Magistratura democratica

Formazione e forma mentis del magistrato

di Chiara De Robertis

I magistrati che hanno partecipato alla presente ricerca hanno assunto le funzioni a seguito del superamento del concorso di secondo grado. In questo contributo saranno trattati i temi emersi nelle interviste e nei focus group con riferimento ai percorsi, alle esperienze formative e professionali pre-concorso e post lauream, si passeranno in rassegna poi le opinioni che questi nutrono nei confronti del concorso e del recente intervento legislativo che lo ha riformato, ma anche nei confronti della formazione, iniziale e permanente, erogata dalla Scuola superiore della magistratura. Il contributo termina, infine, con alcune considerazioni sulla forma mentis del magistrato e sul ruolo della formazione, soprattutto con riferimento all’interdisciplinarità a cui essa deve ambire e alle cd. soft skills.

1. Un breve inquadramento: il percorso post lauream, il concorso e la formazione dei magistrati / 2. Come si diventa(va) magistrati: tra formazione ed esperienze post lauream / 3. Il concorso: le opinioni di chi ce l’ha fatta / 3.1. I giudizi sul ritorno al concorso di primo grado / 4. La formazione dei magistrati: alcune considerazioni sulla formazione iniziale e permanente e sul ruolo della Scuola superiore della magistratura / 5. Magistrati si diventa: la forma mentis del magistrato alla prova delle soft skills

 

1. Un breve inquadramento: il percorso post lauream, il concorso e la formazione dei magistrati

La magistratura italiana, al pari della quasi totalità delle magistrature dei Paesi dell’Unione europea[1], è di tipo burocratico[2]. Tale connotazione comporta, da un lato, «nei termini del reclutamento del personale che lavora negli uffici giudiziari, che giudici e pubblici ministeri sono nominati abbastanza giovani, subito dopo l’uscita dalle università»[3]; dall’altro, che «la socializzazione alla professione avviene all’interno della magistratura, nel corso della carriera»[4].

Nel panorama europeo le modalità di accesso alle magistrature burocratiche assumono forme molto diverse (e distanti) tra loro[5]. In Italia, l’art. 106 della Costituzione dispone: «le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso»[6]. Tale concorso pubblico, per molti anni, si è configurato come “di primo grado”, in questo modo garantendo anche ai giovani neolaureati in giurisprudenza la possibilità di parteciparvi; ma, a partire dal 2007[7] e fino al 2022[8], è stato convertito in un concorso “di secondo grado”, imponendo ai candidati il possesso di requisiti e titoli ulteriori oltre al diploma di laurea e, di fatto, riducendo il bacino di accesso alla professione di magistrato, nonché dando avvio a percorsi di formazione post lauream diretti a coloro che volevano partecipare al concorso. 

Ad oggi, invece, dopo quindici anni di “sperimentazione”, la scelta legislativa – dettata, tra le altre cose, dall’esigenza di rispondere alle gravi carenze di organico che affliggono il sistema giustizia e che incidono sul suo funzionamento[9] – è stata quella di mutare ancora una volta il meccanismo di selezione dei magistrati e tornare al modello dell’accesso diretto, per cui il diploma di laurea in giurisprudenza è l’unico requisito richiesto ai fini dell’iscrizione al concorso.

 

2. Come si diventa(va) magistrati: tra formazione ed esperienze post lauream

I requisiti per l’accesso al concorso di secondo grado in magistratura fino a poco tempo fa erano, in buona sostanza, quattro[10]: il possesso dell’abilitazione all’esercizio della professione forense, il possesso del diploma di una Scuola di specializzazione per le professioni legali (d’ora in poi: Sspl)[11], il possesso del titolo di dottore di ricerca e, da ultimo, introdotto più di recente, l’aver ricevuto una valutazione positiva a seguito dei diciotto mesi di formazione teorico-pratica negli uffici giudiziari (tirocinio ex art. 73 del cd. “decreto del fare”, del 2013)[12]. Tali requisiti rispondono a logiche tra loro distinte, confermate in parte anche dalle dichiarazioni dei magistrati che hanno partecipato alla presente ricerca. 

La necessità di disporre del titolo di avvocato ai fini dell’accesso al concorso sembra voler prediligere l’aspetto professionale degli aspiranti magistrati e l’aver quindi maturato delle competenze in campo legale, elemento che può senz’altro tornare utile nell’esercizio della funzione giudicante o requirente, indipendentemente dal settore:

«Io sono arrivata che avevo 35 anni; a 37 ho giurato, ed ero nei tribunali già da 14 anni. Questa è una differenza, un punto a favore, diciamo, che mi ritrovo rispetto ai miei colleghi» (intervista 5).

Tuttavia, va necessariamente rilevato come la maggior parte degli intervistati che hanno conseguito il titolo di avvocato abbiano dichiarato di non aver mai esercitato la professione. L’esame di abilitazione, pertanto, è per lo più vissuto come un passaggio obbligato o comunque propedeutico all’accesso al concorso, facendo in questo modo venir meno la logica “professionalizzante” che si celava dietro alla norma che disponeva il possesso di tale titolo: 

«Ho fatto l’esame da avvocato giusto per acquisire comunque il titolo, anche quello, diciamo, utile ai fini dell’accesso al concorso» (intervista 12).

Molti, parallelamente alla pratica legale e allo studio per l’esame di abilitazione alla professione forense, hanno frequentato le Sspl, rilevando come queste si configurassero come il canale più rapido di accesso al concorso rispetto agli altri:

«In realtà, contemporaneamente alla scuola ho anche fatto pratica forense, sebbene i miei sforzi non fossero tanto in quella direzione… Quindi, forse, sono stato poco chiaro, ma quello che volevo specificare è che la scuola era sicuramente il modo più veloce per arrivare al concorso, mentre l’esame da avvocato… Ovviamente, con la pratica forense, questa garanzia non c’era, di fare il concorso da lì a due anni… perché bisognava superare l’esame, c’erano comunque delle incognite» (intervista 6).

Allo stesso tempo, però, l’offerta formativa delle Sspl è stata ritenuta inidonea ai fini della preparazione al concorso in magistratura dalla quasi totalità degli intervistati:

«Dipende, nel senso che le scuole di specializzazione potenzialmente potrebbero essere utili. Per come sono state organizzate, assolutamente non lo sono, sono uno spreco di tempo e di denaro terribile, anche perché, appunto, ci hanno infilato dentro tutte le materie possibili immaginabili, quando sappiamo che gli scritti del concorso sono di civile, penale, amministrativo. Quindi, è inutile che uno debba farsi due anni a fare diritto… informatica giuridica, deontologia forense o diritto della previdenza, cioè: è brutto da dire, ma il concorso è strutturato così, lo scoglio è lo scritto, quindi bisogna investire su quello» (intervista 23).

Occorre osservare come le Sspl abbiano costituito il tentativo, di iniziativa pubblica, di mettere a disposizione del laureato in giurisprudenza, prendendo a riferimento il modello tedesco, una formazione comune che consista «in primis nel formare la cultura della giurisdizione, che è presupposto per tutte le professioni legali, qualunque sia la scelta professionale successiva»[13], e, in secondo luogo, nell’adottare il «metodo didattico corrispondente alla formazione del giurista pratico»[14]. Infatti, nel piano didattico/formativo è previsto lo svolgimento di tirocini presso le sedi giudiziarie, gli studi professionali e le scuole del notariato. Il tentativo di fornire una formazione specialistica comune alle tre professioni giuridiche tradizionali (magistratura, avvocatura e notariato) parrebbe aver fallito il suo obiettivo, come già era stato rilevato pochi anni dopo l’istituzione delle scuole[15], anche a causa delle nette differenze che intercorrono tra le prove di accesso alle tre professioni, oltre a quelle che esistono tra le professioni stesse, profondamente diverse tra loro. Le Sspl, ad oggi, dunque, e quindi vent’anni dopo la loro attivazione, paiono rappresentare una “ripetizione” dell’offerta didattica universitaria e non sono state valutate dai magistrati intervistati come un valido canale di preparazione al concorso in magistratura:

«Però poi, per esempio, la Scuola di specializzazione a me non è servita assolutamente a nulla. Sono stati due anni completamente inutili. Era una sostanziale ripetizione delle lezioni universitarie, ma il taglio che a noi serviva per il concorso… Per cui si creava la situazione paradossale che stavi con i libri e con le lezioni del corso privato lì in presenza… giusto per fare presenza. Quindi, insomma, quello andrebbe rivisto a mio avviso» (intervista 9).

Dalle testimonianze emerge con chiarezza come tutti siano concordi che i requisiti richiesti ai fini della candidatura al concorso rappresentino le vie d’accesso al medesimo sulla carta, e che solo la frequenza dei corsi non obbligatori e privati di preparazione costituisca la chiave per poterlo superare[16]:

«Sì, posso dire che la scuola di specializzazione è stata pressoché inutile ai fini della mia formazione. Invece, l’unico corso e strumento di preparazione utile è stato proprio il corso di formazione privato. Determinante, comunque, a fini del superamento del concorso» (intervista 13);

«Penso che, se non avessi fatto il corso privato, il concorso in magistratura non l’avrei passato, devo dire la verità. Attribuisco la possibilità, il passaggio del concorso in magistratura al corso privato» (intervista 1);

«Se non posso generalizzare, sicuramente posso dire che la maggior parte dei miei colleghi che hanno la mia età, quindi che hanno superato il concorso negli ultimi cinque anni, hanno tutti frequentato un corso» (intervista 25).

