Per chi opera quotidianamente sulla trincea del primo grado civile, l’annuncio della presa in considerazione da parte del legislatore della possibilità di elidere dal giudizio civile l’obbligo incondizionato di motivazione delle sentenze apre nuovi scenari, sia operativi e concreti, sia più generali, legati alla visione dell’operare del giudice nella società.
Dal punto di vista del sistema, va premesso l’ovvio rimando all’art. 111 comma VI della Costituzione, e ci si deve chiedere a quali condizioni il precetto potrebbe dirsi rispettato, nell’ipotesi della introduzione della c.d. motivazione a richiesta. Nulla quaestio, se fosse a richiesta pura; ma allora si tratterebbe solo di capire quale sia l’utilità di una tale riforma; invece, l’ipotesi che la motivazione debba essere a pagamento pone, da questo punto di vista, più di qualche perplessità.
Prima ancora, però, viene spontaneo chiedersi, dal punto di vista ancora più generale e politico – dato che non è mai da escludere che il legislatore non ritenga di intervenire anche sulla norma costituzionale – che effetto potrebbe avere sul già fragile rapporto di fiducia fra cittadino e giustizia civile in Italia una manomissione della garanzia che costituisce il presidio di controllo della legittimità del giudicare. Il giudice non si legittima con il voto, è impermeabile alle maggioranze e alle scelte politiche, ma, come la pubblica amministrazione, si legittima con la trasparenza delle sue decisioni.
La giustizia civile è quella che dovrebbe risolvere i problemi quotidiani degli operatori economici e non, e contribuire a rendere il nostro Paese un luogo dove il vivere civile è presidiato da strumenti efficaci, prima ancora che un mercato appetibile all’investitore (anche italiano): al momento la giustizia è servizio per il cittadino alquanto costoso e inefficiente: al cittadino si propone oggi, in più, una incertezza sulle modalità per ottenere una parte di questo servizio ritenuta essenziale dalla Costituzione.
Pare che la motivazione a richiesta ci sia almeno in due Paesi europei, la Germania e la Francia. Non ho notizia di quali condizioni siano là poste all’ottenimento della motivazione. Mi pare però che si tratti di due paesi nei quali la giustizia gode di un alto livello di credibilità sociale, guadagnato senza scorciatoie.
In entrambi la quantità di contenzioso è a livelli incomparabili con quelli italiani.
In Germania, come ho appreso dalle indicazioni di un gentile collega tedesco conosciuto in uno stage di alcuni mesi da lui trascorso presso un tribunale nel quale ho operato, il carico di lavoro per giudice è infinitamente meno gravoso che da noi. In particolare, il giudice tedesco arriva (è in condizioni di arrivare) in udienza con cinque o sei cause che ha potuto preparare per tempo, e le discute una per una con i difensori e le parti, raccogliendo nell’oralità dell’udienza chiarimenti, ponendo questioni, e con poteri di effettiva scelta, maturata nel confronto diretto, circa le modalità di svolgimento della istruttoria. Il giudice tedesco ha in questo modo un confronto con le parti di qualità tale che esse hanno modo di chiarire direttamente le loro posizioni e comprendere le rispettive criticità: in un contesto del genere non mi stupisce che, ove si giunga a decisione – è evidente che così stando le cose le parti spesso dopo la prima seduta dispongono di ampia materia per una composizione stragiudiziale – le parti possano in molti casi rinunciare a vederne le motivazioni scritte, ben sapendo quali sono le sfaccettature dei problemi sul tappeto, quale sia la visione del giudice – che hanno contribuito a formare - e potendo già comprendere le ragioni della decisione.
In Francia, il numero degli avvocati è molto più basso che in Italia e l’accesso ai gradi superiori della giustizia alquanto limitato. Se non altro, è comunque da ritenere logico che al minore numero di avvocati corrisponda un più ampio piano di cultura comune fra giudici e avvocati che favorisce, in buona parte, la comprensione delle ragioni della decisione anche senza che esse siano esplicitate – già le motivazioni francesi sono famose per la loro stringatezza. Personalmente assisto sbalordita alla rapidità delle vicende di una dichiarazione di incompetenza (nel senso usato dai regolamenti CE, e cioè di carenza di giurisdizione) di un tribunale francese, decisione motivata e a brevissimo seguita dalla seduta di verifica preliminare di ammissibilità dell’appello, in una vicenda divorzile che pende sia sul mio tavolo sia su quello del giudice francese. Stante la prevenzione del giudizio francese, seguo spettatrice i tempi assolutamente pirotecnici della decisione definitiva.
