1. Premessa
Ormai è chiaro: una vera e propria tempesta si è abbattuta sul mare dei rapporti tra politica e magistratura e il furor riformatore – prima di livello solo legislativo, ora addirittura costituzionale – è lì a testimoniarlo.
Il dibattito – sia quello pubblico sui media, sia quello interno (alla politica e alla magistratura) – sembra soffiare sulla sola superficie del mare, con l’unico risultato di incresparlo ulteriormente, mentre si disinteressa alle correnti profonde che scorrono sotto le onde e che ci stanno trascinando verso destinazioni ignote.
Ma, come ricorda Seneca, «errant consilia nostra quia non habent quo derigantur, ignoranti quem portum petat nullus ventus suus est»: nessun vento è favorevole per chi non sa a quale porto approdare.
Questa Rivista ha di recente ospitato due interventi, uno del collega Enrico Scoditti (Trasformazioni della costituzione materiale e magistratura: un manifesto) e l’altro del professor Luigi Ferrajoli (Magistratura democratica sessant’anni dopo) che, pur nell’evidente diversità d’opinioni e d’indicazioni che forniscono, hanno entrambi il merito di riportare la discussione alla struttura profonda dei fenomeni e di indicare mete precise.
È mia personale ma ferma convinzione che, solo comprendendo le cause profonde della crisi, si potrà davvero “dialogare” – ciascuno nei propri limiti: di “competenza” (per la magistratura e l’avvocatura) e di “rappresentanza” (per la politica) – per poter agire efficacemente sulle cause di questa crisi e trovare quei rinnovati equilibri istituzionali che richiedono le epocali trasformazioni sociali e giuridiche che stiamo attraversando (addirittura a livello globale e non più soltanto nazionale).
Sedersi a un tavolo affidandosi solo alle rispettive precomprensioni superficiali – nel senso di relative alla struttura superficiale del fenomeno – sarebbe inutile e non farebbe che sancire il carattere insanabile di una frattura, la cui soluzione finirebbe per essere rimessa a sole “logiche di potere”, che poi vuol dire rimettersi alla legge del più forte, anziché a quella della ragione.
Per questa avvertita urgenza, tento di inserirmi in questo dibattito a livello della struttura profonda della crisi, per sostenere una duplice tesi:
1. il livello di “complessità” raggiunto dal diritto attuale ha messo in crisi il principio di sottoposizione del giudice alla legge e, con esso, la tradizionale teoria della separazione dei poteri, rendendo sempre più incerti i confini tra potere legislativo e potere giudiziario;
2. l’idea di fondo della “democrazia” posta alla base dello Stato di diritto occidentale, un tempo ampiamente condivisa in tutte le comunità di riferimento, è oggi oggetto di una sotterranea trasformazione, che ha messo in crisi i principi del costituzionalismo nella sua valenza di limite al potere della maggioranza.
Il tema della “complessità” è connesso a quello della imprevedibilità del diritto e della cd. “creatività” giurisprudenziale, all’origine delle reciproche accuse di “invasione di campo”, nelle forme della “politicizzazione” della magistratura (nella prospettiva della politica) e del mancato rispetto delle prerogative costituzionali di autonomia e indipendenza (nella prospettiva della magistratura).
Il tema della “democrazia” è invece connesso a quello della legittimazione, con particolare riguardo ai limiti dei poteri di riforma (della politica) e di protesta (da parte della magistratura), che si traduce nel dibattito sulla cd. “separazione delle carriere”, sul “sorteggio” dei componenti degli organi di autogoverno e disciplinari, nonché sullo “sciopero dei magistrati”.
Sono temi (quelli della complessità del diritto e della democrazia) che si presentano separati per esigenze di chiarezza descrittiva, ma che sono tra loro fortemente interrelati.
Cerchiamo dunque di esaminarli partitamente in sede di analisi, per poi evidenziarne le connessioni in sede di sintesi.
2. “Complessità” vs. “Complicazione”
Per comprendere la decisiva portata innovativa che hanno assunto i livelli di complessità raggiunti dal diritto attuale, bisogna avere presente la generale distinzione tra “complicazione” e “complessità”: una distinzione che non si può dare per acquisita – specie nel dibattito giuridico – e la cui conoscenza risulta invece pregiudiziale e irrinunciabile.
Bisogna dunque acquisire maggiore consapevolezza di questa distinzione in modo da comprendere cosa essa significhi per il diritto attuale e quali conseguenze abbia sullo stesso.
Si ha “complicazione” nei sistemi risultanti dall’insieme di numerose parti funzionalmente connesse, difficili da isolare e da codificare.
La complicazione però è lineare e gerarchica, si può sempre sciogliere: può essere lungo, difficile, faticoso, ma si può fare.
