Magistratura democratica

La cultura giuridica della magistratura italiana all’alba del nuovo millennio: primi spunti di riflessione storico-sociologica

di Claudio Sarzotti

Come è cambiata negli ultimi decenni la cultura giuridica dei giovani magistrati italiani? Viene qui proposta una prima analisi dei risultati della ricerca che prova a utilizzare, in una prospettiva storico-sociologica, una tipologia di modelli di giudice elaborata sul finire degli anni settanta. Partendo da quest’ultima, l’Autore evidenzia persistenze e discontinuità in tre modelli di magistrato (l’integrato-tradizionalista, l’alienato-burocratizzato e il deviante-innovatore) che, in qualche misura, riescono a descrivere con un certo grado di esaustività gli elementi presenti nella cultura giuridica dei magistrati che si sono affacciati alla professione nell’ultimo decennio. Una modellistica ideal-tipica, che cerca di porre le premesse per ulteriori indagini mirate a una sua più accurata validazione statistica.

1. Una tipologia dei magistrati italiani degli anni settanta / 2. La cultura giuridica dei magistrati del campione della nostra ricerca / 2.1. Il magistrato integrato-tradizionalista / 2.2. Il magistrato alienato-burocratizzato / 2.3. Il magistrato deviante-innovatore

 

 

1. Una tipologia dei magistrati italiani degli anni settanta

In una ricerca ormai piuttosto risalente, ma che conserva, a mio parere, una sorprendente attualità, un autorevole sociologo delle organizzazioni complesse come Giorgio Freddi proponeva una classificazione ideal-tipica della magistratura italiana imperniata su tre modelli di giudice così denominati: gli «Integrati», gli «Alienati» e i «Devianti»[1]. Mi è sembrato utile, per le ragioni che spiegherò tra breve, utilizzare tale classificazione per una prima analisi del materiale della presente ricerca[2] che rappresenta uno dei non molti tentativi di sondare la cultura giuridica dei magistrati italiani che hanno affrontato il loro percorso formativo, dapprima universitario e in seguito professionale, nel periodo successivo a quell’evento che ha tracciato un punto di svolta nella storia della magistratura italiana rappresentato dalla stagione di “Mani pulite”[3]. Si tratta di un’analisi ancora impressionistica, che intende proporre alcuni spunti per possibili percorsi di approfondimento di un materiale di ricerca molto ricco, che merita di essere ulteriormente sondato in prossime pubblicazioni.

La tipologia di Freddi è costruita sulla nota dicotomia di origine mertoniana, secondo la quale l’agire dei sapiens in società può essere analizzato a partire, da un lato, dalle mete o finalità culturali che il contesto propone ai singoli individui e, dall’altro, dai mezzi e dagli strumenti che vengono considerati legittimi per il raggiungimento di quelle stesse finalità. Nel caso dei magistrati, si tratta di analizzare quali sono i fini-valori che essi ritengono peculiari alla loro professione e alla istituzione nella quale operano, e quali sono le loro opinioni rispetto ai mezzi organizzativi che a loro vengono forniti per il raggiungimento degli obiettivi dell’istituzione stessa. Si tratta di elementi teorici elaborati dalla sociologia generale e, in particolare, dalla sociologia delle organizzazioni complesse che in termini socio-giuridici coprono gran parte del significato semantico del concetto di cultura giuridica[4].

La dicotomia mertoniana consente quindi, attraverso le due variabili mezzi-fini, di costruire una tipologia costituita da quattro modelli di giudice, uno dei quali peraltro viene considerato da Freddi del tutto residuale e sociologicamente non rilevante. I profili dei tre modelli di giudice – e potremmo dire, di cultura giuridica – proposti sono così sintetizzabili.

a) Il magistrato integrato-tradizionalista.

I giudici che appartengono a questa categoria si caratterizzano per l’atteggiamento favorevole sia per quanto riguarda i valori professionali che per i mezzi organizzativi che l’istituzione giudiziaria offre per il loro raggiungimento. Freddi qualifica questo modello come tradizionalista, in quanto il magistrato integrato mostra un atteggiamento positivo e conservatore nei confronti del contesto in cui opera, dato che gli obiettivi che egli considera prioritari sono rappresentati «dalle gratificazioni che derivano dal prestigio sociale e professionale, dal senso di potere conferito dal grado, e dalla persuasione di avvalersi, nella sua azione professionale, di criteri scientifici al di là di ogni dubbio»[5]. In particolare, quest’ultimo obiettivo avvicina l’integrato a un certo tipo di cultura giuridica paleo-giuspositivistica, viziata ideologicamente, secondo Luigi Ferrajoli, da «una concezione tutta formale della validità delle leggi, a prescindere dal loro contrasto con i valori della Costituzione»[6]. Questo tradizionale modo di concepire il diritto e il giurista si attaglia perfettamente all’atteggiamento dell’integrato, che davanti alla necessità di scegliere un’interpretazione della norma giuridica adatta a risolvere un hard case “à la Dworkin”, predilige quella più tradizionale, in quanto «le sue mani sono legate e non sta a lui che è solo un giudice, e non un politico, un legislatore, aprire la via alle trasformazioni sociali»[7]. L’integrato, inoltre, nei confronti di un tema fondamentale della cultura giuridica del magistrato come quello della gerarchia interna al corpo professionale, mostra un atteggiamento al tempo stesso meritocratico e aristocratico, nel senso che ritiene fondamentale che la carriera dei giudici non sia scandita da progressioni automatiche secondo il criterio di anzianità, ma debba essere invece regolata dalla valutazione discrezionale dei vertici della magistratura. Si tratta evidentemente di un elemento culturale ancora presente negli anni settanta, al momento dell’effettuazione della ricerca di Freddi, quando il processo di smantellamento dei vecchi meccanismi di selezione interna fondati sul ruolo preponderante dei vertici della magistratura, iniziato nel 1963 con l’introduzione del principio dei cd. “ruoli aperti”, non era ancora terminato[8]. Vedremo, tuttavia, che questo modo di concepire i rapporti interni alla magistratura è riemerso, in qualche misura, nel nostro campione di magistrati come forma di reazione alla degenerazione correntizia del Csm. Una riemersione che riguarda anche la pessima opinione che questa categoria di magistrati possiede rispetto al principio stesso dell’esistenza delle correnti nella magistratura; esistenza che, in questa prospettiva, costituirebbe la premessa inevitabile della politicizzazione del ruolo del magistrato.