Pare, dunque, che la lacuna lasciata dalle Sspl sia stata colmata dalle scuole private, gestite prevalentemente da magistrati amministrativi e contabili, il cui scopo non è formare, in senso lato, il giurista del domani, ma allenare gli aspiranti candidati a sostenere e, auspicabilmente, superare le prove scritte del concorso. L’aspetto lucrativo che caratterizza tali corsi di preparazione è evidente, tant’è che qualcuno ha dichiarato: «hanno creato un’industria, cioè… l’industria del concorsista» (intervista 18). Altri attentamente osservano come a pagare l’inadeguatezza del sistema pubblico siano poi, di fatto, i singoli candidati, venendo in questo modo a crearsi una discriminazione tra coloro i quali possono permettersi il costo di tali corsi di preparazione e chi, invece, non può: 

«Una cosa, invece, che un po’ mi rammarica è che… senza una formazione ulteriore – purtroppo – con le famose scuole a pagamento per la magistratura, è difficile prepararsi da soli. E questo, forse, dovrebbe essere oggetto di riflessione generale, perché non pare molto rispondente a un principio di uguaglianza che il concorso sia accessibile… cioè diventi accessibile con una formazione… Cioè, la formazione che offre il sistema pubblico potrebbe non essere sufficiente. E questo, secondo me… non è una gran bella cosa, ecco» (intervista 32).

Tornando poi ai requisiti per l’accesso al concorso, tra gli intervistati, che nella maggior parte dei casi si sono presentati alla selezione con più di un titolo (il più delle volte il diploma della Sspl e l’abilitazione alla professione forense), una quota minoritaria ha alle spalle l’esperienza del dottorato di ricerca in materie giuridiche. Il conseguimento del dottorato rappresenta in Italia, come in altri Paesi del mondo, il più alto grado di istruzione e costituisce il titolo di accesso a numerosi concorsi della p.a. Non stupisce, quindi, che compaia tra i titoli per il concorso da magistrato ordinario.

Un’intervistata valuta favorevolmente, ai fini del superamento delle prove scritte del concorso, l’aver svolto attività scientifica e di ricerca durante il dottorato, in quanto occupazione che le ha permesso di potenziare le capacità di scrittura e di ragionamento:

«Nel mio caso sono stata fortunata, perché facendo il dottorato, il fatto di scrivere la tesi e, magari, di fare delle pubblicazioni, ti costringe e ti abitua di più a scrivere; però non tutti, appunto, hanno una possibilità di fare il dottorato e di abituarsi quindi a scrivere, che non vuol dire scrivere il semplice atto o… , come potrebbe essere quando si prepara l’esame da avvocato… , ma vuol dire scrivere appunto dei temi… Di solito, quando uno fa la pratica da avvocato, fa un’attività diversa» (intervista 28).

Infine, non sono in molti tra gli intervistati ad aver svolto il tirocinio teorico-pratico ex art. 73 del cd. “decreto del fare” del 2013[17], che coniuga formazione e lavoro negli uffici giudiziari, prevalentemente per ragioni temporali, dal momento che questo è diventato un titolo d’accesso al concorso in una fase successiva rispetto agli altri. Alcuni, tra coloro che lo hanno svolto, rilevano come lo stage negli uffici giudiziari abbia soppiantato le Sspl, diventando di fatto il canale più rapido di accesso al concorso: diciotto mesi contro il biennio di frequenza delle Sspl: 

«Credo che sia stato utile. Poi, rispetto agli altri colleghi, diciamo che ormai lo facciamo tutti. Credo che il 90% dei miei colleghi abbia quello come titolo d’ingresso, anche perché è il più rapido, oltretutto. Magari, nella vita, se ne accumulano di diversi: io, per l’appunto, ne avrei avuti altri, sia perché avevo passato l’esame d’avvocato sia come dottorato, però il primo titolo di accesso è stato quello. E lo è stato – dicevo – per il 90% dei miei colleghi. Non vorrei sbagliarmi… Con “miei colleghi” mi riferisco ai colleghi del mio stesso concorso. Forse ce n’è qualcuno… c’è una percentuale di soggetti che, essendo un po’ più grandi di età, aveva fatto le scuole di specializzazione per le professioni legali. Però, mediamente, credo l’abbiano fatto tutti e sicuramente è utile» (intervista 7).

Le opinioni registrate in merito al tirocinio ex art. 73 sono positive in relazione all’esperienza in sé all’interno degli uffici giudiziari, in quanto «ti può dare un’idea, si inizia veramente un po’ ad aprire gli occhi su quello che è l’esercizio concreto della funzione» (intervista 35). Tuttavia, trattandosi di un ausilio a tutto tondo alle attività svolte dal magistrato ordinario, qualcuno osserva come l’aspetto lavorativo, spesso, vada a discapito di quello formativo, e che tale circostanza possa variare molto a seconda dell’affidatario cui è assegnato il tirocinante[18]:

«Ci sono ottimi magistrati che hanno enormemente in considerazione anche la formazione dei tirocinanti ex 73… e magistrati che, invece, hanno un po’ meno in considerazione la loro formazione e, quindi, li relegano a un lavoro più d’ufficio, di compilazione delle intestazioni delle sentenze… E a quel punto, diciamo che la formazione, il tirocinio è inesistente» (intervista 7);

«Viene molto utilizzato il tirocinio ex articolo 73… Anche lì, bisogna vedere come viene utilizzato, perché se il tirocinante va da un giudice che gli spiega tutti questi aspetti, allora bene. Purtroppo, però, succede che il giudice non abbia tempo di spiegargli queste cose, e alla fine fa fare al tirocinante i pezzi di sentenza, che però non gli consentono di apprezzare l’aspetto, come dire “pratico-dinamico”, e quindi siamo punto e a capo. Poi, bisogna vedere il tirocinante in quale sezione finisce – perché se, in altre parole, finisce in una sezione del Tribunale di Milano dove si fanno solo i contratti di fornitura… serve a ben poco» (intervista 39).

Alcuni notano come il tirocinio ex art. 73 sia più utile ai magistrati e al sistema giustizia che ai tirocinanti, in questo modo confermando l’idea che «il reale soggetto di riferimento del tirocinio giudiziario sia la magistratura»[19] e che i tirocinanti rappresentino per il Ministero della giustizia una forza lavoro a costo zero, o quasi[20]:

«… cioè, molto utili per i magistrati, utilissimi; ma per i tirocinanti, per la preparazione al concorso non so davvero, perché lì ti insegna già a lavorare, è diverso… Uno prima deve… dovrebbe imparare il metodo, poi il lavoro lo farà quando avrà la qualifica. Non so se riesco a spiegarmi: perché mettere lì dei ragazzi a fare sentenze? Ma sì, può anche essere utile, però ecco, non lo so. Io non sono un grandissimo fan, non lo consiglio con grande… Poi, per carità, tutto può aiutare; secondo me aiuta più i magistrati, ma questa [ride] è una mia opinione» (intervista 37).

Il quadro che si viene a delineare è dunque il seguente: chi è diventato magistrato negli anni del concorso di secondo grado ha principalmente studiato[21], sia per il superamento dell’esame di Stato per la professione forense, sia perché frequentava le Sspl e/o eventuali corsi privati ai fini della preparazione al concorso:

«Molti di noi sono persone che si sono dedicate a tempo pieno allo studio, e mi riesce difficile immaginare diversamente, di poter affrontare un concorso così, senza studiare a tempo pieno» (intervista 34).

Le esperienze pratiche formative sul campo post lauream, di pratica legale o di tirocinio svolto durante le Sspl, assumono dalle parole degli intervistati un valore residuale dal punto di vista dell’utilità, che per loro è parametrata in relazione al superamento del concorso:

«Però, ovviamente, mettendo su un piano l’utilità di tutte queste esperienze formative, devo dire che nessuna può mai essere paragonabile al tipo di preparazione e formazione che danno i corsi privati di specializzazione, non c’è proprio nessun paragone. E anche la pratica forense serve a ben poco, devo dire la verità. Non dà molto l’idea di cosa sia questo lavoro, soprattutto per come – purtroppo – alcuni avvocati intendono la pratica forense: cioè con riferimento ai propri tirocinanti, appunto: macchine da redazione di atti, principalmente» (intervista 29).

Anche nei confronti dell’esperienza del tirocinio ex art. 73 sono stati sollevati non pochi rilievi critici, tra cui il possibile rischio per il tirocinante di idealizzare un lavoro prima ancora di iniziare a svolgerlo: 

«Però rischi anche di idealizzarlo, da un certo punto di vista… E di essere proprio “proiettato”… C’erano tirocinanti che seguivano camere di consiglio di corti d’assise, cioè cose anche grandi, no? Rischi di essere un po’ travolto, per come la vedo io, quando invece la cosa principale è imparare a diventare un giurista “piccolo”, sì, ma con le idee chiare su come si deve fare quando c’è un problema giuridico. Poi, se fai un’esperienza in tribunale, ma sì, come tante cose può essere utile. Tuttavia, ripeto, non scaricherei sui tribunali – questo volevo cercare di dire – la formazione, che dovrebbe essere il cuore dell’università, perché è l’università che forma il giurista, non il tribunale. Il tribunale forma in sé… Anche perché poi, nel tribunale, c’è un lavoro, perché c’è la differenza tra l’idea e l’azione, no? Fare il magistrato è fare tantissime cose, anche burocratiche e organizzative, che sono fondamentali e molto importanti» (intervista 36).