Ad esempio, un orologio è complicato, ma non è complesso: si può smontare, se ne possono isolare le parti, scoprirne le funzioni e da queste risalire al funzionamento generale del sistema.
Nel diritto l’iperproduzione normativa o la scarsa tecnica legislativa sono fattori di complicazione del diritto, non di complessità: una produzione legislativa alluvionale e farraginosa può sempre essere analizzata, possono identificarsi le successioni di discipline, possono risolversi le antinomie attraverso i principi di gerarchia delle fonti, di successione cronologica, di specialità/assorbimento: l’operazione può essere difficile, lunga, faticosa, ma in linea di principio si può sempre identificare la “norma” da applicare; l’esito dell’analisi è, almeno in astratto, sempre “prevedibile” o addirittura “calcolabile”[1]. Le difficoltà riguardano solamente la dimensione quantitativa della complicazione che, per essere adeguatamente affrontata e risolta, può richiedere nuove risorse (ad esempio quelle della digitalizzazione o addirittura dell’“Intelligenza artificiale”), ma il criterio risolutivo è sempre quello nomologico-deduttivo della sussunzione dei casi sotto leggi.
Insomma, vale ancora l’antico brocardo da mihi factum, dabo tibi ius. La metafora per descrivere il diritto “complicato” resta sempre quella tranquillizzante della “piramide”.
Si ha “complessità”, invece, nei sistemi il cui funzionamento non è interamente deducibile dall’individuazione e dalla conoscenza delle sue parti: come si usa dire, “il tutto è maggiore della parte”. In questi sistemi i risultati non si possono interamente prevedere in base alla sola conoscenza delle premesse, perché le singole parti operano in parallelo (senza una rigida gerarchia preventiva) e secondo meccanismi ricorsivi, per i quali risultati provvisori vengono reinviati al sistema che li elabora nuovamente condizionandone l’evoluzione. Una molteplicità di codici – che obbediscono a differenti criteri operativi e a logiche eterogenee – operano insieme secondo relazioni causali multiple e circolari, esibendo comportamenti creativi, risultati non deducibili dalle premesse secondo meri criteri nomologico-deduttivi.
Un esempio ormai noto e diffuso di sistemi complessi sono gli algoritmi di Intelligenza artificiale nelle forme del deep learning e della cd. IA generativa. Proprio la loro relativa imprevedibilità e la creatività delle soluzioni ottenute dal loro utilizzo sono alla base dei timori sociali manifestati verso questa nuova forma di tecnologia.
Nel diritto moderno sono emersi diversi esempi di “complessità” non riducibile alla mera “complicazione”.
Ne cito tre che ritengo i più gravidi di conseguenze: la coabitazione di fonti nazionali e sovranazionali e la concorrenza, in assenza di una precisa gerarchia, di differenti rimedi per risolvere antinomie tra le medesime; il cd “diritto giurisprudenziale”, in assenza di un qualche sistema del precedente vincolante; l’adozione della cd. “teoria ermeneutica” nell’interpretazione della legge e la logica dei cd. giudizi di “bilanciamento”.
In questi casi, la metafora per descrivere il diritto “complesso” non è più quella rassicurante e solida della piramide, ma diventa quella più inquietante sfuggente del “labirinto”, in cui perdersi non solo è possibile, ma in qualche misura inevitabile, o della “rete”, in cui si può rimanere impigliati senza riuscire a districarsi[2].
Con il “diritto complesso” ci troviamo davvero di fronte a quello che Natalino Irti ha chiamato “un diritto incalcolabile”, che è tale non solo di fatto, o per soggettive incapacità dei giudicanti, ma in linea di principio, per come esso è strutturato.
Vediamo ora più da vicino perché gli esempi di diritto complesso prima accennati (coabitazione di fonti nazionali e sovranazionali, diritto giurisprudenziale e teoria ermeneutica del diritto) esibiscano in modo paradigmatico i caratteri della complessità, con tutte le conseguenze che essa porta con sé.
3. Doppia pregiudizialità, disapplicazione e questione di legittimità costituzionale
In questi anni il rapporto tra diritto dell’Unione europea e il diritto nazionale ha subito profonde trasformazioni, ma soprattutto si è profondamente trasformato il tradizionale istituto della “disapplicazione” (recte “non applicazione” o “inapplicazione”) delle norme nazionali contrastanti con il diritto dell’Unione europea.