b) Il magistrato alienato-burocratizzato.

I magistrati di questa categoria, mentre si pongono in una prospettiva critica rispetto ai mezzi organizzativi, accettano passivamente le finalità e i valori professionali e istituzionali. Si tratta di un giudice burocratizzato (nel senso deteriore del termine)[9], che concepisce l’organizzazione giudiziaria come un organismo ministeriale che non differisce di molto dagli altri settori amministrativi, «dove la progressione nella carriera sia esclusivamente una funzione dell’anzianità»[10]; un magistrato che, «essendo del tutto disinteressato alle implicazioni socio-politiche del suo ruolo professionale, (…) limita la sua attenzione agli aspetti e alle gratificazioni materiali del suo lavoro»[11]. La sua cultura giuridica riprende molti degli assunti del giuspositivismo legalista di cui si è detto, in particolare per una concezione formalistica dell’interpretazione della norma, guidata dalla «sua fede passiva al mito della legge onnisciente e della infallibilità della logica giuridica»[12]. Si tratta quindi di un soggetto che mostra un atteggiamento di disinteresse per le implicazioni sociali e politiche delle scelte giurisprudenziali, autocentrato sui propri interessi personali sia in termini di gratificazioni economiche che di progressione di carriera. Questo profilo di magistrato non guarda alle ispirazioni politico-culturali delle correnti della magistratura, ma le concepisce sotto la forma di sindacato corporativo che sia in grado di intavolare con il potere politico delle trattative a protezione degli interessi della propria categoria.

c) Il magistrato deviante-innovatore.

Devianti sono quei magistrati che mostrano un atteggiamento critico sia nei confronti dei fini-valori istituzionali che dei mezzi che il contesto organizzativo giudiziario mette a disposizione per il loro raggiungimento. Si tratta di un profilo necessariamente innovatore, in quanto il deviante non si limita a una critica distruttiva dello status quo, ma propone soluzioni alternative, poiché il suo impegno professionale e la sua identificazione con l’istituzione in cui opera non sono inferiori a quelli mostrati dal giudice integrato-tradizionalista, anche se di segno opposto. Mentre quest’ultimo è proteso alla conservazione di una concezione tradizionale della funzione del giudice come bouche de la loi e al mantenimento di una concezione gerarchico-aristocratica dei rapporti interni alla magistratura, il deviante-innovatore è consapevole delle implicazioni sociali e politiche del ruolo del giudice e contesta radicalmente la struttura organizzativa autoritaria dell’istituzione giudiziaria. Pienamente convinto della necessità che la pluralità delle scelte culturali e politiche della magistratura trovi espressione nell’associazionismo, rischia tuttavia di andare incontro a continue frustrazioni, in quanto, «al fine di poter dare peso politico alle sue proposte di trasformazione istituzionale, ha spesso dovuto cercare il consenso e l’appoggio dei giudici orientati verso la burocratizzazione, e gli è toccato quindi di vedere i suoi valori di tipo universalistico andare confusi – e spesso nascosti – nella serie innumerevole di istanze particolaristiche»[13].

 