Si tratta comunque di due Paesi nei quali l’accesso alla giustizia conduce a decisioni rapide, e in cui il rapporto sia fra operatori (giudici e avvocati) sia fra giustizia e cittadino non è sottoposto alle tensioni intollerabili del nostro Paese.
Ecco, immettere in un sistema come il nostro, che già per il cittadino è imperscrutabile e vuoto (in Italia non è forte ab ante la considerazione delle istituzioni in generale, ma la giustizia non si è fatta certo benvolere) l’ulteriore incertezza e gabella della motivazione a richiesta, mi sembra un modo in più di privare il cittadino della possibilità di comprendere l’operare di un sistema che egli ha diritto di utilizzare, che paga e che non gli dà quanto promesso.
Ciò che mi chiedo, scendendo a noi, è a quale condizione il cittadino potrà avere la motivazione, e prima ancora quali sono gli scopi che si vogliono perseguire con l’elisione della motivazione generale dei provvedimenti. E’ evidente che una modifica di legge deve avvenire con in mente uno scopo, anzi, possibilmente, un progetto.
Se lo scopo è solo abbreviare i processi, alleggerendo il giudizio civile proprio nella fase che più lo aggrava – il famoso distacco temporale fra fine della istruzione e udienza di precisazione delle conclusioni o di discussione – va detto che tale scopo non verrà sicuramente raggiunto in tempi brevi, dato che, nella certezza circa la necessità o meno di motivare un numero indeterminato di cause, nessun giudice sano di mente si azzarderebbe ad accumulare un numero maggiore di decisioni, con il rischio di dovere motivare ognuna delle sentenze.
Non è comunque poi detto che decidere senza scrivere la motivazione faccia risparmiare tanto tempo. Pesa qui la ignoranza circa il famoso mistero della camera di consiglio, il mistero della mente di chi decide, e che fa talvolta credere, soprattutto ai profani (clienti), che la decisione sorga dalla mente come una folgorazione, ovvero, soprattutto ai difensori, che il giudice già da tempo abbia deciso, e che solo una ingrata fatica di amanuense rallenti il giungere della decisione al suo effetto. Merita dire, su quest’ultima prospettiva, che nel momento in cui il giudice arriva a sentenza sono sicuramente gli avvocati ad avere dedicato alla causa sicuramente più tempo di lui, a far data dal giorno in cui il cliente si è presentato a loro e hanno incominciato a dipanare la sua espositiva per costruire in diritto le loro domande e una possibile (ma unilaterale) prospettiva decisoria.
L’equivoco che ascrive alla attività di scrivere la motivazione la lungaggine del processo è lo stesso in forza del quale, come odo dire, si propone che il giudice indichi dei punti, sui quali talaltro redigerà la motivazione, e sottende un rapporto con il processo del pensare che è insieme di ammirazione e di disprezzo. Ammirazione per la potenza del genio, di derivazione romantica, o pagana, e insieme disprezzo per chi (il giudice) non è capace di capire alla svelta come stanno le cose. Che poi quest’ultimo sia spesso l’atteggiamento del profano che conta di vincere la causa, avendo in mente solo le proprie ragioni, e si stupisce prima di tutto che l’avversario le contesti, dimenticando che entrando in una lite uno dei due la perderà, è osservazione che ci riconduce al problema del rapporto fra giustizia e cittadino, e forse al rapporto fra uomo in contesa e verità. Ma neanche l’ammirazione per la potenza del genio non giova a tale rapporto: tale ammirazione, investendo il giudice dell’aura dell’oracolo, capace di decidere “il giusto” a prescindere da quello che i difensori hanno esposto, qualificato e provato, colloca l’operato del giudice nella errata luce dell’irrazionale, ci riporta al “giudizio di Dio”, ed esonera il contendente dal peso di valutare attentamente, prima della causa, il valore delle sue armi.