Interessanti sono, infine, gli spunti di riflessione offerti da questo magistrato sulla centralità che deve assumere l’università nella formazione del “piccolo giurista”[22]. Tale compito, a parere di chi scrive, andrebbe portato avanti anche nel post lauream[23], riformando e ripensando le scuole di specializzazione per le professioni legali e ambendo a un modello di formazione pubblica diverso da quello attuale. Tale proposta si avanza, peraltro, in una fase in cui, con il ritorno del concorso di primo grado, le Sspl nella loro veste attuale, non costituendo più un requisito per l’accesso al concorso, sono destinate al fallimento. Se quel che, comprensibilmente, viene richiesto oggi da chi desidera diventare un magistrato è apprendere una metodologia di studio e di ragionamento volta a superare lo “scoglio” del concorso, l’offerta formativa delle Sspl andrebbe differenziata a seconda della professione giuridica cui lo studente aspira, abbandonando l’esperimento della formazione condivisa. Allo stesso tempo, i tirocini negli uffici giudiziari previsti dalle Sspl, di durata più breve rispetto ai diciotto mesi ex art. 73, se “governati” dall’università aumentano la garanzia che il focus degli stage sia prima di tutto la formazione dello studente, arginando in questo modo possibili derive utilitaristiche. Le Sspl possono verosimilmente diventare le detentrici di una formazione post lauream che integri teoria e pratica[24] e che risponda alle esigenze dei “piccoli giuristi” del domani.

«Nel mio mondo ideale, diciamo, è una cosa che non dovrebbe essere immaginabile, cioè dovrebbe essere comunque la scuola di specializzazione il luogo deputato alla formazione post-universitaria, per le persone che vogliono approcciare concorsi pubblici. Quello è. Se paghi le tasse – e le tasse le paghi –, poi vai, ti siedi a fare i concorsi e devi avere gli strumenti per poterli superare. Cosa che invece, nei fatti, non succede» (intervista 16).

 

3. Il concorso: le opinioni di chi ce l’ha fatta

La struttura del concorso in magistratura, a parte qualche lieve modifica delimitata nel tempo dovuta a specifici motivi[25], è pressoché rimasta invariata dalla nascita della Repubblica ad oggi. Il concorso, vissuto dai candidati come un «appuntamento col destino» (intervista 27), consta di tre prove scritte – un elaborato di diritto civile[26], uno di diritto penale e uno di diritto amministrativo – e di una prova orale, a cui sono ammessi coloro che hanno superato lo scritto, che ad oggi verte su diciotto materie[27]

Le opinioni registrate nel corso delle interviste in merito al concorso sono alquanto omogenee; questo viene descritto come «assolutamente meritocratico» (intervista 1), serio, in quanto soggetto a molti controlli anti-copiatura, e idoneo alla selezione. Tanto da portare un intervistato ad affermare come «la serietà e la difficoltà del concorso costituiscano uno degli ultimi baluardi per la credibilità della magistratura» (intervista 17);

«È una delle volte nelle quali mi sono sentito fiero di essere italiano, nel senso che ho riscontrato una serietà assoluta durante il mio concorso; addirittura, controllavano alle ragazze in bagno il reggiseno… Questo per dire che cosa? Che ho sempre creduto, da quando ho studiato un po’, nella meritocrazia e nel fatto che chi ha i meriti è giusto possa emergere in una società, che abbia la possibilità di provare il suo valore, e il concorso in magistratura per me è stato questo. Chiaramente, parlo col senno di poi… ma, anche se non l’avessi passato, l’impressione è quella di un concorso estremamente serio ed esigente – giustamente esigente – perché è tanto delicata la funzione che andiamo a svolgere, che è giusto pure che ci siano questi controlli» (intervista 3);

«Io ragiono sulla mia esperienza – che comunque è limitata – e ritengo, per com’è congegnato adesso, che il concorso sia adeguato a selezionare le persone che poi devono assolvere questo compito; ma questo lo dico forse un po’ anche ex post, vedendo la qualità del lavoro anche dei colleghi: tendenzialmente, finora non ho mai visto un atto scritto da un collega che fosse scritto male. Il che può sembrare una banalità… ma la capacità di saper scrivere in italiano, seguendo un percorso logico-argomentativo corretto e lineare, è comunque la prima cosa che viene chiesta al concorso. Quindi, insomma, ritengo che la selezione sia sicuramente molto rigida, ma sia fatta anche bene in vista della funzione che il magistrato è chiamato a esercitare» (intervista 8);

«Credo, però, che sia necessario mantenere un livello di difficoltà molto alto, per due motivi: per selezionare persone competenti – perché se i temi sono difficili, riesce a svilupparli solo qualcuno che ha studiato molto – e, soprattutto, perché i temi presuppongono capacità di ragionamento, perché non c’è mai una soluzione univoca a un caso della vita. I nostri fascicoli non sono… Cioè, poi devi semplificare e astrarre in una fattispecie di reato, ma tu ti occupi di vicende umane, no? E se non hai logica, questo meccanismo diventa complicato. Il fatto della difficoltà è una prerogativa necessaria. Perché poi si va a ricoprire un ruolo di grande responsabilità e non ci possiamo permettere che entrino in magistratura persone non preparate. Pertanto, che il livello di preparazione necessario sia molto alto, credo sia sacrosanto» (intervista 32).

La prova scritta viene dunque valutata positivamente ai fini del meccanismo di reclutamento perché, a parere di chi ce l’ha fatta, vaglia sia la preparazione che la capacità di ragionamento dei futuri magistrati. Capacità di ragionamento che, per molti, rappresenta il fulcro dell’attività che il magistrato, attraverso la scrittura di provvedimenti e sentenze, occupandosi di vicende umane e giuridiche, è chiamato a svolgere:

«Un’idea di selezione che ha ancora una sua logica, una sua funzionalità rispetto al lavoro che poi si andrà a fare. Perché, insomma, scrivere sentenze è questo. Quindi, questo tipo di prova ha una sua validità» (intervista 16);

«Chiaramente, è lì che la difficoltà del lavoro del magistrato viene fuori… Nel terreno non arato dalle massime, dalle sentenze, viene fuori la capacità di ragionamento del magistrato» (intervista 37).

Alcuni suggeriscono dei correttivi, come l’eliminazione della prova scritta di diritto amministrativo, materia che in rarissimi casi viene applicata dai magistrati ordinari, e l’inserimento di prove su materie come la procedura civile e penale, con cui invece i magistrati sono chiamati a confrontarsi ogni giorno:

«È chiaro che non è da fare un tema sul litisconsorzio necessario nella… Però obbligare i concorsisti ad approfondire, come il civile e il penale per lo scritto, anche le procedure, magari con una modalità di selezione diversa – non dico di fare un tema – sarebbe opportuno… Escludendo, invece, l’amministrativo: per quanto sia importante e fondamentale, mi è capitato di utilizzare, di far fruttare la mia preparazione in amministrativo nel lavoro in un solo, unico caso» (intervista 31).

Le voci fuori dal coro che sostengono l’inidoneità della prova scritta di stampo teorico sono poche. Tra queste, c’è chi propone un approccio più pratico, al pari di altri concorsi pubblici e, a ben vedere, anche sulla falsariga degli esami di abilitazione alle altre professioni legali, nei quali è richiesta la redazione di specifici atti giuridici:

«Si tratta di prove molto teoriche che molto spesso non rispecchiano quello che è il lavoro del magistrato; quindi, forse da un lato sarebbe più idoneo ripensare, non so se nelle prove di adesso è così, far scrivere delle sentenze, come si fa al concorso per il TAR o per il Consiglio di Stato, c’è un approccio anche più pratico a quelli che dovrebbero essere gli atti del magistrato» (intervista 25).

La prova orale, al contrario, non incontra lo stesso favore e viene descritta come «il tripudio della follia» (intervista 16) o, addirittura, come «una violenza» (focus group n. 2). Tali epiteti si devono, in buona sostanza, a due ragioni: il breve lasso di tempo che si ha a disposizione per la preparazione[28] e la vastità di materie oggetto d’esame. In molti descrivono la fase di studio antecedente all’esame orale come uno dei momenti più difficili dal punto di vista psico-fisico della loro vita. Tant’è che qualcuno dichiara: «siamo tutti traumatizzati dall’orale» (intervista 8);

«È veramente troppo, è un qualcosa che… La mole è immensa. Soprattutto, se uno pensa di dover arrivare a un certo livello di completezza, perché quando hai tanto tempo poi approfondisci, approfondisci, approfondisci… Arrivi a quella mattina che non ti ricordi manco come ti chiami. Poi, va bene, ti siedi ed esce tutto, e va tutto bene. Credo, però, che tutto questo carico di stress sia veramente eccessivo, e non so come le persone meno “centrate” riescano poi veramente a gestirlo» (intervista 15).