2. La cultura giuridica dei magistrati del campione della nostra ricerca

È possibile ritenere che questa tripartizione di modelli di magistrati elaborata in una ricerca effettuata nella seconda metà degli anni settanta abbia mantenuto una validità euristica per un campione di giovani magistrati del XXI secolo? La risposta a mio parere è da considerarsi sostanzialmente positiva, avendo ovviamente la precauzione di sottolineare con la dovuta rilevanza l’evoluzione di tali modelli prodotta dai profondi mutamenti di carattere sociale, politico e culturale che hanno caratterizzato la società italiana degli ultimi cinquant’anni. Tale attualizzazione non è solamente possibile, ma può essere stimolante nella lettura dei modelli di magistrato delle nuove generazioni, consentendo di apprezzare nella loro cultura professionale l’influenza di un’epoca ormai tramontata, ma che ha lasciato tracce rilevanti e utili anche nel progettare il futuro. È questa, se vogliamo, la “superiorità” dell’approccio storico-sociologico, che consente di scorgere nelle dinamiche del presente radici lontane, sottratte allo sguardo superficiale dell’osservatore che rischia di essere abbagliato, nel caso specifico, dalle luci del teatrino del circuito mediatico-politico; radici che sono, invece, essenziali per comprendere appieno dove stiamo andando (o meglio, dove potremmo cercare di orientare il cammino) nella consapevolezza del percorso che ci ha condotto sino al punto in cui siamo. E questa considerazione è quanto mai importante nella prospettiva di un’associazione come Magistratura democratica, che rappresenta storicamente una di quelle radici, ma che stenta oggi a scorgere quali possano essere i rami che da essa traggono nuova linfa. 

Uno degli elementi che emergono con maggior evidenza dalla nostra ricerca, e ne misurano la distanza dagli anni settanta, è quello relativo a come i magistrati concepiscono la nozione di “politica”. Nella ricerca di Freddi emergono chiaramente, nella cultura giuridica della magistratura, le tracce di quella “rivolta contro il formalismo” che partiva dai nuovi assunti della teoria dell’interpretazione e delle fonti, derivanti da quel filone dottrinale che Luigi Ferrajoli ha chiamato «giuspositivismo critico o costituzionale», entrambe convergenti nel sottolineare gli ineludibili elementi etico-politici dell’attività del giudice[14]. Infatti, sia la consapevolezza dell’inevitabile discrezionalità interpretativa dell’attività ermeneutica del magistrato, sia quella relativa al carattere immediatamente normativo della Costituzione che, come fonte gerarchicamente superiore, rende necessaria in tale attività il costante vaglio delle leggi ordinarie alla luce dei suoi principi, hanno come presupposto il superamento di quel modello di giudice servus legum[15] a lungo egemone nella cultura giuridica interna, ovvero lo smascheramento del mito dell’avalutatività etico-politica della sua attività interpretante. E in tale contesto culturale era possibile collocare la tipologia di Freddi lungo un asse politico da destra verso sinistra, costruendo un «correlativo continuum che dal tradizionalismo attraverso la burocratizzazione giunge all’innovazione»[16].

Quando i magistrati del nostro campione utilizzano – peraltro con non molta frequenza – il termine “politica”, lo assumono invece quasi sempre nell’accezione di “politica giudiziaria”, ovvero, per utilizzare le espressioni di un magistrato del focus group n. 3, «che tipo di dirigenti noi vogliamo, che tipo di nomine, che tipo di organizzazione noi vogliamo». Conseguentemente, il tema dell’associazionismo della magistratura fa riferimento a tale accezione, nel senso che coloro che ne sostengono l’utilità e la legittimità non lo fanno in nome del pluralismo politico, nel senso che di solito si dava negli anni sessanta-settanta a questa espressione, ma nel senso di tutela delle diverse visioni dell’organizzazione giudiziaria, dei rapporti tra i vari ruoli professionali etc., che sussistono inevitabilmente nel corpo della magistratura. Le considerazioni relative al principio dell’avalutatività etico-politica del giudicare sono pressoché assenti nelle interviste e l’atteggiamento prevalente sembra essere quello di un paradossale paleo-giuspositivismo di ritorno, secondo il quale la peggior accusa che si possa rivolgere a un magistrato è quella di “far politica” nell’amministrare la giustizia[17]. E qui l’accezione di politica è quella deteriore di partitismo, di politica nel senso di schierarsi “dalla parte di”, e quindi di abbandonare il principio della terzietà e dell’indipendenza del magistrato. Per comprendere un tale slittamento semantico, come detto, occorre valutare gli effetti di quell’evento storico, che si potrebbe definire epocale per la storia della magistratura italiana, rappresentato dalla stagione di “Tangentopoli” nel passaggio tra Prima e Seconda Repubblica[18]. Un evento la cui breve parabola non ha prodotto solamente effetti devastanti sul sistema politico, ma ha anche inciso profondamente nella cultura giuridica di quei giovani magistrati che, pur non avendo vissuto direttamente quella stagione, ne hanno assorbito i lasciti politico-culturali.