In origine, infatti, la cd. “disapplicazione” di norme nazionali per contrasto con il diritto dell’Unione europea costituiva in sostanza un’operazione squisitamente interpretativo-applicativa – perciò, tipicamente rientrante nelle attribuzioni del giudice comune – in forza della quale, una volta ritenuto che il caso rientrasse nell’ambito di competenza dell’Unione, si applicava la norma europea in vece della norma nazionale contrastante, che pure restava valida e applicabile al di fuori dell’ambito dell’Unione. Questa situazione poteva costituire al più un elemento di complicazione giuridica, ampliando il novero delle disposizioni da esaminare con l’eventuale onere supplementare di interlocuzione con la Corte di Giustizia, in conseguenza del monopolio interpretativo che questa ha sulle norme UE quando queste non siano “chiare”.
Dopo il Trattato di Lisbona e dopo l’entrata in vigore della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, questo istituto si è trasformato in qualcosa di completamente diverso che nel nostro ordinamento, in base alle nostre previsioni costituzionali, non è di competenza del giudice comune, ma della Corte costituzionale: si vuol dire che, in certi casi, la cd. “disapplicazione” si è trasformata in un larvato giudizio di illegittimità della legge nazionale da parte del giudice comune.
Infatti, quando il contrasto, seppure rilevato in ambito di rilevanza UE, è con disposizioni come quelle della Carta di Nizza – che codificano diritti fondamentali della persona – è addirittura impensabile che la norma interna possa avere una residua applicazione fuori da questo ambito, perché ciò significherebbe affermare che, fuori dall’ambito di rilevanza UE, la legge possa violare i diritti della persona.
L’operazione compiuta dal giudice comune non è più dunque quella di scegliere – in base a criteri di competenza, tra diverse disposizioni, che restano ugualmente valide e vigenti nell’ordinamento – quella applicabile al caso.
Piuttosto la disapplicazione consegue al rilievo del contrasto della legge nazionale con valori fondamentali della persona (codificati dalla Carta di Nizza) che, in quanto tutelati anche dalla nostra Carta costituzionale, determinano una situazione di cd. “doppia pregiudizialità” (rispetto alla Carta UE e alla Costituzione nazionale).
Ecco allora che “disapplicare” in queste ipotesi significa per il giudice comune rilevare l’illegittimità della legge, senza però poterla rimuovere dall’ordinamento con una pronuncia – nel nostro ordinamento riservata alla sola Corte costituzionale – valida erga omnes e che abbia effetti vincolanti per il futuro. Formalmente la legge disapplicata, perché contraria a diritti fondamentali della persona, resta vigente nel nostro ordinamento e potrebbe non essere disapplicata da altro giudice sulla base di una diversa valutazione sull’esistenza del contrasto.
Proprio questo rilievo deve ritenersi alla base della recente giurisprudenza costituzionale sulla cd. “doppia pregiudizialità” che, a partire dalla sentenza n. 269 del 2017 per arrivare alle sentenze n. 15 e n. 181 del 2024 e n. 7 del 2025 (solo per citare quelle che ritengo più significative in questa sede di necessaria sintesi), ha finito per ammettere che, in casi di doppia pregiudiziale, il giudice comune possa (anche) sollevare questione di legittimità costituzionale di una legge nazionale per contrasto con norme dell’Unione europea.
Tuttavia, il concorso dei rimedi (disapplicazione e questione di legittimità costituzionale) sembra affidare al giudice comune un margine di discrezionalità nel ricorrere all’uno o all’altro che lo espone (o forse lo “sovraespone”) al sospetto che nella scelta sia orientato da personali valutazioni assiologiche (dunque, latu sensu politiche) e non meramente tecnico-interpretative. Inoltre, questo concorso di rimedi consegna l’ordinamento, nel caso ci si orienti verso la disapplicazione, a una situazione di irrisolta incertezza sulla legittimità della legge.
Proprio il rischio di questa irrisolta incertezza sulla illegittimità della legge aveva significativamente orientato i nostri Padri costituenti a preferire il controllo accentrato di costituzionalità (rispetto a quello diffuso), attribuendolo a un organo particolare (qual è la Corte costituzionale) in cui, pur nella struttura giurisdizionale del giudizio, fosse istituzionalmente presente una componente politica, rappresentata nella particolare selezione dei giudici componenti. In questo modo si assicurava a un tempo il principio di sottoposizione del giudice alla legge e quello di controllo di legittimità dell’operato del legislatore.
Tuttavia, se con la disapplicazione di norme nazionali in contrasto con diritti fondamentali stabiliti dalla Carta di Nizza e dalla Costituzione si consente al giudice comune di formulare larvati giudizi di illegittimità della legge, ecco allora che si traccia una linea di frattura tra principio di sottoposizione del giudice alla legge e controllo accentrato di costituzionalità, aprendo un inedito fronte di contrasto tra giurisdizione comune e politica. E se la scelta di adire la Corte costituzionale o disapplicare direttamente la disposizione di legge non è rigidamente predeterminata inevitabilmente sorgono anche accese polemiche sull’uso della disapplicazione, puntualmente verificatesi in recenti casi di clamore pubblico.