L’opinione comune è che la prova orale non sia pensata per vagliare la conoscenza delle materie d’esame quanto, piuttosto, per valutare la «capacità di tenuta psicologica» (intervista 20) degli aspiranti magistrati.

«Vengono bocciati quelli che crollano emotivamente, psicologicamente. Ora, secondo qualcuno, è giusta questa selezione, perché il magistrato va testato anche sulla tenuta mentale. Secondo me, un po’ lo fanno apposta – ho visto all’orale – a farti qualche domanda più difficile, proprio per vedere se vai nel pallone, perché vogliono testare questo aspetto» (intervista 10);

«L’orale è una prova di forza psicologica. Vengo a questo per dire che ho riflettuto e mi sono anche confrontata con un paio di colleghi su questo… Col senno di poi, cioè avendo superato questa prova non solo come prova d’esame [ride], ma proprio come prova esistenziale… Non so quanto consapevolmente, credo che il percorso dell’esame in magistratura, del concorso, sia una sorta di palestra che mette a dura prova anche la resistenza psicologica e fisica della persona che si candida. Soprattutto, questa resistenza psicologica allo stress è una competenza che poi serve nel lavoro» (intervista 32);

«Uno dei consigli che mi era stato dato, parlando con dei magistrati, per quanto riguarda la preparazione dell’orale, era il seguente: quando andrai a sostenere l’orale cerca comunque di apparire… di essere una persona equilibrata. Questo, in realtà, anche nell’elaborazione del tema, perché sono richieste comunque doti di equilibrio e… poi, per svolgere un lavoro che richiede una certa neutralità… Doti che possono quindi emergere nel confronto diretto, dialogico, con la commissione esaminatrice in sede di esame. Ciò consente anche di vagliare le attitudini personali, caratteriali. Fermo restando il fatto di non essere propriamente d’accordo con l’inserimento di test psicoattitudinali, ritengo che probabilmente questa valutazione possa essere fatta in sede di prova orale» (intervista 24).

Così, le prove scritte e specialmente la prova orale, secondo la maggioranza degli intervistati, assumono la veste delle prove teoriche, ma mascherano la loro reale funzione, che è quella non tanto di vagliare la preparazione giuridica del candidato, ma di esaminare la persona e valutarne l’idoneità ai fini della funzione che sarà chiamata a svolgere. Chi supera il concorso dà prova non solo di saper argomentare giuridicamente, ma anche di essere equilibrato e saper reggere lo stress, competenze che, a detta degli intervistati, caratterizzano costitutivamente la professione di magistrato. 

Non tutti, peraltro, ritengono che la prova orale assicuri una corretta selezione e propongono strade alternative – come accade in altri settori professionali – che prevedano l’inizio del lavoro “sul campo” e una successiva valutazione, improntata sulle capacità di svolgere concretamente la professione.

«Follia totale, follia totale. Tutti quanti… Chi non era scemo prima, “ci esce” dopo l’orale per il concorso. Allora, dico io: siccome statisticamente chi supera gli scritti è in numero pari o inferiore ai posti messi a bando – in ogni concorso da 400 posti, in 390 superano gli scritti –, una volta fatti gli scritti, non fatemi fare questo orale folle… Che, tra l’altro, non è neanche un “filtro” per casi umani che, comunque, poi entrano in magistratura… Tutti quanti conosciamo soggetti che, come dire, dovrebbero… ed entrano [ride], non sto scherzando. L’orale non riesce a fare da filtro. E allora: fate un tirocinio, come dire, con valutazioni finali, quindi con esiti che rilevano al posto dell’orale. Fondamentalmente, si risparmia un orale che è follia e non ti prova che un magistrato sia bravo o cattivo: semplicemente, una prova di tenuta psicologica, inutile ai fini della preparazione. Togli questo orale. Per chi passa lo scritto, siccome il numero è quello, fai una prova sul campo, tienili un anno e mezzo con un… già con uno stipendio, come fanno gli specializzandi in medicina, da tirocinante, come anche abbiamo avuto noi all’inizio: uno stipendio più basso, entri, lavori un anno e mezzo, fai pratica, conosci gli uffici, ti fai vedere… Anzitutto, tu stesso capisci cosa vuoi andare a fare con parecchio anticipo e, soprattutto, sei testato anche sul campo, su cose che servono. Perché a me una persona che supera l’orale perché è tutto strano e impara diciassette materie a macchinetta e, poi, messo in un ufficio, non sa scrivere un provvedimento, non si rende conto di cosa proprio… Secondo me la cosa migliore sarebbe fare uno scritto che ti faccia accedere a un tirocinio valutato» (focus group n. 2).

 

3.1. I giudizi sul ritorno al concorso di primo grado

Come anticipato (supra, nota 8), il “decreto aiuti-ter” del 2022 ha riformato la disciplina di accesso al concorso in magistratura, riconvertendolo in un concorso di primo grado a cui è possibile partecipare con il solo diploma di laurea in giurisprudenza. I giudizi raccolti nel corso della presente ricerca in merito a tale modifica sono, nella quasi totalità, positivi. La maggior parte dei giovani magistrati guarda con favore al concorso di primo grado, rilevando come, negli ultimi anni, il concorso di secondo grado – da essi sostenuto – iniziasse a produrre inevitabilmente, a causa della lunghezza del percorso e della totale dedizione allo studio che il concorso richiede, «una prima scrematura per censo» (intervista 7) o anche, in altre parole, «una selezione di classe» (intervista 14);

«Sulla semplificazione, chiaramente, sono favorevole a renderlo di nuovo un concorso di primo livello, non di secondo, come è strutturato ora. Capisco, da un lato, il discorso dei due livelli per garantire una maggiore serietà; c’è da dire, però, che più si sposta in là la durata del percorso di studi, più il concorso rischia di avere un accesso per censo, non solo per meriti. Questo è un rischio connesso, e se non hai la famiglia che ti supporta durante lo studio, diventa sicuramente un po’ difficile poterlo fare…» (intervista 3);

«Allora, sono assolutamente favorevole al ritorno al concorso di primo livello. Qui era in atto una sorta di selezione elitaria di classe sociale, indiretta e non detta» (intervista 20);

«Un percorso del genere è altamente limitante, perché bisogna affrontare tante spese in termini di mancato lavoro. Quindi non guadagni, devi pagare i libri, che sono sempre costosissimi, così come i corsi da seguire… Diciamo che è un percorso “da privilegiati”. E questo non dovrebbe avvenire, perché si tratta di un concorso pubblico» (intervista 25).

Qualcuno osserva come la discriminazione perpetrata dal concorso di secondo grado, che opera sul piano individuale/di classe nei confronti delle persone alle quali, per ragioni socio-economiche, è esclusa la possibilità di partecipare, non sia l’unica conseguenza negativa prodotta da tale meccanismo di reclutamento. L’“effetto dell’effetto” è, infatti, quello di dar vita a una magistratura che rappresenta una certa classe sociale (medio-alta) e non una magistratura plurale, specchio della società in cui è immersa:

«La più grande discriminazione che vedo è quella basata sul “censo”, perché noi abbiamo una magistratura, espressione… – adesso non voglio, visto che stiamo registrando – di un certo gruppo, mettiamo così – non usiamo altre parole, che possono essere equivocate – … Ecco, un certo gruppo di persone che ha la possibilità, come dire, di investire tre o quattro anni dopo la laurea per il concorso» (intervista 36).

Sono in pochi a esprimere perplessità sul ritorno al concorso di primo grado adducendo, come motivo principale, il fatto che i neolaureati, soprattutto a causa dell’inadeguatezza della formazione universitaria ricevuta, non dispongano della maturità e degli strumenti per affrontare il mondo e il diritto contemporanei, in quanto «terribilmente complessi» (intervista 19), e auspicano l’adozione di altri modelli di reclutamento, come quello francese:

«Una preparazione ulteriore, finalizzata a rafforzare le basi teoriche, prodromiche all’accesso al concorso, sarebbe stata ancora desiderabile. E, forse, tanto più desiderabile in questo momento storico. Si è deciso in un altro senso, per ragioni del tutto legittime e nobilissime, quelle di evitare cioè una trasformazione del concorso in una sorta di selezione su base censitaria… Perché, inevitabilmente, più tempo dedichi agli studi, più occorre che qualcuno ti sostenga sul piano economico – comprendo perfettamente… Per questo, in realtà, non mi dispiacerebbe il modello francese, con un concorso post lauream per l’accesso a una scuola di durata biennale e a frequenza retribuita, all’esito della quale è previsto un ulteriore esame, superato il quale si diventa magistrati. Quella, forse, sarebbe stata la soluzione ideale, perché gli studi concorsuali sarebbero stati remunerati. In Italia non si è scelta quella strada, per tante ragioni, sicuramente economiche in primis… Si è restituita l’accessibilità del concorso anche ai neolaureati, secondo me scorrettamente… perché, nel bilancio fra esigenze di massima apertura del concorso ed esigenze di garanzia di preparazione degli aspiranti magistrati, la scelta compiuta non è stata ideale. Ma so di essere in ampia minoranza» (intervista 19);

«Se, da un lato, è anche vero che ripristinare il concorso di primo livello era necessario, dall’altro, però, mi chiedo: nei fatti, chi lo supererà a 23 o 24 anni, questo concorso, se le prove sono sempre difficili, e quindi l’università da sola non garantisce agli studenti la preparazione giusta a passarlo? È soltanto uno specchietto per le allodole, nel senso che le persone dovranno comunque frequentare i corsi privati, e quindi tutto sommato lo passeranno sempre a 26 anni, 27 anni? Non lo so» (intervista 25).