I giovani magistrati di oggi mostrano scarsa conoscenza di quel periodo[19], ma, come qualsiasi cittadino italiano formatosi nel contesto storico-culturale post-Tangentopoli, hanno assimilato e interiorizzato l’insieme di percezioni, atteggiamenti e valori che quella stagione ha introdotto nel tradizionale conflitto tra politica e magistratura nella storia repubblicana. Alessandro Pizzorno ha colto perfettamente la radicalità di un vero e proprio cambio di paradigma in tale conflitto quando ha sottolineato come esso si svolga ormai entro lo spazio comunicativo che ha chiamato “sfera pubblica”, entro il quale magistratura e politica si contendono la risorsa del “riconoscimento pubblico” in termini di consenso, e in cui la magistratura svolge essenzialmente il ruolo sempre più decisivo di «controllo della virtù»[20]. Un ruolo che per sua natura è “apolitico”, nella misura in cui la virtù, o più modestamente il non essere inclini alla corruzione e alla illegalità, dovrebbe essere il prerequisito minimo di ogni attore politico che si presenti nella “sfera pubblica” per chiedere consenso all’elettorato. Attraverso questo mutamento della funzione della magistratura si è modificato anche il significato della “politicità” dell’attività del giudice. Se nella stagione della Prima Repubblica il termine “politica giudiziaria” faceva riferimento in primis alle inevitabili scelte “politiche” che l’attività giurisprudenziale comporta quando deve decidere della distribuzione delle risorse tra gruppi sociali in conflitto tra loro[21], e quindi il corpo della magistratura poteva distribuirsi lungo l’asse destra-sinistra che caratterizzava lo spettro dei partiti politici italiani, il panorama cambia del tutto quando alla magistratura venga assegnato il compito di “ripulire”[22] la politica dai corrotti che l’hanno presa in ostaggio. In quest’ultima prospettiva, non si tratta più di scelte politiche, ma di una vera e propria scelta di campo che, tra l’altro, rende superflua l’esistenza di associazioni che rappresentino le diverse “anime” della magistratura, in quanto è l’intero ceto della magistratura che viene chiamato alla mobilitazione contro un potere politico percepito come monolitico e globalmente corrotto. Da questo punto di vista, è stato decisivo il fatto che le indagini di Mani pulite abbiano rappresentato l’atto d’accusa contro un’intera classe politica, andando a coinvolgere sia i partiti di governo che quelli di opposizione, negando quindi ogni possibile lettura “politica” del fenomeno corruttivo[23]. “Far politica” per il magistrato, in questa nuova accezione, diventa schierarsi contro un intero sistema corrotto che ha sequestrato la politica, per far riemergere lo spirito democratico del Paese, qualunque cosa questo voglia dire. Un obiettivo sul quale evidentemente non ci si può dividere, sul quale “non è possibile non essere d’accordo”. In tale prospettiva, l’associazionismo in magistratura non viene più apprezzato come modalità con cui esprimere le diverse posture politiche inevitabili in ogni gruppo professionale[24], ma al più come strumento con cui manifestare opinioni diverse su temi interni alla organizzazione giudiziaria e ai rapporti che debbono intercorrere tra i vari gradi della magistratura, o su come gestire i rapporti “sindacali” con il potere politico. Del resto, le vicende della deriva correntizia dell’associazionismo della magistratura post-Tangentopoli, emerse all’attenzione dell’opinione pubblica con il cd. “scandalo Palamara”[25], da tempo per lo meno intuite dagli addetti ai lavori[26], non hanno fatto che confermare tale impostazione accentuando il giudizio negativo sull’associazionismo tout court. Anche nel nostro campione, è emerso in molti intervistati un atteggiamento di estrema diffidenza nei confronti dell’associazionismo, percepito come un sistema finalizzato quasi esclusivamente ad avere “protezioni”[27] in alto loco per favorire migliori condizioni lavorative e acquisizioni di posizioni privilegiate nell’ambito della dirigenza degli uffici.

Fatta questa premessa, vediamo ora come i tre modelli precedentemente descritti si siano modificati nel corso del tempo per quanto può essere desunto dal nostro materiale di ricerca.

 

2.1. Il magistrato integrato-tradizionalista 

Si tratta di un modello di giudice che ha perso certamente gran parte della sua centralità a causa, in primo luogo, del venir meno di uno degli assunti su cui si fondava la sua cultura professionale, ovvero la convinzione di potersi avvalere nella propria attività di un sapere giuridico “scientifico” avalutativo, avulso dalle contaminazioni delle altre discipline afferenti alle scienze umane. Questa concezione formalistica della scienza giuridica sembra ormai superata. Si potrebbe affermare che è diventato un elemento comune alla cultura giuridica della magistratura uno degli assunti da cui nacque Magistratura democratica[28], ovvero quello della critica al formalismo giuridico e della interpretazione della legge come attività logica priva di elementi valutativi di carattere extra-giuridico. Tuttavia, qualche elemento di formalismo giuridico, pur in forma attenuata, emerge in alcune affermazioni degli intervistati. Ciò che sembra di intravedere è che tale formalismo sia ancora prevalente nel percorso formativo universitario, non tanto sotto forma di una vera e propria ideologia vetero-giuspositivistica, ma piuttosto come abitudini inveterate di modalità didattiche formalistiche mai del tutto superate[29]. I segni di tale tipo di didattica possono essere rintracciati quando, tra le motivazioni per cui si sceglie la professione di magistrato, alcuni intervistati pongono il fatto che tale professione consentirebbe, più di quanto possano permettere altre professioni giuridiche, lo studio teorico del diritto. Sono gli stessi, forse, che dichiarano di aver scelto la professione del magistrato come alternativa, e talvolta anche come ripiego, rispetto alla carriera accademica. In queste affermazioni sembra di poter intravvedere quel complesso di inferiorità che la giurisprudenza ha tradizionalmente nutrito nei confronti della dottrina accademica. In altri termini, l’idea che la “vera” scienza giuridica non sia quella retorico-argomentativa che si forma sul campo come sapere di risoluzione delle controversie[30], ma piuttosto quella che si esercita sulle riviste giuridiche, nei dibattiti dottrinari, talvolta sostanzialmente estranei alle dinamiche extra-giuridiche del diritto vivente. 

