti, le similitudini appaiono numerose: i problemi dei carichi di lavoro, la generale assenza di leadership organizzative, una cooperazione conflittuale[15] fra i soggetti in campo, spesso problematica. Parallelamente, questi anni hanno visto svilupparsi diversi nuovi fenomeni, che meritano attenzione e andrebbero analizzati più nel dettaglio. Si pensi, in particolare, alla crisi che il modello del NPM sta conoscendo in diversi Paesi; agli effetti dei fenomeni populisti nell’amministrazione della giustizia; all’ingresso di nuovi attori all’interno del campo giuridico… E molto altro ancora.

Certamente, la ricerca sul campo in questi anni non è stata con le mani in mano e diverse indagini sono state effettuate, in particolare sul rapporto tra processo, amministrazione e cultura giuridica[16]. Tuttavia, si avverte la necessità di un nuovo ciclo organico di studi sulla giustizia italiana, che preluda a interventi strutturali non più procrastinabili. Le testimonianze raccolte nello studio in esame denotano una forte polarizzazione tra centro e periferia, che merita adeguata attenzione. Gli interventi, infatti, paiono tradire una sfiducia dei magistrati impegnati sul campo nei confronti sia del legislatore sia degli organismi rappresentativi dell’organizzazione giudiziaria. Anche di questi aspetti, necessariamente, ci si dovrà occupare, in vista di nuove riforme che siano (finalmente) il più possibile condivise.

 

 

1. Per una descrizione delle caratteristiche fondamentali del modello del NPM, si rinvia a C. Hood, A public management for all seasons?, in Public Administration, vol. 69, n. 1/1991, pp. 3-19. 

2. Si vedano, in particolare: M. Feely e J. Simon, The New Penology: Notes on the Emerging Strategy of Corrections and Its Implications, in Criminology, vol. 30, n. 4/1992, pp. 449-474; D. Garland, La cultura del controllo. Crimine e ordine sociale nel mondo contemporaneo, Il Saggiatore, Milano, 2004.

3. Per un esempio di ricerca che ha analizzato l’impatto delle modifiche imposte dalle teorie del NPM nell’organizzazione giudiziaria, si rimanda a J. Eisenstein e H. Jacob, Felony Justice. An Organizational Analysis of Criminal Courts, Little, Brown and Company, Boston/Toronto, 1977.

4. Sul caso francese, ad esempio, si rimanda a W. Ackermann e B. Bastard, Innovation et gestion dans l’institution judiciarie, Librairie générale de droit et de jurisprudence, Parigi, 1993.

5. Sul tema si rimanda a J. Petersilia, When Prisoners Come Home: Parole and Prisoners Reentry, Oxford University Press, Oxford, 2003. 

6. Nel caso richiamato, ad esempio, il rischio più evidente è la reiterazione del reato da parte del liberato sulla parola.

7. Per la definizione di “giustizia attuariale”, oltre alla già citata pubblicazione di Feely e Simon (vds. supra, nota 2), si rinvia a G. Rothschild-Elyassi - J. Koehler - J. Simon, Actuarial Justice, in M. Deflem (a cura di), The Handbook of Social Control, Wiley, Hoboken (New Jersey), 2018, pp. 194-206. 

8. Su questo terreno è quasi superfluo citare le numerose ricerche condotte dal gruppo che per anni ha operato sotto il coordinamento di Giuseppe di Federico. A titolo di esempio, si ricorda G. Di Federico - M. Fabri - D. Carnevali - F. Contini, Organizzazione e gestione degli uffici giudiziari. Il caso di una procura della Repubblica presso il tribunale (Working papers IRSIG-CNR, n. 1/1994), Lo Scarabeo, Milano, 1994.

9. Si rinvia a S. Zan, Fascicoli e tribunali. Il processo civile in una prospettiva organizzativa, Il Mulino, Bologna, 2003.

10. Si ricordano, in particolare, A. Cottino e C. Sarzotti (a cura di), Diritto, uguaglianza e giustizia penale. Atti del Convegno internazionale (Torino, 21-22 aprile 1995), L’Harmattan Italia, Torino, 1995; F. Quassoli, Immigrazione uguale criminalità. Rappresentazioni di senso comune e pratiche organizzative degli operatori del diritto, in Rassegna italiana di sociologia, n. 1/1999, pp. 43-75; G. Mosconi e D. Padovan (a cura di), La fabbrica dei delinquenti. Processo penale e meccanismi sociali di costruzione del condannato, L’Harmattan Italia, Torino, 2005; C. Sarzotti, Processi di selezione del crimine. Procure della Repubblica e organizzazione giudiziaria, Giuffrè, Milano, 2007.

11. Uno dei rari casi è quello del modello, definito “efficientistico”, della Procura della Repubblica di Torino guidata da Marcello Maddalena. Sul tema mi permetto di rimandare a G. Torrente, Le storie organizzative di due Procure della Repubblica tra obbligatorietà dell’azione penale e selezione del crimine, in C. Sarzotti, Processi di selezione del crimine, op. cit., pp. 227-355.

12. Come è noto, si tratta del fortunato modello proposto da Loïc Wacquant, secondo il quale i numerosi tagli adottati al sistema di Welfare nelle principali democrazie occidentali si sarebbero tradotti in un progressivo ampliamento dello spazio acquisito dal campo penale, anche attraverso l’aumento delle risorse riservate alla repressione a discapito dell’inclusione. Vds. L. Wacquant, Parola d’ordine: tolleranza zero. La trasformazione dello Stato penale nella società neoliberale, Feltrinelli, Milano, 2000.

13. Per una descrizione delle caratteristiche italiane del fenomeno, si rimanda a S. Anastasia - M. Anselmi - D. Falcinelli, Populismo penale: una prospettiva italiana, Wolters Kluwer, Milano, 2020.

14. Per una disamina delle ricerche allora prodotte, si rimanda a V. Ferrari, L’amministrazione della giustizia nell’Italia del 2000. Rassegna e riflessioni, in Sociologia del diritto, n. 3/2012, pp. 173-196.

15. Prendo volutamente a prestito questa definizione coniata da Erhard Friedberg nel descrivere le relazioni fra gli attori che popolano le organizzazioni complesse. Sul tema, si rinvia a E. Friedberg, Il potere e la regola. Dinamiche dell’azione organizzativa, Etas Libri, Milano, 1994.

16. Al riguardo, si rinvia a due volumi che in questi anni hanno raccolto numerose ricerche sul tema: M.L. Ghezzi - G. Mosconi - C. Pennisi - F. Prina - M. Raiteri (a cura di), Processo penale, cultura giuridica e ricerca empirica, Maggioli, Santarcangelo di Romagna (Rn), 2017; C. Pennisi - F. Prina - M. Quiroz Vitale - M. Raiteri (a cura di), Amministrazione, cultura giuridica e ricerca empirica, Maggioli, Santarcangelo di Romagna (Rn), 2018.