È indubbio come tale riforma conduca a un necessario ripensamento della formazione universitaria[29], ma anche, come già in precedenza auspicato, a un’implementazione delle scuole di specializzazione per le professioni legali, per le quali si potrebbe prevedere un accesso anticipato rispetto alla fine del percorso di studi universitario. Ad ogni modo, tra gli intervistati c’è chi rileva come molte delle preoccupazioni relative alla giovane età e all’inesperienza dei futuri magistrati siano infondate, dato che – a parte la parentesi più recente – in Italia i “giudici ragazzini” ci sono sempre stati.

«Quindi, riportarlo a concorso di primo livello è cosa buona e giusta; non è assolutamente un problema il fatto che si arrivi in magistratura più giovani… No? C’era… l’epoca dei giudici ragazzini, e non erano certamente cattivi magistrati. Anzi, tra quelle generazioni ci sono stati tra i migliori magistrati che il nostro Paese abbia conosciuto – quindi: favorevolissimo» (intervista 22).

 

4. La formazione dei magistrati: alcune considerazioni sulla formazione iniziale e permanente e sul ruolo della Scuola superiore della magistratura

Una volta superato il concorso e prestato il giuramento, ha inizio il periodo della durata di diciotto mesi[30] da magistrato ordinario in tirocinio (MOT)[31], composto da un tirocinio generico, in cui è previsto l’affiancamento di magistrati di tutte le funzioni e uno mirato, focalizzato sulle funzioni di destinazione. Il MOT, che non esercita la funzione giurisdizionale, definito per questo motivo da un intervistato come una figura «senza arte né parte» (intervista 36), è in formazione: frequentando gli uffici giudiziari e affiancando i magistrati affidatari con più esperienza, osserva e impara sul campo il lavoro di magistrato. Lavoro che, come risulta dalle interviste, sembra quasi che si tramandi o, comunque, si apprenda anche un po’ per imitazione:

«Il problema è proprio la pratica, quello che uno deve vedere, e quella si impara negli uffici. Vedendo i magistrati esperti, vedendo vari modi di lavorare, imparando… ritenendo più affine il modo di lavorare di uno e meno dell’altro, e imparando un po’ per imitazione. E poi uno si costruisce un proprio modo di lavorare, guardando come lavorano i colleghi più esperti» (intervista 22).

Nel corso del tirocinio, descritto da molti come «un momento in cui impari e non hai responsabilità» (intervista 30), è previsto che i MOT frequentino i corsi di formazione iniziale erogati dalla Scuola superiore della magistratura[32]. La formazione iniziale è spesso vissuta come «l’ultimo momento di spensieratezza prima della presa di funzioni, in cui poi ovviamente… diventa tutto molto meno sereno» (intervista 34). Nel corso delle interviste, i magistrati hanno evidenziato non poche criticità legate a tale formazione, dichiarando come questa abbia un «approccio forse un po’ fuori dalla realtà» (intervista 4), quando secondo loro dovrebbe rispondere, invece, all’esigenza di una formazione mirata al lavoro e quindi caratterizzata da un taglio maggiormente pratico:

«Non potevo crederci: c’erano ancora le lezioni frontali del primo anno di università, quando io, dopo un mese, mi sarei dovuta scontrare con un nuovo lavoro e nessuno… Quell’aspetto della formazione è stato, devo dire, abbastanza carente» (intervista 16);

«Avrei voluto che mi fossero insegnate alcune cose che, però, non sono state dette, le sto imparando adesso. Le sto imparando o da solo, oppure grazie ai colleghi che sono qui già da qualche anno» (intervista 4);

«Dopo anni e anni che stai seduta a studiare, eccetera, hai voglia di buttarti in aula di udienza, hai fame di capire qual è il mestiere, diciamo di “prenderne i ferri in mano”, non hai voglia di sentire ancora la teoria» (intervista 9).

In molti criticano l’impostazione della Scuola, che attuerebbe, secondo le loro testimonianze, «una sorta di terrorismo psicologico» (intervista 20) nei confronti dei MOT, ricorrendo all’arma della “paura del disciplinare”, dal momento che si concentra, soprattutto nella fase iniziale della formazione, nel sottolineare in quali casi il magistrato che commette errori e viola i suoi doveri rischia d’incorrere nei procedimenti disciplinari dinnanzi al Csm[33]:

«La Scuola superiore della magistratura ha questo limite… Un po’ questa formazione orale, che tende a enfatizzare gli aspetti negativi nei quali potresti incorrere svolgendo la tua attività professionale. Veniamo un po’ terrorizzati da questo aspetto: la paura del disciplinare, questa specie di giurisdizione protettiva, come è capitato in medicina… E invece la Scuola superiore, se proprio deve esistere culturalmente, dovrebbe invitare al coraggio, al cambiamento… Lo so che sembrano cose retoriche, ma non è vero» (intervista 14).

C’è chi, efficacemente, rileva come una narrazione di questo tipo proietti un modello di “magistrato burocrate”[34] che può influenzare (negativamente) i giovani magistrati, soprattutto perché impresso nella fase iniziale della formazione, ancor prima che essi prendano le funzioni:

«Svuotare la giurisdizione dal portato di valore, perché ti vogliono rendere un funzionario mero burocrate, questo ovviamente è funzionale a un disegno più complessivo. La Scuola, involontariamente, sta assecondando questo disegno. Forse, dovrebbe invece fare una sorta di controriforma culturale, da questo punto di vista» (intervista 14).

La Scuola «esprime una sua visione del mondo» (intervista 19). Ciò avviene, come nel caso italiano, «quando la formazione è intesa a garantire la coesione di un’istituzione e la coerenza dei comportamenti degli individui che ne fanno parte»[35], poiché «implicitamente tende anche a trasmettere norme e valori di carattere identitario»[36]. Pertanto, a parere di alcuni, la Scuola dovrebbe farsi portatrice di una riforma culturale e valoriale di segno opposto rispetto allo stato dell’arte attuale. Va rilevato, tuttavia, che l’offerta formativa della Scuola è strettamente legata alle personalità e alle volontà dei membri che compongono il suo Consiglio direttivo[37]. I membri, nominati dal Csm e dal Ministero della giustizia, cambiano ogni quattro anni e, pertanto, è difficile garantire una certa continuità di “visione”:

«Ogni quattro anni il direttivo viene rinnovato e ogni quattro anni i nuovi formatori diciamo che esprimono ecco una propria visione del mondo, alcuni più attenti al dato formale e altri invece più attenti alla società, come è inevitabile che sia» (intervista 19).

Con riferimento, infine, alla formazione permanente erogata dalla Scuola a tutti i magistrati in servizio, le opinioni raccolte sono prevalentemente positive, i corsi sono valutati come «di alto livello» (intervista 38) dal punto di vista dei contenuti e dei docenti formatori e pochi sono i giudizi di segno opposto. Ad esempio, un intervistato dichiara di non essere soddisfatto della qualità dei corsi, tanto da mettere in discussione l’obbligatorietà della formazione, e afferma: «se la formazione non fosse obbligatoria, probabilmente seguirei pochissimi corsi» (intervista 10). Un altro, invece, si lamenta dell’eccessivo carico di lavoro, difficilmente conciliabile con la frequenza ai corsi, che diventano un “lusso” che il magistrato medio non può permettersi:

«Adesso abbiamo un carico di lavoro che prima non avevamo, e quindi certamente non possiamo permetterci di seguire… tantissimi corsi» (intervista 13).

Una critica che è stata sollevata da molti intervistati è, invece, relativa alla poca trasparenza dei criteri con cui vengono selezionati i partecipanti ai corsi, dato che questi hanno un numero limitato di posti. Un intervistato, legittimamente, osserva: «se sapessi il criterio, probabilmente riuscirei anche a orientare la scelta del corso in maniera diversa» (intervista 17). La conseguenza che si produce è che, dei tanti che si iscrivono ai corsi di formazione permanente, solo pochi riescono a frequentarli, il che evidenzia come la domanda di formazione, ad oggi, superi l’offerta[38].