Una concezione, potremmo dire, “aristocratica” della scienza giuridica, che ha le sue conseguenze anche rispetto alla concezione dell’attività del giudice. Questo profilo di cultura giuridica mantiene una considerazione molto elevata del ruolo del giudice, visto come una professione che, in qualche misura, dovrebbe godere di privilegi anche di tipo economico, legittimati dalla sua funzione, la quale, per essere indipendente, non dovrebbe essere gravata da preoccupazioni di ordine materiale. Si coglie in questa posizione anche una velata critica all’eccesso di egualitarismo e alla carenza di criteri meritocratici che avrebbero caratterizzato le progressioni di carriera degli ultimi decenni. Questi giudici sono anche quelli più critici nei confronti delle ingerenze dei mass media nell’amministrazione della giustizia. Ritengono, in particolare, che tale ingerenza abbia prodotto un eccesso di protagonismo da parte di alcuni colleghi, più interessati alla loro immagine e alle posizioni dirigenziali che alla riservatezza necessaria per l’esercizio della giustizia. Emergono elementi di tradizionalismo anche attraverso l’aspra critica al circuito mediatico, accusato di essere superficiale, asservito agli interessi della politica, auspicando per il magistrato una postura “apolitica”, che in qualche misura mette in discussione l’atteggiamento massimalista del giudice come controllore della virtù nella sfera pubblica, che abbiamo visto caratterizzare la stagione di Mani pulite. Si auspica, in altri termini, un ritorno alla morigeratezza e alla anonimità della funzione giudiziaria attraverso un self-restraint della magistratura stessa, che consenta anche un recupero di immagine rispetto a un’opinione pubblica della quale si immagina la reazione negativa di fronte a scandali come quello cd. Palamara. 

L’associazionismo della magistratura è vissuto in tale prospettiva, da un lato, come un campo – almeno in questa contingenza storica – da cui tenersi alla larga, considerata la sua degenerazione; dall’altro, come possibile strumento di rinnovamento-ritorno alla tradizione, esercitato peraltro più come Associazione nazionale magistrati, in quanto rappresentante dell’intero corpo della magistratura, piuttosto che dalle singole associazioni.

 

2.2. Il magistrato alienato-burocratizzato

È questo un profilo che, per ovvie ragioni, tende a non esporsi quando il magistrato viene chiamato a essere intervistato sulle proprie opinioni e sulla percezione della professione che svolge. Questo, naturalmente, non significa che sia inferiore in termini quantitativi; anzi, è plausibile ritenere che in esso si riconosca una quota rilevante dei componenti della nuova generazione dei magistrati. Sono alcuni degli stessi intervistati a sostenere che esiste una fascia sempre più ampia di magistrati che vengono definiti “pavidi”, per una serie di ragioni che vedremo, che si rinchiudono in una gestione standardizzata dei casi, non si discostano dalle linee giurisprudenziali suggerite dai capi degli uffici, sono attenti in primo luogo ai temi “sindacali” riguardanti gli aspetti economici e le condizioni materiali di lavoro. Secondo alcuni magistrati, questo atteggiamento si è sviluppato negli ultimi anni a causa della sempre più diffusa paura[31] prodotta da pressioni che giungono dall’esterno e dall’interno del sistema giudiziario. Dall’esterno, ci si sente sotto lo sguardo di un’opinione pubblica che ha posto all’ordine del giorno il tema dei “tempi” troppo lenti della giustizia, indicando proprio nella capacità di ridurli il principale – se non unico – criterio con cui misurare la qualità del servizio giustizia; dall’interno, le ultime riforme ordinamentali sono state spesso percepite come il tentativo di controllare la produttività del singolo magistrato con parametri sempre più “oggettivi”, che peraltro non premiano la creatività del giudice, ma piuttosto la sua capacità di “adattarsi al sistema”[32]. Entrambi questi fenomeni inducono a interpretazioni delle norme e a prassi organizzative prudenti, conservative, che consentano, per un verso, di “smaltire”[33] quanto più possibile velocemente l’arretrato e, per l’altro, di ottenere buone valutazioni del proprio operato e non incorrere in provvedimenti disciplinari[34]. Si tratta di una condotta che potremmo definire opportunistica, che può condurre anche a vere e proprie strategie di alleggerimento dei carichi di lavoro alquanto discutibili, come quella (evidenziata da un intervistato di uno dei focus group) per la quale si tende a dichiarare come manifestamente infondate le istanze di illegittimità costituzionale sollevate dalle parti, perché “così scrivi due righe e ciao”, altrimenti “poi, la devi motivare la questione”. 