Ecco allora come si vede all’opera la complessità giuridica: incertezza del ruolo di ciascuno con conseguenti accuse di politicizzazione, nei confronti della magistratura, e di insofferenza al controllo di legittimità delle leggi, nei confronti della politica.
4. Diritto giurisprudenziale ed ermeneutica del diritto
Le fattispecie normative astratte non potranno mai esaurire la ricchezza esorbitante della vita. Per questo, anche nei Paesi a diritto legislativo scritto come il nostro, sotto la pressione dei casi sempre “nuovi” sottoposti al giudice, il “diritto giurisprudenziale” avrà sempre un suo spazio, in questa distanza incolmabile tra fatti concreti e descrizioni legali astratte.
Oltre e al di là di ogni disquisizione teorica sulla giurisprudenza come “fonte” di diritto, costituisce acquisizione pratica difficilmente confutabile, sol che si frequenti qualsiasi aula giudiziaria, che con sempre maggiore frequenza la mera conoscenza del testo di legge non è più in alcun modo sufficiente a individuare tutti gli elementi rilevanti per la produzione di effetti giuridici, ma bisogna quasi inevitabilmente attingere alla giurisprudenza e ai precedenti, al “diritto giurisprudenziale” appunto.
Un diritto, cioè, che si forma nella “sovradeterminazione” della fattispecie rispetto al testo di legge che la prevede: ciò vuol dire che gli elementi costitutivi di un effetto giuridico vengono ricavati anche da elementi extra-normativi ed extra-testuali, tratti o dal caso da decidere o da circostanze di sfondo, che finiscono per aggiungersi o specificare quelli legali.
La “teoria ermeneutica del diritto”, in fondo, non ha fatto altro che descrivere questo processo della decisione giudiziaria quale si realizza effettivamente nella pratica.
Il procedimento logico che porta alla decisione, infatti, non è mai riducibile a una mera operazione sussuntiva del fatto concreto nella fattispecie astratta legislativa (in base al cd. “sillogismo giudiziale”), ma si caratterizza invece per quel particolare “andirivieni dello sguardo” in forza del quale il caso concreto guida verso l’individuazione delle disposizioni rilevanti ma, a loro volta, le disposizioni guidano la selezione degli aspetti fattuali che importano per la decisione medesima[3], secondo un percorso circolare (o a spirale per approssimazioni successive).
Ben si comprende, però, come questo rappresenti un fattore di complessità del diritto per i meccanismi non deterministici, ma ricorsivi e circolari che lo caratterizzano. Si tratta di quel minimo di imprevedibilità che connota il diritto sostenendone l’inevitabile dinamismo e che, in ultima analisi, garantisce l’insostituibilità del decisore umano con un decisore artificiale.
Fino a qui nulla di nuovo o di particolarmente allarmante: in realtà si tratta solo di individuare i limiti operativi – che pur sussistono – nell’ambito di questa meccanica circolare e, a questo compito, tradizionalmente ha sempre sopperito la Corte di cassazione nella sua funzione nomofilattica.
Fare la guerra all’ermeneutica del diritto nella misura in cui essa è descrittiva di una struttura immanente al ragionamento giuridico significa fare la guerra ai fatti ed è per questo che la polemica tra positivisti e anti-positivisti[4] rischia di essere tutto sommato sterile nella misura in cui radicalizza la tesi antagonista per criticarla: nessuno, credo, sostiene ormai che il diritto è solo la legge positiva, oppure che il diritto è solo interpretazione (giurisprudenziale).
Entrambe le tesi estreme non possono essere seguite.
Immaginare che un testo esprima un unico significato che andrebbe solo scoperto dall’interprete è tesi ormai inaccettabile alla luce delle acquisizioni della linguistica moderna.
D’altro canto, la stessa corrente ermeneutica è ben consapevole del fatto che “interpretare” un testo è cosa differente dall’“usarlo” per affermare la propria volontà e i valori in cui si crede.
Come efficacemente ha detto Umberto Eco[5], tra l’intentio auctoris (che nel diritto vuol dire l’impossibile ricostruzione della volontà di un legislatore storico, che in realtà spesso si accorda su compromessi testuali proprio in forza della pluralità delle interpretazioni possibili) e l’intentio lectoris (che nel diritto vuol dire affermare esclusivamente la volontà del giudice-interprete consegnandogli, alla Derrida, la possibilità di decostruirlo come desidera) esiste sempre una ricostruibile intentio operis che, a seconda dei “contesti” (in diritto diremmo “sistema”?), consente di individuare quali significati sono attribuibili agli enunciati e quali no: in ciò consiste una aggiornata e più consapevole comprensione del significato profondo del principio di sottomissione del giudice alla legge previsto dall’art. 101 della Costituzione[6].