Da ultimo, di estremo interesse è quello che molti hanno dichiarato essere il punto focale della Scuola, e cioè il fatto di rappresentare un luogo di scambio tra magistrati che provengono da realtà territoriali e organizzative diverse. Elemento che, da una parte, permette al magistrato la costruzione di una rete relazionale e, dall’altra, consente di conoscere altre prassi di lavoro rispetto alle proprie (o a quelle della sede giudiziaria di appartenenza), favorendo in questo modo un apprendimento empirico indiretto che si basa sul confronto delle esperienze tra colleghi:

«È una grande esperienza aggregativa, che credo sia comunque molto utile, permettendo di comprendere meglio altre realtà territoriali, di conoscere i colleghi che provengono da quelle realtà – che poi è sempre un vantaggio anche dopo, in termini di contatti, di confronto… Senza questa esperienza, forse, tanti colleghi di altre parti d’Italia (del mio stesso concorso o di altri concorsi) non li avrei neppure conosciuti. Secondo me, questo è l’aspetto più importante della Scuola superiore: consentire un confronto tra realtà diverse» (intervista 11);

«Il rischio è, poi, di pensare che il modo di lavorare sia solo quello che vedi nel tuo quotidiano, e invece questo è un modo soltanto… Posso continuamente notare come il mio stesso lavoro possa essere svolto in mille altri modi, complici anche le condizioni ambientali e organizzative della specifica sede giudiziaria» (intervista 34).

 

5. Magistrati si diventa: la forma mentis del magistrato alla prova delle soft skills

Al termine dell’analisi, pare utile mettere in luce alcuni dei convincimenti emersi dalle interviste in merito al concorso, al lavoro del magistrato e alla formazione erogata nel corso della professione. 

Il primo convincimento è che il superamento del concorso in magistratura non renda automaticamente la persona che ce l’ha fatta un magistrato:

«Superare il concorso in magistratura, per quanto mi riguarda – insomma per la mia esperienza e per quello che ho visto –, non ha pressoché nulla a che vedere con il saper fare bene il magistrato. Occorre cioè conoscere, saper scrivere… Tutte cose fondamentali per fare il magistrato. Ma il “cuore” della professione, che è quello che s’impara nel tirocinio e “sul campo”, ritengo sia qualcosa che ha più a che fare con la capacità decisionale – parlo soprattutto del lato giudicante, quello che ho approfondito di più. Per quanto riguarda il lato requirente, c’è invece un’altra serie di attività e di capacità che, comunque, non sono completamente teoriche» (intervista 27).

Il secondo convincimento, che discende dal primo, è che il lavoro del magistrato si impari solo facendolo. Sul punto c’è anche chi fa notare che «il lavoro vero lo impari… quando le devi firmare tu le cose» (intervista 31), cioè, in buona sostanza, quando si esercita la funzione giurisdizionale e ci si assume la responsabilità di ciò che si fa:

«Quindi ho imparato, diciamo, cominciando a lavorare effettivamente, ma penso che nel 90% dei casi si impari facendo. Poi, c’è chi ha fatto un po’ più esperienza pratica, chi meno, però… così è» (intervista 12).

Il terzo e ultimo convincimento riguarda il “privilegio” della formazione. La magistratura è una categoria professionale che ha il diritto/dovere di formarsi e aggiornarsi. Secondo il Csm, «la formazione dei magistrati costituisce oggetto di un interesse collettivo, condiviso e generalizzato, in quanto rappresenta una delle condizioni su cui si reggono la legittimazione dell’operato e l’indipendenza della magistratura»[39].

«Ritengo che il fatto di far parte di una categoria che, per tutta la propria vita lavorativa, ha l’obbligo di formarsi continuamente sia un privilegio. E quindi si dà la priorità a quello, nel senso che se vengo ammesso a un corso e quello stesso giorno ho udienza, l’udienza salta, e io vado al corso. Ciò significa dare la priorità a una componente formativa che, probabilmente, serve come baluardo culturale (…). Per tutta la tua vita dovrai formarti, quindi non puoi veramente credere che ormai sei arrivato e, superato il concorso, puoi tirare i remi in barca. Il fatto di avere un orizzonte lungo di formazione, di vedere colleghi alla settima valutazione di professionalità che continuano a frequentare i corsi al mio pari, mi trasmette sia un’idea di parità, di assenza di gerarchie tra di noi, sia un senso di respiro culturale che dovrebbe appartenerci, quell’attitudine alla riflessione giuridica permanente che dovrebbe caratterizzarci. Non c’è dubbio: lo reputo un privilegio» (intervista 24). 

È evidente in questo senso come, riprendendo le due categorie del sapere dei magistrati elaborate da Daniela Piana, il concorso in magistratura vagli il know that dei candidati e cioè «il sapere ciò che concerne il diritto e la dottrina»[40], mentre il know how, ovvero «il sapere come fare in casi specifici per risolvere i singoli problemi»[41], si apprenda in via esclusiva attraverso l’esperienza. Assume a questo punto grande rilievo, soprattutto all’interno di un sistema di reclutamento come quello attuale, il ruolo della formazione post-concorso, che andrebbe ripensata per rispondere alle istanze sollevate dai giovani magistrati intervistati.

«Ecco una cosa che tutti quelli che hanno vinto un concorso in magistratura sanno fare benissimo: aprire un libro e leggerlo, aprire una banca dati e leggersi la sentenza. Questo, sicuramente, siamo in grado di farlo – se siamo arrivati fin qui, almeno questo [ride] spero di sì. E quindi, ecco… un taglio decisamente più pratico, ma questo vale tanto per la formazione in tirocinio quanto per quella successiva» (intervista 30).

In molti hanno manifestato, nel corso delle interviste, la necessità di una formazione di stampo pratico, ma la domanda che è necessario porsi è: “pratico” in che senso? Alla luce delle dichiarazioni raccolte, parrebbe che dietro all’idea di un approccio maggiormente pratico si celi la richiesta di una formazione “altra” rispetto a quella tradizionale, quindi non strettamente connessa alla scienza giuridica.

«Per esempio, io ho iniziato come prima funzione a fare il giudice della famiglia e mi sono accorto che il lavoro mi imponeva di ascoltare minorenni chiedendo loro cose personalissime… E io questa abilità di parlare con un ragazzino di tredici anni non ce ho, non l’ho avuta, nessuno mi ha insegnato a farlo» (focus group n. 3).

È ormai assodato, infatti, che il magistrato contemporaneo non sia più preposto alla sola attività interpretativa e applicativa della legge, ma sia chiamato a disporre anche di altre competenze, come quelle organizzative, gestionali, economiche, statistiche[42] e manageriali[43]. Quel che sarebbe auspicabile è, pertanto, un’implementazione della formazione extragiuridica offerta dalla Scuola superiore della magistratura. Una formazione professionale che non sia incentrata solo sul sapere tecnico-giuridico, ma che attinga anche da altri saperi, come quello sociologico, psicologico, economico e tecnologico, e che sia «più plurale e pluralista»[44], nonché interdisciplinare[45]. In aggiunta, parrebbe opportuno prevedere dei percorsi formativi volti al potenziamento delle cd. “soft skills[46] dei magistrati, in primo luogo in quanto lavoratori inseriti all’interno di un’organizzazione e, in secondo luogo, perché le attività che questi svolgono richiedono competenze trasversali e non solo tecniche. Si pensi, ad esempio, al giudice che, di fatto, esplica un’attività di problem solving[47] e di decision making, o al pubblico ministero che, nel corso delle indagini, deve far ricorso a tecniche di analisi, ma anche, come traspare dall’intervista, di ascolto e di relazione; e ad entrambi, che devono far fronte e gestire tensione e stress[48]

Come osserva Antonio Balsamo, la formazione interdisciplinare del magistrato assume ancora più rilevanza nell’attualità se si pensa alla recente implementazione e valorizzazione, soprattutto in termini di risorse umane, dell’Ufficio per il processo (Upp)[49]. Si assiste oggi, infatti, a una trasformazione della dimensione organizzativa del processo in cui il giudice, non più solo e autonomo nell’esercizio delle sue funzioni, è coadiuvato da laureati in giurisprudenza, ma anche in materie non giuridiche come economia e scienze politiche[50]. Con un aumento e un cambiamento della composizione dell’ufficio giudiziario, il giudice è chiamato a incrementare la sua capacità di lavoro di squadra e di gestione e organizzazione del carico di lavoro. Le soft skills assumeranno, dunque, sempre più rilevanza nell’esercizio della professione di magistrato.

Certo è che quel che si propone nei termini di una formazione post-concorso che sia di stampo interdisciplinare, e che si concentri anche sul consolidamento di competenze che non siano solo tecniche, si presenta senz’altro come una sfida, considerato che tra i magistrati resiste l’idea per cui il concorso di accesso alla professione, così come è oggi, «ti dà una forma mentis e anche gli strumenti che ti serviranno per il lavoro» (intervista 9). Forma mentis che trascura la complessità della professione del magistrato nella contemporaneità[51], e che è frutto di una cultura giuridica[52] di stampo vetero-positivistico – secondo cui l’unica funzione del giudice è quella di conoscere, interpretare e applicare il diritto – che si fa portatrice di una concezione del magistrato del tutto disancorata dalla realtà.

 

 

1. Le uniche eccezioni nel panorama europeo sono rappresentate dai casi di Irlanda e Malta, appartenenti a tradizioni giuridiche di common law, dove i magistrati vengono selezionati da appositi comitati che valutano gli aspiranti candidati tra coloro che già svolgono una professione giuridica, che nella maggior parte dei casi è l’avvocatura. A un corpo giudiziario con tali caratteristiche ci si riferisce con il termine di “magistratura professionale”. Cfr. C. Guarnieri e P. Pederzoli, La democrazia giudiziaria, Il Mulino, Bologna, 1997, p. 55.