Questo tipo di magistrato è interessato all’associazionismo, per usare un’espressione di un intervistato, «come surrogato di un’organizzazione sindacale». In tale prospettiva, si aderisce a un’associazione non tanto per una scelta di carattere politico-culturale, ma soprattutto quando si è appena entrati nella professione, per aver maggiori informazioni sulle regole interne all’ordinamento giudiziario, per poter accedere a benefit, programmi assicurativi, agevolazioni di vario genere che solamente l’associazione può garantire. Inoltre, si ritiene che l’Anm debba essere soprattutto il soggetto che rappresenta l’intera categoria, in particolare quando si tratta di negoziare col potere politico le questioni di carattere economico e di qualità del lavoro. È plausibile ritenere che si annidi, in questo profilo di magistrato, anche l’utilizzo spregiudicato dell’associazionismo come strumento di acquisizione di potere e teso a ottenere più facilmente condizioni di lavoro più gratificanti.

 

2.3. Il magistrato deviante-innovatore

Si tratta di un tipo di magistrato che, dal punto di vista dell’istanza di superare la tradizionale separatezza del giudice rispetto alle istanze sociali e culturali esterne al mondo del diritto e di demistificare la supposta neutralità politica del giudice, si può dire che abbia vinto la sua battaglia. Riprendendo la dicotomia di Durkheim contenuta nello stesso appellativo “deviante-innovatore”, ci troviamo di fronte a un pensiero che, negli anni in cui Freddi svolgeva la sua ricerca, era considerato deviante dalla maggioranza dei magistrati e che si è trasformato in innovazione allorquando è riuscito a conquistare progressivamente l’egemonia nell’ambito della cultura giuridica dei giudici. Tuttavia, tale apertura verso quella che Pizzorno ha chiamato, appunto, «sfera pubblica» ha un significato molto diverso da quello che negli anni sessanta-settanta si attribuiva all’impegno politico del magistrato nelle forme del celebre motto “attuare la Costituzione”, attraverso le tecniche interpretative dell’“uso alternativo del diritto”. Nelle mappe cognitive dei nostri giovani magistrati queste antiche battaglie sono quasi del tutto assenti[35]. Superata ormai da tempo ogni forma di collateralismo a specifici partiti o sindacati, sia per il progressivo evaporare di interlocutori in grado di rafforzare la legittimazione della magistratura, sia per la debolezza di un approccio che pone le associazioni dei giudici in posizione subalterna rispetto a istanze esterne, il profilo della cultura giuridica del magistrato deviante-innovatore ha assunto gli aspetti del modello che Carlo Guarnieri ha chiamato del «giudice-guardiano». Nella prospettiva di tale modello, «compito del giudice diventa in particolare quello di difendere i diritti degli individui e delle minoranze dai potenziali abusi delle istituzioni politiche e delle maggioranze che le controllano»[36]. Resta centrale in questa impostazione la presenza dei principi costituzionali attraverso i quali interpretare le leggi ordinarie, ma tale assunto viene per così dire “spoliticizzato”, nel senso che si ritiene che l’attività interpretativa “costituzionalmente orientata” sia un’operazione essenzialmente tecnica, a-politica, riservata dunque al monopolio dei giuristi. La stessa metafora del guardiano si riferisce alla postura “difensiva” di tale modello di giudice, che viene concepito come un baluardo, uno strenuo difensore del “sacro recinto” del diritto nei confronti delle offensive di maggioranze parlamentari spesso assai disinvolte nel rispettarne i confini. È un atteggiamento che scaturisce dalla delusione della politica, e in particolare di quella che un tempo si definiva “progressista” o “di sinistra”, che si è andata diffondendo sia per ragioni di carattere generale – in primis i fenomeni legati alla globalizzazione che hanno marginalizzato il ruolo della politica degli Stati nazionali –, sia per ragioni specifiche del contesto italiano – la rapidità con cui si è chiusa la “parentesi” di Tangentopoli, anche attraverso la caduta di consenso dell’opinione pubblica rispetto all’operato della magistratura[37].

Non mancano, dunque, nelle nostre interviste elementi di una cultura giuridica che concepisce il diritto come strumento di giustizia sociale, di tutela dei soggetti deboli, di protezione dell’uguaglianza sostanziale (il mitico articolo 3, comma 2 della Costituzione… ) di fronte a una società sempre più disuguale dal punto di vista economico-sociale. Tali aspirazioni, tuttavia, sembrano essere il frutto prevalentemente di inclinazioni individuali[38], di scelte emotive di fronte a palesi ingiustizie sociali dissimulate sotto la forma di necessari adeguamenti agli imperativi economici. Manca in esse, quasi del tutto, ogni consapevolezza della natura inevitabilmente politica delle scelte a cui si trova di fronte il magistrato che interpreta la legge e delle altrettanto inevitabili posizioni diverse dei magistrati innanzi a tale scelte. Il rischio, quindi, è quello che concepire il ruolo del giudice come «guardiano dei diritti e dello stesso interesse generale» riesumi «la tradizionale legittimazione del giudice “bocca della legge”, aggiornandola però secondo i dettami del costituzionalismo contemporaneo»[39].

In tale prospettiva, l’associazionismo della magistratura non viene più concepito come impegno politico, nel senso che veniva dato a questa espressione negli anni settanta. Anche quando i nostri giovani magistrati fanno riferimento alla necessità che il giudice sappia garantire giustizia ed eguaglianza sociale, e che quindi debba oltrepassare la concezione formalistica dell’interpretazione della norma, tale impegno è concepito più con la grammatica ecumenica di una morale universale che con quella divisiva “amico/nemico” della politica. Se questo può essere considerato, per un verso, un legittimo e auspicabile self-restraint da parte della cultura giuridica del magistrato, per l’altro, pone dei limiti a un associazionismo che voglia tornare a rappresentare la pluralità delle posizioni politico-culturali presenti nella magistratura italiana. 