Le cose iniziano a complicarsi però con l’avvento delle cd. “interpretazioni orientate o conformi” (a Costituzione, al diritto dell’Unione europea o alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali), in cui gli oggetti dell’interpretazione non sono più costituiti da enunciati legislativi (la “legge”), ma da “sentenze” (della Corte costituzionale, della Corte di Giustizia dell’Unione europea o della Corte europea dei diritti dell’uomo).
“Interpretare la legge” non è infatti la stessa cosa che “interpretare una sentenza”.
La sentenza non offre descrizioni di fattispecie (in ultima analisi, cioè, descrizioni di una “classe” cui ricondurre singoli oggetti, i “fatti”), ma “discorsi giustificativi” di un risultato in cui si esprime la decisione, compendiata nel dispositivo[7].
Ciò introduce nuovi e più ampi margini di discrezionalità nella selezione di cosa nel discorso giustificativo assume rilevanza per le decisioni future e, quindi, nuove possibilità di scegliere ciò che convalidi decisioni prese sulla base dei valori che il singolo interprete privilegia, secondo sue personali valutazioni assiologiche (dunque politiche). Tutto ciò produce inevitabilmente un accresciuto tasso di politicizzazione nell’interpretazione della legge, consentito proprio dal rilievo che assumono le sentenze della Corte costituzionale e delle Corti sovranazionali.
Tuttavia, nel caso delle sentenze della Corte costituzionale (anche quelle “manipolative”) o delle sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione europea, il discorso giustificativo si risolve sempre nell’attribuzione di un preciso significato ad enunciati normativi (le “disposizioni” secondo la terminologia crisafulliana e noi diciamo in modo più semplice e approssimativo le “leggi”) e, dunque, queste operazioni risultano sempre inscrivibili (nel modo sopra precisato) al principio di sottoposizione del giudice-interprete alla legge.
Le cose cambiano radicalmente con l’“interpretazione convenzionalmente orientata” perché la giurisprudenza della Corte EDU è ontologicamente e strutturalmente casistica, cioè accertativa di violazioni convenzionali nel singolo caso e, perciò, il singolo fatto concreto gioca sempre un ruolo determinante: per questo la Corte EDU non massima mai le sue sentenze[8].
È pur vero che nelle sentenze “pilota” (formali o sostanziali) si verifica un effetto estensivo, in quanto la violazione derivi dal “diritto vivente” dello Stato (cioè da consolidati orientamenti interpretativi della legge di quello Stato) e quindi produca violazioni seriali determinate da quel “diritto vivente” che deve essere corretto o in via interpretativa (interpretazione convenzionalmente orientata) oppure, se il testo della legge non consente l’attribuzione di significati compatibili con la Convenzione, attraverso l’incidente di legittimità costituzionale.
Tuttavia, l’inesauribile ricchezza di differenze che sussistono da caso a caso – e i conseguenti margini di discrezionalità nell’opera di estrazione del principio dal fatto concreto, che viene da esso necessariamente mediato – determina quel fenomeno che è stato indicato con la suggestiva espressione di “cherry picking”, cioè di scelta dall’albero della Corte EDU della ciliegia (la sentenza) che più ci piace in base al valore che il singolo giudice nazionale interprete vuole privilegiare.
Qui davvero ci troviamo di fronte a un “diritto giurisprudenziale” più tipicamente di cd. common law, che finisce per attribuire al giudice nazionale un ruolo che esso ha certamente nella maggior parte dei sistemi anglosassoni, ma che non gli viene riconosciuto nel nostro ordinamento, che rimane un sistema a diritto legislativo scritto con prescrizioni costituzionali di riserva di legge.
Ciò è sicuramente anche conseguenza di una sorta di egemonia della cultura e del lessico giuridico anglosassone che ha preso piede nella Corte EDU sin dall’inizio del suo operare, ma che ora ci porta verso momenti di tensione con il nostro principio di legalità che finiscono per sovraesporre il giudice comune di fronte alla polemica e all’agone politico, in un ordinamento in cui i criteri selettivi della magistratura e la regolazione costituzionale del suo operare non erano nati per questo.
5. Le trasformazioni dell’idea di democrazia
La crisi dei rapporti tra politica e magistratura innescata dalla complessità del diritto moderno – come sopra ho accennato – è aggravata da un’altra grande trasformazione in atto: quella dell’idea stessa di “democrazia costituzionale” in cui essa si inserisce.