2. Carlo Guarnieri e Patrizia Pederzoli, riprendendo Giuseppe Di Federico e Giorgio Freddi, hanno individuato le caratteristiche costitutive delle magistrature burocratiche contemporanee, tra le quali spiccano: una selezione del personale che avviene su base tecnica (ad esempio, tramite concorso pubblico) e un’organizzazione gerarchica interna al corpo. Cfr. Iid., op. ult. cit., pp. 54-55. Con riferimento alla magistratura italiana, di recente Guarnieri ha osservato come, a partire dalla seconda metà del Novecento, si sia verificata una sorta di “ibridazione” tra le due forme di magistrature, per cui si è assistito alla «creazione di una sorta di ibrido fra magistratura burocratica e professionale che ha messo insieme i punti deboli di entrambe». Così C. Guarnieri, Le contraddizioni dell’ordinamento giudiziario italiano, in Diritto di difesa, 21 febbraio 2020, p. 1 (https://dirittodidifesa.eu/le-contraddizioni-dellordinamento-giudiziario-italiano/).

3. D. Piana, Magistrati. Una professione al plurale, Carocci, Roma, 2010, pp. 59-60.

4. Ivi, p. 60.

5. Per approfondimenti, si rinvia a C. Guarnieri e P. Pederzoli, La magistratura nelle democrazie contemporanee, Laterza, Roma-Bari, 2002, pp. 82 ss.; D. Piana, Magistrati, op. cit., pp. 57 ss. 

6. Il riferimento di cui al comma 1 dell’art. 106 Cost. è ai magistrati togati; il secondo comma dello stesso articolo prevede, invece, che «la legge sull’ordinamento giudiziario può ammettere la nomina, anche elettiva, di magistrati onorari per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli». 

7. Più precisamente, con l’art. 1 della legge 30 luglio 2007, n. 111, che ha modificato il d.lgs n. 160/2006.

8. Risale a circa un anno fa la modifica della disciplina relativa all’accesso al concorso contenuta nell’art. 33 del cd. “decreto aiuti-ter” (dl n. 144/2022, convertito con modificazioni dalla l. n. 175/2022).

9. La media nazionale del tasso di scopertura tra pianta organica e magistrati in servizio è, al 31 dicembre 2022, del 10,6% (analisi dati secondaria a cura dell’Autrice, fonte: Csm – Ufficio statistico). Con riferimento a tale dato va osservato, da una parte, che in numerose sedi il tasso è molto più elevato della media e in non pochi casi è del 100% (come, ad esempio, nei Tribunali di sorveglianza di Bologna, Campobasso e Roma) e, dall’altra, che le stesse piante organiche sono carenti. Tale criticità è stata confermata anche dai magistrati che hanno preso parte alla presente ricerca: Magistrato 5: «però anche la copertura di organico è rapportata a delle piante organiche che sono in sé insufficienti… »; Magistrato 3: «eh, è la pianta organica…»; Magistrato 4: «sono due problemi che si rincorrono a vicenda…»; Magistrato 7: «Ma se fosse coperta davvero, sarebbe già qualcosa…»; Magistrato 5: «sarebbe già qualcosa» (focus group n. 2).

10. Altri titoli di accesso, per così dire residuali, sono: l’essere magistrati amministrativi e contabili, procuratori dello Stato, dirigenti della p.a. con almeno 5 anni di anzianità, professori universitari in materie giuridiche o l’aver svolto la funzione di giudice onorario per almeno 6 anni. Si segnala, peraltro, che a tali categorie non è stata preclusa la possibilità di partecipare al concorso in magistratura a seguito della recente riforma. 

11. Le Sspl sono istituite presso le facoltà di giurisprudenza delle università italiane, ai sensi dall’art. 16 d.lgs 17 novembre 1997, n. 398, emanato sulla base della l. 15 maggio 1997, n. 127, e attivate a partire dall’anno accademico 2001/2002.

12. Dl 21 giugno 2013, n. 69, convertito con modificazioni dalla l. 9 agosto 2013, n. 98.

13. L. Berlinguer - A. Canepa - R. Caponi, Scuole di specializzazione per le professioni legali: prospettive di riforma?, in Foro italiano, vol. 126, n. 5/2003, p. 94.

14. Ibid.

15. Si era espresso, in tal senso, R. Caponi, La formazione postlaurea nelle professioni legali: situazione attuale e prospettive, in Foro it., vol. 129, n. 11/2006, pp. 369-373.

16. Per alcune considerazioni sui corsi privati di preparazione al concorso e sulla formazione universitaria, vds. il contributo di Cecilia Blengino, Dall’università alla magistratura: considerazioni sul rapporto tra studio e lavoro, in questo fascicolo. 

17. Il tirocinio formativo presso gli uffici giudiziari, ai sensi dell’art. 73 dl n. 69/2013 (conv. in l. n. 98/2013), è uno stage, destinato ai più “meritevoli”, di formazione teorico-pratica presso gli uffici giudiziari, da svolgersi in affiancamento ai magistrati delle corti d’appello, dei tribunali ordinari, degli uffici requirenti di primo e secondo grado, degli uffici di sorveglianza, dei tribunali per i minorenni, nonché ai giudici amministrativi del Tar e del Consiglio di Stato. Per poter essere ammessi al tirocinio è necessario essere in possesso dei seguenti requisiti: laurea in giurisprudenza all’esito di un corso di durata almeno quadriennale; media di almeno 27/30 negli esami di diritto costituzionale, diritto privato, diritto processuale civile, diritto commerciale, diritto penale, diritto processuale penale, diritto del lavoro e diritto amministrativo, ovvero punteggio di laurea non inferiore a 105/110; non aver compiuto i trenta anni di età; non aver riportato condanne per delitti non colposi o a pena detentiva per contravvenzioni e non essere stati sottoposti a misure di prevenzione o sicurezza. Il tirocinio ha la durata di 18 mesi e richiede una presenza minima del tirocinante di 24 ore settimanali. Il tirocinio prevede l’assistenza al magistrato affidatario nella preparazione dell’agenda, nello studio delle cause, nelle ricerche di giurisprudenza e di dottrina, la collaborazione nella stesura dei provvedimenti e la partecipazione alle camere di consiglio e alle udienze.

18. Sul punto, Fausto Giunta osserva: «Si tratta dunque di un tirocinio che può definirsi domestico o monopolistico, perché interamente affidato al magistrato affidatario, forse per questo più attento all’esigenza lavorativa dell’ufficio (o meglio del singolo magistrato), che non alla formazione del neolaureato» – Id., La formazione empirica dell’operatore del diritto penale. A proposito dei tirocini presso gli uffici giudiziari, in C. Guarnieri - G. Insolera - L. Zilletti (a cura di), Anatomia del potere giudiziario. Nuove concezioni, nuove sfide, Carocci, Roma, 2016, p. 61. Più in generale, sulla formazione del giurista in relazione al tirocinio ex art. 73, si rinvia a: G. Comporti, La formazione del giurista moderno: una sfida (ancora) irrisolta, in Criminalia, vol. VIII, 2013, pp. 527-540; A. Santosuosso, La necessità di innovare gli studi giuridici e la pratica del diritto, ivi, pp. 547-557.

19. V. Nardo, Cui prodest il tirocinio negli uffici giudiziari?, in Criminalia, vol. VIII, 2013, p. 543.

20. I tirocinanti che ne facciano richiesta hanno diritto a una borsa di studio di 400 euro mensili, erogata dal Ministero della giustizia, che viene liquidata non contestualmente al periodo di tirocinio, ma in una fase successiva. Le borse di studio vengono assegnate fino a esaurimento delle risorse disponibili, secondo l’ordine di graduatoria formata in base al valore crescente dell’ISEE calcolato per le prestazioni erogate agli studenti nell’ambito del diritto allo studio universitario. Prendendo come parametro economico di riferimento l’ISEE-U e non l’ISEE ordinario, la situazione reddituale del tirocinante è valutata tenendo conto della sua eventuale dipendenza dal nucleo familiare o della condizione di indipendenza dello stesso dal suddetto nucleo, sia dal punto di vista reddituale che abitativo. Nel concreto, dunque, ciò si traduce – tranne che nei rari casi dei cd. “studenti-lavoratori” – in una valutazione che si basa sulla situazione patrimoniale dei genitori del tirocinante, che comporta l’esclusione di buona parte degli stagisti dall’assegnazione del beneficio. Inoltre, si segnala che, a seguito dell’esaurimento delle risorse allocate, anche chi risultasse idoneo e in graduatoria potrebbe non ottenere la borsa di studio.

21. Tra gli intervistati, rarissimi sono i casi di magistrati che svolgevano un’attività lavorativa ante concorso e, tra questi, la quasi totalità (ad eccezione di qualche avvocato) svolgeva lavori nella p.a. o in istituti di diritto pubblico, come ad esempio la Banca d’Italia.