 

 

1. Cfr. G. Freddi, Tensione e conflitto nella magistratura. Un’analisi istituzionale dal dopoguerra al 1968, Laterza, Bari, 1978, pp. 193 ss.

2. Per la descrizione dell’impianto complessivo, della metodologia utilizzata e degli obiettivi della ricerca, rimando al rapporto di Costanza Agnella, Una ricerca sulla cultura giuridica dei giovani magistrati, in questo fascicolo, part. parr. 1 e 2.

3. Sulla rilevanza di tale stagione per la storia della magistratura le riflessioni sono state numerose e articolate. Mi limito qui a ricordare, a mio parere, tra le più lucide quelle di C. Guarnieri, Giustizia e politica. I nodi della Seconda Repubblica, Il Mulino, Bologna, 2002, e A. Pizzorno, Il potere dei giudici. Stato democratico e controllo della virtù, Laterza, Roma-Bari, 1998.

4. Freddi (Tensione e conflitto, op. cit.) intuisce questo aspetto quando, pur collocando il quadro teorico della sua ricerca nell’ambito della sociologia delle organizzazioni complesse, delinea il contributo che sul tema potrebbe essere fornito dall’approccio socio-giuridico «empiricamente orientato» (ivi, p. 254, nota 2).

5. Ivi, p. 249.

6. L. Ferrajoli, Per una storia delle idee di Magistratura Democratica, in N. Rossi (a cura di), Giudici e democrazia. La magistratura progressista nel mutamento istituzionale, Franco Angeli, Milano, 1994, p. 64.

7. G. Freddi, Tensione e conflitto, op. cit., p. 250.

8. Per la sintetica ricostruzione di questo progressivo smantellamento, conclusosi solo nel 1979, cfr. C. Guarnieri, Magistratura e sistema politico nella storia d’Italia, in R. Romanelli (a cura di), Magistrati e potere nella storia europea, Il Mulino, Bologna, 1997, pp. 259 ss.

9. È lo stesso Freddi a precisarlo quando afferma che, nella sua classificazione, utilizza “burocratico” «nell’accezione disfunzionale e patologica del termine» – Id., Tensione e conflitto, op. cit., p. 264.

10. Ivi, p. 251.

11. Ibid.

12. Ibid.

13. Ibid.

14. Anche su questo tema la bibliografia è alquanto copiosa, ma sostanzialmente concorde nel delineare i termini della questione. Mi limito a segnalare, per una lettura sintetica, ma quanto mai lucida nel coglierne l’essenza in termini concettuali, L. Ferrajoli, La cultura giuridica nell’Italia del Novecento, Laterza, Roma-Bari, 1999, pp. 63 ss.

15. Cfr. P. Grossi, L’Europa del diritto, Laterza, Roma-Bari, 2007.

16. G. Freddi, Tensione e conflitto, op. cit., p. 274. Un’operazione testata empiricamente anche da una ricerca di C. Guarnieri, Élites, correnti e conflitti tra magistrati italiani: 1964-1976, in Politica del diritto, vol. VII, 1976, pp. 653-682.

17. Altro discorso deve essere fatto per il tema relativo al diritto del magistrato di passare al campo della politica con un suo impegno diretto, ad esempio candidandosi a cariche elettive, rispetto al quale le opinioni degli intervistati sono risultate più favorevoli di quanto non sia emerso da altre ricerche (cfr., ad esempio, N. Delai e S. Rolando, Magistrati e cittadini. Identità su identità, ruolo e immagine sociale dei magistrati italiani, Franco Angeli, Milano, 2016, p. 30).

18. Senza, peraltro, dimenticare che i segni di questo mutamento emersero già nel corso degli anni ottanta attraverso quel fenomeno che Vittorio Denti ha definito di «de-ideologizzazione» della cultura dei giudici – Id., La cultura del giudice, in Quaderni costituzionali, vol. III, n. 1/1983, pp. 35-47.

19. Nelle interviste e nei focus group pochissimi sono i riferimenti diretti ad essa. Qualche intervistato cita Antonio Di Pietro, ma come si potrebbe citare un personaggio noto delle star di Hollywood, disincarnato e stereotipico. 

20. Il riferimento qui è ad A. Pizzorno, Il potere dei giudici, op. cit. Lo stesso Autore è peraltro ben consapevole di come questo potere della magistratura sia molto fragile, in quanto facilmente inflazionabile: «Come di quelle medicine di cui si dice “più te ne servi, meno ti servono”, così di queste indagini e avvisi di garanzia e rinvii a giudizio: più si susseguono, e meno vi si bada, e meno danno luogo a giudizi del pubblico che contino e durino» (ivi, p. 128). Gli anni che separano la pubblicazione del testo di Pizzorno dalla situazione odierna si sono incaricati di confermare tale profezia.