Come noto, l’idea di democrazia costituzionale è quella per la quale la sovranità popolare (che incarna il principio democratico) ha essa stessa dei limiti che deve rispettare. L’idea si afferma soprattutto quale reazione alle degenerazioni totalitaristiche del Novecento, che avevano dimostrato come il consenso popolare ottenuto tramite elezioni e la volontà della maggioranza non avesse storicamente garantito da questo rischio degenerativo.
Non stupisce quindi che, proprio all’uscita da uno di questi grandi totalitarismi, l’idea di democrazia costituzionale sia stata accolta all’art. 1 della nostra Carta fondamentale che, nell’affermare che la sovranità appartiene al popolo, si affretta a precisare che essa deve essere esercitata non solo nelle “forme”, ma anche nei “limiti” stabiliti dalla stessa Carta.
Molto si deve in questo alla riflessione di Costantino Mortati cui, non a caso, deve essere ricondotta anche una delle più importanti riflessioni su quel concetto di “costituzione materiale” che Enrico Scoditti richiama nel suo intervento.
Per Mortati, infatti, i principi fondamentali della Costituzione non sono soltanto un canone di interpretazione, ma costituiscono un canone di osservanza «affidato all’azione delle forze politiche[9]» che trova sviluppo in una visione larga dei limiti materiali della revisione costituzionale – nel senso di riportare il divieto di revisione della “forma repubblicana” ai principi che la informano (quali stabiliti in particolare dagli artt. 2 e 3 della Costituzione) – così da confidare nell’osservanza di tali principi da parte delle forze politiche come condizione irrinunciabile della coerenza complessiva e della tenuta dell’edificio costituzionale[10].
Oggi invece si stanno recuperando – invero a livello globale – istanze che accentuano la legittimazione popolare ottenuta attraverso libere elezioni come fonte di una libertà di governo insofferente ad ogni limite.
Paradossalmente e pur non riflettendone la complessità di pensiero, le attuali affermazioni secondo le quali chi vince le elezioni è libero di governare come gli aggrada, sembra germinare dalle tesi di Joseph Alois Schumpeter[11], secondo cui la democrazia si riduce sostanzialmente a una tecnica istituzionale che condiziona il perseguimento dei “valori” al ricevimento del consenso e riesce a conservare il metodo pacifico di risoluzione dei contrasti solo se accresce l’efficienza sociale delle tecniche di governo, di tal che la sostanza della democrazia finisce per risolversi nel decidere chi debba essere il “leader” che – con i dispositivi del marketing elettorale (oggi aggravato dai mezzi della cd. democrazia “digitale”) – riesce a ottenere la delega assoluta e sostitutiva a decidere, con i corollari della conseguente svalutazione del principio di rappresentanza, di quello proporzionale, del rispetto delle minoranze e del consenso informato sui programmi.
Anche Schumpeter postula un ingrediente valoriale che valga come “costituzione materiale” delle democrazie elettorali, ma sembra individuarlo nel regime proprietario come bene insurrogabile.
Per questo il richiamo di Scoditti alla “costituzione materiale” non mi appare risolutivo e, del resto, lo stesso autore lo presenta come un programma. Si tratta, però, di un cammino di difficile intrapresa, considerata la situazione attuale in cui il disaccordo sui valori fondanti del concetto – un disaccordo che, mi sembra, non abbia neppure il livello teorico di contrapposizione tra i pensatori che ho sopra evocato – si svolge tutto su un livello pratico e contingente ancor più evanescente.
Quello che resta è invece la constatazione che ai profili tensivi tra politica e magistratura – determinati dalla rilevata complessità del diritto moderno – si aggiungono quelli tra maggioranza e minoranze politiche parlamentari e quelli sui poteri che devono essere legittimamente riconosciuti alla maggioranza di Governo nella nostra democrazia costituzionale liberale.
6. Brevi spunti conclusivi per un dialogo sulle riforme
Quali conseguenze sul tema delle riforme si possono trarre dalle superiori considerazioni?
In primo luogo che le riforme costituzionali proposte non affrontano la struttura profonda della crisi, ma si appuntano su alcune strutture superficiali ordinamentali di carattere fortemente simbolico (la separazione delle carriere con duplicazione degli organi di autogoverno, la sottrazione delle competenze disciplinari agli organi di autogoverno e l’utilizzo del metodo del “sorteggio” per sceglierne i componenti), con la conseguenza che, rimasta intatta la struttura profonda della crisi tra politica e magistratura, essa si ripresenterà inevitabilmente. Dunque, bisognerebbe acquisire consapevolezza che le ragioni della crisi sono dovute alla complessità giuridica e che questa, a sua volta, è dovuta a fattori principalmente esogeni rispetto alla magistratura, rimessi alla responsabilità della politica, cui compete la materia dei Trattati, delle Convenzioni, delle cessioni di sovranità e della loro gestione.