22. Per approfondimenti sulla relazione tra formazione universitaria e magistratura si rinvia al contributo di C. Blengino, Dall’università alla magistratura, op. cit. Vds. anche, più in generale, C. Blengino e C. Sarzotti (a cura di), Quale formazione per quale giurista? Insegnare il diritto nella prospettiva socio-giuridica, Università degli Studi di Torino, 2021 (www.collane.unito.it/oa/items/show/97#dettagli).

23. Per una breve panoramica sui percorsi di formazione giuridica post lauream, vds. ve: G. Ferrari, La formazione giuridica post lauream in Italia: esperienze e prospettive, in Misión Jurídica, vol. VIII, n. 9/2015, pp. 87-100.

24. Secondo la concezione magistralmente espressa da Piero Calamandrei, per cui nelle scienze giuridiche teoria e pratica devono necessariamente coesistere, poiché l’una trae beneficio dall’altra e viceversa. Cfr. Id., La Facoltà di Giurisprudenza, in G. Pasquali e P. Calamandrei, L’Università di domani, Campitelli, Foligno, 1923, pp. 247-325. 

25. Si pensi, ad esempio, all’intervento di “semplificazione” del concorso attuato con il d.lgs n. 398/1997, che prevedeva lo svolgimento di una prova preselettiva, eliminata pochi anni dopo, o il più recente dl n. 44/2021, che, a causa della pandemia da Covid-19 e per ridurre il rischio di contagio, ha introdotto una disciplina speciale per lo svolgimento delle prove scritte (riducendole da tre a due), ha diminuito il tempo a disposizione dei candidati per lo svolgimento degli elaborati (da 8 ore a 4) e ha previsto che le prove scritte potessero essere sostenute in sei sedi distribuite sul territorio nazionale e non solo nella sede centrale di Roma.

26. Che fino alla fine degli anni novanta verteva anche sulla materia del diritto romano.

27. Che, nello specifico, sono: diritto civile ed elementi fondamentali di diritto romano; procedura civile; diritto penale; procedura penale; diritto amministrativo, costituzionale e tributario; diritto commerciale e fallimentare; diritto del lavoro e della previdenza sociale; diritto comunitario; diritto internazionale pubblico e privato; elementi di informatica giuridica e di ordinamento giudiziario; una lingua straniera a scelta tra inglese, francese, spagnolo e tedesco.

28. Dal momento in cui si apprende il risultato delle prove scritte al momento della prova orale, in base a quanto riportato dagli intervistati, possono passare da un minimo di un mese e mezzo a un massimo di 9 mesi.

29. Sul punto, si rimanda alle riflessioni conclusive contenute nel contributo di C. Blengino, Dall’università alla magistratura, op. cit.

30. Alcuni intervistati hanno segnalato che il loro periodo da MOT è durato 12 e non 18 mesi: «io sono ricaduta nella “riforma Renzi”, che limitava a un anno il tirocinio dei magistrati, perché c’era bisogno di magistrati; quindi, per due anni anziché un anno e mezzo di tirocinio abbiamo fatto un anno» (intervista 5).

31. Il MOT ha sostituito la figura dell’uditore giudiziario con la legge 30 luglio 2007, n. 111 (“riforma Mastella”).

32. La Scuola, che è stata istituita con il d.lgs 30 gennaio 2006, n. 26, ha una competenza esclusiva in materia di formazione e aggiornamento dei magistrati e ha iniziato la sua attività nel novembre 2011.

33. In questo modo attuando un atteggiamento di tipo difensivo. Sul concetto di “magistratura difensiva” vds. il contributo di Daniela Ronco, Tra giurisdizionalizzazione e politicizzazione. La percezione dei magistrati nella riforma dell’ordinamento giudiziario, in questo fascicolo.

34. Per approfondimenti, si rinvia alla presentazione dei tre modelli di magistrato proposti da Giorgio Freddi, contenuta nel contributo di Claudio Sarzotti, La cultura giuridica della magistratura italiana all’alba del nuovo millennio: primi spunti di riflessione storico-sociologica, in questo fascicolo.

35. D. Piana, Magistrati, op. cit., p. 161.

36. Ibid.

37. Sul punto, e più in generale sulla Scuola, vds. anche: G. Spangher, La Scuola superiore della magistratura, in C. Guarnieri - G. Insolera - L. Zilletti (a cura di), Anatomia del potere giudiziario, op. cit., pp. 73-78; A. Balsamo, La formazione dei magistrati: linee-guida e obiettivi formativi. Profili di diritto comparato, in Sociologia del diritto, vol. XXXVII, n. 2/2010, pp. 77-102.

38. Si segnala, tuttavia, che la Scuola ha da qualche anno iniziato a caricare gran parte dei video delle lezioni su YouTube e i materiali delle lezioni sono accessibili sul sito web, come si apprende dalle dichiarazioni di un intervistato: «Va detto che ormai il direttivo della scuola inserisce quasi tutti i corsi su YouTube, sul sito della Scuola; quindi, è vero che c’è sempre la possibilità di andarli a rivedere… però è vero pure che rivederli ex post è un conto, parteciparvi dal vivo è un altro conto. È chiaro che partecipare dal vivo in presenza garantisce una formazione migliore, però va detto che comunque tutti noi abbiamo sempre la possibilità di andare a reperire il materiale sul sito della Scuola, andarci a rivedere il corso che ci interessa, se non siamo stati ammessi; quindi, su questo bisogna essere onesti e dire che la possibilità c’è» (intervista 6).

39. Csm, «Linee programmatiche sulla formazione e l’aggiornamento professionale dei magistrati per l’anno 2023», delibera del 15 dicembre 2022, p. 1.

40. D. Piana, Magistrati, op. cit., p. 142.

41. Ibid.

42. Cfr. D. Piana, Di quali saperi abbiamo bisogno? La collaborazione tecnico-scientifica nella collaborazione tra uffici requirenti e università, in Archivio penale, vol. LXVI, n. 1/2014, p. 201.

43. Cfr. C. Sarzotti, Processi di selezione del crimine. Procure della Repubblica e organizzazione giudiziaria, Giuffrè, Milano, 2007, p. 51.

44. D. Piana, Di quali saperi abbiamo bisogno?, op. cit., p. 203.

45. Nella dimensione interdisciplinare della formazione universitaria promossa da Massimo Vogliotti, per cui questa non si esaurisce in una semplice giustapposizione di discipline differenti – cfr. Id., Per una nuova educazione giuridica, in Diritto e questioni pubbliche, n. 2/2020, p. 251. In merito alla formazione dei magistrati e alla necessità di una “visione interdisciplinare” della Ssm si veda, invece, P. Morosini, I metodi della formazione, in questa Rivista, edizione cartacea, Franco Angeli, Milano, n. 5/2004, pp. 889-898.

46. Numerose sono le definizioni di “soft skills” che si possono rinvenire in letteratura, specialmente in quella di stampo economico e psicologico. In sintesi, con queste si intende quell’insieme di competenze (dette anche “trasversali”) e delle relative abilità personali e metacognitive che servono per regolare i rapporti interpersonali e per affrontare, in senso più generale, la vita. Le soft skills si pongono in netta opposizione con le “hard skills”, che invece sono le competenze tecniche acquisite. Per una panoramica delle definizioni di soft skills si rinvia a C. Ciappei e M. Cinque, Soft skills per il governo dell’agire. La saggezza e le competenze prassico-pragmatiche, Franco Angeli, Milano, 2014, pp. 135 ss.

47. Come dimostrato da alcune ricerche empiriche. Cfr. P. Catellani, Il giudice esperto. Psicologia cognitiva e ragionamento giudiziario, Il Mulino, Bologna, 1992, p. 112.

48. Tutte competenze che rientrano nell’elenco delle “life skills” (usato come sinonimo di soft skills), diffuso dall’Organizzazione mondiale della Sanità nel 1993.

49. L’Upp è stato introdotto con l’art. 16-octies dl 18 ottobre 2012, n. 179 (conv. con mod. dalla l. 17 dicembre 2012, n. 221) e implementato, qualche anno più tardi, dall’art. 50 dl n. 90/2014, che lo definisce come una struttura organizzativa costituita con l’obiettivo di «garantire la ragionevole durata del processo, attraverso l’innovazione dei modelli organizzativi ed assicurando un più efficiente impiego delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione». Solo recentemente, con il comma 26 dell’art. 1 della legge delega 27 settembre 2021, n. 134, è stata prevista un’articolata disciplina dell’Upp al fine di garantirne la piena operatività e, con i fondi del PNRR, il Ministero della giustizia ha previsto per il triennio 2022-2024 il reclutamento di 16.500 addetti all’Upp, con contratto a tempo determinato della durata massima di 2 anni e 7 mesi.

50. A. Balsamo, Una nuova formazione giuridica per ridare fiducia alla giustizia, in Diritto e questioni pubbliche, vol. XXI, n. 1/2021, pp. 27 ss.

51. Sul punto, si rimanda alle riflessioni sulla percezione del ruolo e del lavoro dei magistrati prima e dopo l’ingresso negli uffici giudiziari contenute nel contributo di Costanza Agnella, Dalle motivazioni all’ufficio giudiziario: la percezione del ruolo del giovane magistrato, in questo fascicolo.

52. Cfr. L.M. Friedman, Il sistema giuridico nella prospettiva delle scienze sociali, Il Mulino, Bologna, 1978, p. 325.