21. Le implicazioni politiche di queste scelte sono più evidenti in certi settori del diritto – si pensi a quello che regola i rapporti tra lavoratori e imprenditori –, ma non mancano in tutti i campi di attività del giudice.

22. È importante sottolineare, da questo punto di vista, il linguaggio che ha accompagnato questo cambio di paradigma, che fa riferimento a una terminologia bellica o, comunque, molto lontana da quella tradizionalmente giuridica (si pensi, appunto, a “Mani pulite”).

23. Fondamentale, per la riuscita di una simile strategia comunicativa, la variegata composizione dei personaggi che componevano il pool milanese di Mani pulite, che rappresentavano tutte le posizioni politiche sull’asse destra-centro-sinistra presenti nella magistratura dell’epoca.

24. Rivendicazione che era stata, come noto, a fondamento in particolare della stessa esistenza di una associazione come Magistratura democratica.

25. Uno scandalo mediatico che, per certi versi, ha assunto le forme – anche se non le dimensioni, in termini di impatto mediatico – di una Tangentopoli di segno inverso, anche con l’invenzione giornalistica del termine “Magistropoli” – cfr. A. Massari, Magistropoli. Tutto quello che non vi hanno mai raccontato sul CSM e sul caso Palamara, Paper First, Roma, 2020.

26. Vds., a questo proposito, il racconto dell’esperienza al Coniglio superiore della magistratura di A. Nappi, Quattro anni a Palazzo dei Marescialli. Idee eretiche sul Consiglio Superiore della Magistratura, Aracne, Roma, 2014.

27. È proprio questo il termine utilizzato da molti intervistati.

28. Cfr., per tutti, A. Meliconi, Storia della magistratura italiana, Il Mulino, Bologna, 2013, pp. 310 ss.

29. Sul tema delle modalità didattiche con cui ancora oggi si insegna il diritto in Italia, tema assai poco studiato, mi permetto di rinviare per qualche possibile percorso di ricerca a C. Blengino e C. Sarzotti, La didattica esperienziale: una sfida per l’epistemologia giuridica e la sociologia del diritto, in Iid. (a cura di), Quale formazione per quale giurista? Insegnare il diritto nella prospettiva socio-giuridica, Quaderni del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino, 2021, pp. 11-36.

30. Cfr., per tutti, M. Vogliotti, Tra fatto e diritto. Oltre la modernità giuridica, Giappichelli, Torino, 2008.

31. L’aggettivo che alcuni intervistati utilizzano per descrivere questo tipo di magistrato è, infatti, “spaventato”. È appena il caso di ricordare che la nostra società occidentale è stata spesso definita la “società della paura” sia in chiave più strettamente psicologica (cfr. V. Andreoli, Homo incertus. Il bisogno di sicurezza nella società della paura, Rizzoli, Milano, 2020) sia in chiave socio-criminologica (J. Simon, ll governo della paura, Raffaello Cortina, Milano, 2008).

32. Devo dire che la situazione presenta notevoli analogie con quanto è avvenuto in ambito universitario per ciò che riguarda la valutazione della ricerca e della didattica dei docenti.

33. È alquanto significativo l’uso di questo verbo, ormai entrato nel linguaggio giornalistico quando si parla di amministrazione della giustizia, che rimanda immediatamente allo smaltimento dei rifiuti, ovvero a un’entità di cui occorre liberarsi, piuttosto che a controversie tra individui che occorrerebbe comporre con tutta la cura che ciò comporta.

34. Provvedimenti che, quantunque nella vulgata giornalistica siano considerati sporadici e poco incisivi, sono ben presenti nella mappa cognitiva del magistrato, come hanno mostrato i molti intervistati che ne hanno fatto cenno esplicito nelle loro dichiarazioni.

35. Tale cancellazione della memoria è dovuta in parte anche alle modalità e ai contenuti dei corsi universitari con cui vengono formati i laureati in giurisprudenza, quasi sempre privi di qualunque riferimento alla storia recente della cultura giuridica italiana.

36. C. Guarnieri, L’evoluzione del ruolo del giudice nei regimi democratici, in M. Vogliotti (a cura di), Il tramonto della modernità giuridica. Un percorso interdisciplinare, Giappichelli, Torino, 2008, p. 208.

37. Su questo ultimo punto, vds. S. Belligni, Magistrati e politici nella crisi italiana. Democrazia dei guardiani e neopopulismo, «Institute of Public Policy and Public Choice» - POLIS, Working Paper n. 11, 2000.

38. Pur con le dovute differenze, considerati la lontananza dei contesti istituzionali e i profili socio-culturali dei soggetti coinvolti, tale concezione individualistica dell’attività di contestazione politica è riscontrabile anche attraverso un’analisi comparata delle rivolte carcerarie degli anni settanta con quelle avvenute recentemente, in occasione della pandemia da Covid-19. A tal proposito, mi permetto di rinviare a C. Sarzotti, Spunti per un’analisi storico-sociologica dell’homo rebellans in carcere: dalla presa della Bastiglia alla presa della pastiglia, in Antigone, semestrale di critica al sistema penale e penitenziario, vol. XV, n. 2/2020, pp. 83-109.

39. C. Guarnieri, L’evoluzione, op. cit., p. 214.