Primo punto, dunque, è che la magistratura si trova sovraesposta rispetto alla politica anche in conseguenza degli evidenziati fattori esogeni, sui quali la stessa politica non sembra avere intenzione di intervenire.
In secondo luogo, bisognerebbe riconoscere che i temi ordinamentali di per sé appartengono alla discrezionalità politica se limitati agli aspetti burocratico-formali delle “carriere” e che la “separazione” ordinamentale tra giudice e pubblico ministero è un’opzione non necessaria (come sembra invece sostenere la politica), ma certo possibile in considerazione delle modifiche alla struttura del processo penale introdotte dalle varie riforme che si sono succedute nel tempo e che hanno mutato il quadro che il legislatore costituente aveva presente nel 1948. Bisognerebbe perciò discutere non tanto sul “se” separare, ma sul “perché” e sul “come”.
Infatti, se la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri è dovuta solo all’esigenza di evitare la commistione di funzioni e l’incidenza che il rapporto di colleganza può avere sulla terzietà del giudice, allora bisognerebbe chiedersi (non tanto come magistrati, ma come semplici cittadini) se in presenza di cause di incompatibilità (che impediscono di giudicare a chi in quella causa abbia svolto le funzioni di pubblico ministero in fasi precedenti), in presenza di percentuali irrisorie di passaggi di funzioni e di elevatissime percentuali di difformità delle decisioni rispetto alle richieste dei pubblici ministeri, siano giustificati i costi economici e di appesantimento burocratico dovuti alla duplicazione degli organi di autogoverno e di creazione di un terzo organo (l’Alta Corte disciplinare) e del relativo personale con le relative strutture.
Si tratta di valutazioni di opportunità che, non pertengono alla magistratura in quanto tale, ma al giudizio dei cittadini in termini di responsabilità politica e di eventuale voto referendario sulla riforma costituzionale.
Tuttavia, proprio l’evidente sproporzione tra questi costi e gli obiettivi di cui sopra, porta a chiedersi e chiedere se la rottura addirittura costituzionale del tradizionale principio di unità della magistratura, non sottenda anche alla futura differenziazione delle prerogative e delle garanzie di autonomia e indipendenza del pubblico ministero rispetto al giudice.
Secondo punto, dunque, è discutere quale debba essere il ruolo processuale del pubblico ministero in questo nuovo assetto e in quali termini esso si ponga con il principio di obbligatorietà dell’azione penale – a mio avviso già intaccato nella sua tradizionale impostazione dalla cd. Riforma Cartabia, senza peraltro suscitare grandi commozioni, neppure nella magistratura – perché da questo dipende l’essenza della democrazia come isonomia, cioè uguaglianza di tutti davanti alla legge, e questo potrebbe far parte, seguendo l’impostazione di Mortati, di quella “costituzione materiale” che costituisce limite alla sovranità popolare e su cui il “contributo di competenza” spetta certamente anche alla magistratura come tale.
Quanto al giudizio disciplinare e al metodo del sorteggio, bisognerebbe riconoscere che si tratta di reazioni della politica volte a porre rimedio alle degenerazioni del correntismo attestate da quanto emerso con il cd. “scandalo Palamara”, rispetto alle quali il “cambio di passo”, o la “svolta”, rispetto a quanto avvenuto, si può discutere in che termini vi sia stato, ma quello che è certo è che non è stato “percepito”, percezione decisiva nelle moderne crisi reputazionali.
Tuttavia, se è così, bisogna chiedersi se il “sorteggio” – con tutto quello che comporta in termini di perdita di rappresentatività della magistratura negli organi di autogoverno e in quello che li giudica disciplinarmente (ciò che attiene strettamente all’autonomia e indipendenza, come ben sapevano i nostri Padri costituenti) – sia davvero la soluzione, tenuto anche presente che questo non garantisce affatto che i sorteggiati non facciano parte delle “correnti”.
Terzo punto è, dunque, discutere non solo e non tanto di possibili forme di temperamento del “sorteggio”, quanto e piuttosto se, per evitare i paventati rischi di collateralismo politico all’interno delle correnti, non sia il caso di tornare al tanto vituperato metodo dell’“anzianità temperata” che, in fondo (come riconosciuto anche da autorevoli studiosi), aveva garantito da una eccessiva discrezionalità delle scelte consiliari, dalla temperie di annullamenti delle relative delibere da parte dei giudici amministrativi e aveva limitato il più pericoloso demone che può attraversare la magistratura, il “carrierismo”. Un “carrierismo” ormai imperante che è strettamente connesso alle riforme ordinamentali che lo hanno incoraggiato – nonché al tema della gerarchizzazione degli uffici e della personalizzazione delle funzioni – a tutto detrimento di quel principio cardine (garanzia non solo per la magistratura, ma per chiunque) secondo cui i magistrati non si distinguono tra loro per grado, ma solo per funzioni e che tutti (magistrati e politici) dovremmo forse rileggere e meditare profondamente nell’art. 107 della Costituzione.