La verità è che il decidere è operazione razionale che da sola richiede tempo: chi propone di introdurre la motivazione a richiesta non conosce, o finge di non conoscere, la necessità di questo tempo; e ciò forse avviene oggi, e non è avvenuto prima, in quanto oggi il politico e il cittadino vivono immersi nel flusso di una realtà incalzante e che richiede decisioni folgoranti, rapide, di getto, di pelle, di rischio; ma il giudice non decide in questo modo.
In ogni caso, il cittadino che non capisce come faccia il giudice a perdere tanto tempo per dire una buona volta chi (che lui ha) ragione, non sarà tanto disposto a inghiottire una decisione pura e semplice. Come la criticherà? Come reagirà? Si muoverà ancora nell’ambito del sistema – chiedendo la motivazione e probabilmente pagandola – o avrà ancora di più la tentazione della reazione scomposta e della contestazione a prescindere? Dovrà il giudice sperare che quel cittadino abbia la pazienza di chiedergli di motivare, e che non si getti nelle braccia della pura polemica, della denuncia? Viviamo alla costante vigilia della introduzione della responsabilità civile diretta del giudice, che si affaccia da tempo all’orizzonte come lo strumento per permettere che il cittadino regoli direttamente i conti con il giudice che gli ha dato torto, esonerando la politica dall’affrontare i problemi a monte.
Credo francamente che il problema a monte sia un problema di risorse: abbiamo abbandonato la motivazione-trattato già da molto tempo, tutti; i tempi in cui si sperava che con una buona motivazione si riducessero gli appelli sono tramontati (specie se in un sistema inefficiente anche chi ha avuto torto può lucrare degli incerti dei lunghi tempi dell’appello, e indurre il vincitore ad una transazione che gli tolga dal capo il rischio della riforma della sentenza); siamo valutati ogni quattro anni; abbiamo un rito sommario che a volere essere rigorosi risolve tutto in una mattinata (istruzione e discussione) e in un pomeriggio (ordinanza); ma purtroppo non ogni cosa può diventare sommaria, succinta, rapida, per legge. Il rito sommario è un’ottima cosa, ma applicato rigorosamente va bene per pochissimi casi, altrimenti diventa un processo ordinario con una motivazione più succinta; ma la stessa motivazione succinta allora potremmo scriverla in una sentenza, ne abbiamo già la possibilità giuridica. La verità è che il giudice che abbia un numero di cause ragionevole, sia correttamente assistito dall’ufficio e operi in un sistema lineare nei riti, non può che conoscere meglio le sue cause, interloquire efficacemente con le parti, abbattere le pendenze e ridurre le litigiosità.
Ad un livello più pedestre, osservo che già il giudice civile ordinario si muove fra molti riti: l’ordinario, su citazione, il diretto (rito del lavoro) e il direttissimo (il rito ex art 702bis c.p.c., imposto senza possibilità di conversione per talune materie); il rito della separazione e del divorzio, a fase presidenziale anteriore; il rito cautelare; e, tutto, parte monocratico e parte collegiale.
Con tutti questi riti, il giudice non ha sufficiente governo del flusso in entrata: nel rito ordinario l’udienza è fissata dal difensore; i riti su ricorso arrivano a pioggia, e il passaggio per l’assegnazione da parte del presidente di sezione può comportare per taluni o per tutti rallentamenti tali da indurre, per recuperare il tempo, a fissazioni di udienze straordinarie, fuori sequenza. Il giudice non ha poi il governo del prevedibile andamento delle cause, che hanno cadenze istruttorie molto diverse fra loro. Menziono solamente, a mo’ di ciliegina sulla torta, il calendario del processo, che dovremmo fare tenendo conto di tutti i fattori, in buona parte imponderabili, del nostro ruolo.