[1] “Calcolabilità” e “prevedibilità” sono anch’essi due concetti distinti: il primo attiene alla possibilità di raggiungere il risultato attraverso l’applicazione di regole meccaniche e univoche (dunque, attraverso una procedura algoritimica); il secondo invece presuppone soltanto la convergenza sulla conclusione attraverso la spendita di ragioni condivise e accettate da tutti o dalla comunità di riferimento. Il fatto che il diritto sia incalcolabile attiene all’impossibilità di sostituire decisori umani con decisori artificiali; ma se la calcolabilità implica prevedibilità, l’incalcolabilità non significa che non si possa assicurare una diversa forma di prevedibilità, connessa all’idea che l’esercizio della “ragione discorsiva” (altri direbbe “dialettica”) produca risultati non arbitrari che, quindi, si possono conoscere in anticipo attraverso la condivisione di un comune codice argomentativo.
[2] Più filosoficamente impostato sarebbe il riferimento alla metafora del “rizoma” di Deleuze e Guattari, esposta in Millepiani, 1980, per indicare reti che stabiliscono connessioni tra catene semiotiche, organizzazioni di potere e circostanze sociali, senza un ordine o una coerenza apparente.
[3] Per una efficace rappresentazione v. G. Tuzet, Dover decidere. Diritto, incertezza e ragionamento, Bologna, 2010, p. 52.
[4] Emblematico a questo proposito il confronto tra due recenti libri: G. Zaccaria, Postdiritto, Bologna, 2022 e L. Ferrajoli, Giustizia e politica. Crisi e rifondazione del garantismo penale, Bari-Roma, 2024.
[5] U. Eco, I limiti dell’interpretazione, IV ed., 2004, p. 127 dove ricorre il celebre esempio tratto dal “Codice Rocco”: «c’è nel Codice Rocco un comma che s’intitola ‘Turbata libertà degli incanti’ e posso leggere questo titolo come un incipit poetico, fra rondismo ed ermetismo, sui fremiti di un’adolescenza delusa. Ciò non toglie che le convenzioni linguistiche mi dicano che in quel testo ‘incanti’ vuol dire aste e l’articolo si riferisce alla turbativa d’asta. Ecco la differenza tra uso e interpretazione».
[6] In questa direzione mi sembra si muova efficacemente Mario Barcellona dove ricostruisce la posizione di quanti si sentono “obbligati verso la legge”, un obbligo che si esprime nel dovere di assicurare «la "continuità" con il "senso" proprio della legge e dei suoi sviluppi evolutivi, di tal che le opzioni "politiche" che ad esse si accreditano, sono solo quelle compatibili con ragionamenti sulle virtualità regolative delle norme e sulla direzione verso cui le orienta l’evoluzione delle loro relazioni sistemiche» (M. Barcellona, Norme e prassi giuridiche. Giurisprudenze usurpative e interpretazione funzionale, Modena, 2022, pp.67 e 68).
[7] Peirce parla in questo caso di «interpretante», cioè di un enunciato interpretativo dell’oggetto, che a sua volta deve essere interpretato, innescando un processo di «semiosi illimitata» che gira intorno all’oggetto medesimo (nel nostro caso la legge) in una specie di moto a spirale che vi si avvicina asintoticamente (C. S. Peirce, Collected Papers of Charles Sander Peirce, vol. VIII, paragrafo 332, opera b del 1908, Cambridge 1931-1958): la semiosi è dunque illimitata, ma non arbitraria e, avvicinandosi progressivamente all’oggetto, in realtà diviene sempre più precisa.
[8] Un discorso più ampio e diversificato andrebbe fatto in relazione alle possibilità di chiedere alla Corte EDU pareri consultivi ai sensi del Protocollo addizionale n. 16 alla CEDU: basti però in questa sede accennare al fatto che il parere può essere richiesto solo nel contesto di una causa pendente dinanzi all’autorità nazionale.
[9] C. Mortati, Concetto e limiti del procedimento di revisione costituzionale (1952), in Id., Raccolta di scritti, Milano, 1972, II, 3 ss.
[10] Così P. Ridola, Costantino Mortati, la “costituzione in senso materiale”, la Costituzione repubblicana. Spunti di riflessione, in Nomos. Le attualità del diritto, 3/2023, pp. 1 e ss.
[11] J. A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia, Etas Kompass, 1972 (trad. it. di Id., Capitalism, socialism and democracy, New York - London, 1942).