Ecco, se a tale cumulo di fattori di incertezza organizzativa (e all’alto numero di cause per giudice) immagino aggiungersi l’incerto della necessità di interrompere il flusso dell’operare per redigere motivazioni di decisioni già prese, richieste casualmente, soffro un senso di spavento. Il dovere tornare su decisioni già prese fa sicuramente perdere il tempo che ipoteticamente si era guadagnato nella decisione non motivata, e non giova alla sensibilità che ciascuno di noi ha per le fatiche del mestiere dell’avvocato. Né appartiene alla capacità di tutti – a tacere d’altro, tutti siamo stati giudici di prima nomina – partorire dispositivi su una motivazione mentale così cristallina da rimanere fissa e immutabile nella mente, e da potere essere poi stesa senza intoppi e paure a distanza di qualche tempo. Non tutte le cause civili si riducono ad una o due questioni in diritto o in fatto. Molti ragionano mentre scrivono, è un modo che per molti è il migliore. E se si deve sostenere l’onere di decidere e motivare, mi sembra il minimo che si possa farlo nel modo a sé più confacente.
Diverso è il giudizio penale, in cui ordinariamente si motiva dopo la lettura del dispositivo, ma il giudizio penale ha altri binari, ben più marcati, che rendono più lineare il processo del decidere: niente principio della domanda, niente principio dell’allegato e provato, niente principio di non contestazione, niente scritti, poche preclusioni, niente dubbi sulle eccezioni rilevabili o non di ufficio…
Ad un livello ancora più pedestre, mi chiedo - ove la motivazione a richiesta dovesse essere una motivazione a pagamento – in quali curiose questioni potremmo trovarci invischiati se l’ipotesi di motivazione a richiesta fosse quella secondo la quale il giudice “può” stabilire che la motivazione sia a richiesta, limitandosi a indicare solo i punti della decisione. Noto, fra parentesi, che una tale ipotesi (il giudice comunque indica i punti della decisione) tradisce la sfiducia del legislatore per il giudice: non se la sente di lasciarlo decidere senza motivi tout court.
Mi pare allora, prima di tutto, incongruo rispetto al ruolo rendere il giudice stesso arbitro del diritto delle parti ad avere una motivazione subito o a richiesta; e ciò particolarmente se tale richiesta dovesse accompagnarsi ad un pagamento. Il giudice diverrebbe egli stesso il soggetto che determina, sulla base di considerazioni puramente personali, il diritto dello Stato ad ottenere introiti, e l’obbligo del cittadino di pagare. Scenari inediti si aprirebbero in relazione alla possibilità di incorrere in censure in sede ispettiva, per avere troppe volte motivato subito, sottraendo allo Stato il contributo suppletivo; o motivato “per punti” ma troppo diffusamente, contentando così le parti e ancora una volta sottraendo allo Stato il contributo che gli sarebbe spettato per la motivazione “lunga”. Oppure potrebbero aversi (ulteriori) ragioni di attrito con l’utenza, magari insoddisfatta perché la motivazione “pagata” è troppo stringata e non vale il suo prezzo, e invogliata a imboccare la strada della responsabilità (risarcitoria o disciplinare).
Su questo versante strettamente professionale, ancora più incerte le prospettive – e lo dico per completezza, dato che la motivazione stesa da terzi su punti indicati dal giudice (“motivazione appaltata”) è l’altro strumento proposto per risolvere le lungaggini della giustizia civile che abbia a che fare con la motivazione – della sorte del giudice, in sede di valutazione professionale o disciplinare, in relazione a quelle motivazioni che siano frutto dell’opera congiunta di lui e del terzo estensore: come scindere, in caso di censura, il grano dal loglio? L’estensore potrebbe lamentare di avere dovuto “riempire” punti che il giudice non gli ha indicato; potrebbe essere tentato di interrompere la redazione dei motivi abbisognando di ulteriori spiegazioni, che dovrebbe ottenere al di fuori della lista già data; potrebbe il giudice vedere traditi punti da lui indicati; ci si chiede poi come tempi della decisione potrebbero essere garantiti, e quali rimedi ci sarebbero alle lentezze del terzo redigente.
Si tratta di considerazioni svolte su quello che le voci ci portano. Non è mai da escludere, ovviamente, che venga adottato un sistema sensato, facilmente applicabile, indolore per tutti, che abbrevi la durata delle cause. Ma non credo restino molti spazi per soluzioni che non costino risorse o compressione di diritti costituzionali. Personalmente temo molto la perdita della certezza del primo baluardo della credibilità del giudice.
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