1. Premessa. Un progetto autoritario di ordine pubblico
Il disegno di legge sicurezza è solo l’ultimo atto in ordine di tempo di un progetto politico-culturale complessivo che punta ad abbandonare i principi del nostro sistema costituzionale, per abbracciarne altri che appartengono alla storia della destra attualmente al governo. Detto in sintesi: allontanarsi da ogni idea di solidarietà, garantismo e tutela dei diritti che è propria della cultura democratico-progressista, per favorire il primato dell’egoismo individuale, del populismo penale e dell’ordine pubblico ideale attorno a cui si struttura la mentalità autoritaria.
Così, da un lato, abbiamo la Costituzione, che vieta la violenza ma legittima il conflitto e la libertà del dissenso come fondamentali requisiti delle democrazie pluraliste; dall’altro, un governo che reprime lo scontro sociale, individuando sempre nuove fattispecie di reato a garanzia di un ordine pubblico ideale. Ciò che non si tollera sono le manifestazioni di critica all’autorità, anche se vengono manifestate con comportamenti non violenti. Passo dopo passo – dal decreto legge anti-rave a disegno di legge sicurezza – si vuole riaffermare il principio della superiorità dello Stato cui i cittadini devono limitarsi a credere e obbedire.
È il potere che tutela il popolo. Ad esso spetta garantire i diritti, stabilire a quali soggetti riconoscere cittadinanza, quali invece escludere, chi sono gli “amici”, quali i “nemici”. È il Governo che deve farsi garante della “difesa dei confini” (come se si fosse in guerra), egli ha il potere di escludere “gli altri”. In questo quadro lo stato di diritto e i vincoli internazionali rappresentano perlopiù un intralcio e, dunque, possono essere messi in discussione. Se poi qualche giudice pretende di farli valere si può sempre urlare al complotto dei giudici comunisti. Il potere non può essere portato a processo esso è legibus solutus. Il principio di autorità prevale su quello di legalità.
2. Decreto anti-rave
In fondo, per cogliere il senso complessivo di questa prospettiva basta elencare alcune delle misure prese dall’attuale Governo sin dal suo esordio. Il primo decreto legge fu emanato per impedire lo svolgimento di un raduno non autorizzato alla periferia di Modena (DL 162 del 2022, convertito in legge n. 199 del 2022). Un rave-party che poi non si tenne, ma che costituì il pretesto per introdurre una serie di misure che volevano dare espressione ad un cambio di passo in materia di ordine pubblico. Appare già significativa l’utilizzazione di uno strumento come il decreto legge per reprimere fenomeni sociali e di costume ritenuti immorali e forieri di atti illeciti per nulla emergenziali, privi dunque di ogni presupposto di straordinaria necessità ed urgenza. Tra l’altro – sia detto per inciso – norme inserite all’interno di un provvedimento omnibus che comprendeva misure del tutto eterogenee (le misure sull’ergastolo ostativo, ad esempio). Nel merito quel che appare il dato di fondo è che non si ritenne più sufficiente l’uso della normativa repressiva già esistente, ma necessaria la creazione di nuove fattispecie criminose, l’introduzione di aggravanti per le ipotesi di reato già previste, l’introduzione di pene esemplari. Tutto ciò a scapito dei principi che si pongono a fondamento del diritto liberal-democratico, di quello penale in specie. Così fanno ingresso nel nostro ordinamento reati indeterminati, definiti in modo del tutto vago dalla norma incriminatrice. Nel testo del decreto legge (poi modificato in sede di conversione) si faceva infatti generico riferimento all’«invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica, commessa da un numero di persone superiore a cinquanta». Una formulazione così ambigua che poteva ben essere applicata ad ogni manifestazione di protesta che vedesse radunarsi più di cinquanta persone, volando platealmente l’articolo 17 della Costituzione. Anche del tutto sproporzionata appare l’entità della pena: da tre a sei anni che va a colpire gli organizzatori, i promotori e che, nella stesura originaria del decreto, ricomprendeva persino i semplici partecipanti a tali raduni. Un massimo edittale della pena (sei anni) che rende altresì possibile le intercettazioni di chiunque organizzi tali raduni. Una misura preventiva che dovrebbe essere riservata per indagare ipotesi di reato di grande allarme sociale e non gli organizzatori di manifestazioni ludiche, per quanto ritenute pericolose per la salute e l’incolumità pubblica. Una criminalizzazione generalizzata ed esemplare che bene esprimono la volontà esclusivamente repressiva nei confronti di fenomeni sociali e di costume non condivisi.
Si è già accennato al fatto che, in sede di conversione, sono state espunte alcune delle previsioni più critiche. Se da un lato ciò non può che essere valutato positivamente, dall’altro può essere indicato come un elemento che dimostra la natura simbolica che si vuole assegnare alla svolta rigorista: più che il merito conta mandare un messaggio al paese, in base al quale l’attuale maggioranza non tollererà più certe pratiche o comportamenti giovanili. Che poi la materia oggetto reale del provvedimento – la repressione dei rave-party – sia del tutto inconsistente o marginale non ha grande rilievo.
3. Decreto Cutro
Anche dopo la tragedia di un naufragio che ha visto un centinaio di persone migranti morire a poche centinaia di metri dalla costa del comune di Cutro in Calabria, anche a causa delle carenze se non omissioni nell’attività di soccorso, che ha provocato l’apertura di un’indagine da parte della procura delle Repubblica, la reazione del Governo è stata espressione assai significativa di un cambiamento di paradigma. Non più una umana pietà e solidarietà nei confronti delle vittime, ma un richiamo alle ragioni di ordine pubblico ideale e alla via repressiva come risposta immediata a fenomeni e comportamenti ritenuti hors-la-loi. Da un lato, infatti, venne affermato che nulla (evidentemente neppure l’umana pietà) poteva «mai giustificare viaggi che mettono in pericolo i propri figli» (così il Ministro dell’Interno); dall’altro venne emanato - simbolicamente con una riunione del Consiglio dei Ministri svolta proprio nel luogo della tragedia, a Cutro – il decreto-legge n. 20 del 2023, successivamente convertito in legge n. 50 del 2023, che inaspriva le pene e la complessiva regolamentazione della normativa in materia di immigrazione. Anche in questo caso, dunque, il riflesso di fronte a fenomeni sociali complessi che coinvolgono i diritti fondamentali è stato quello di utilizzare la via repressiva, con misure limitative nella regolazione dei flussi, innalzamento di pene, l’introduzione di nuove procedure accelerate per le domande avanzate da richiedenti provenienti da “paesi sicuri”, con la esplicita finalità di provvedere nei tempi più rapini al reimpatrio. Procedure che – com’è noto – sono ora al vaglio dei giudici europei e fortemente ostacolate dalla giurisprudenza soprattutto per l’aspetto indeterminato se non contraddittorio della qualificazione di “paese sicuro” tramite un atto del Governo (a seguito dell’approvazione del decreto-legge n. 158 del 2024 la definizione è effettuata con un atto avente forza di legge, ma senza per questo aver voluto mutare la ratio, né aver risolto i problemi circa la valutazione in concreto della “sicurezza” del paese cui si richiede il reimpatrio). In effetti la pretesa che sia il Governo, con un atto di natura politica, legato essenzialmente agli accordi di reimpatrio con i diversi paesi di provenienza dei migranti, a prevalere sull’accertamento effettuato dai giuridici nei singoli casi appare espressione di una chiara visione, seconda la quale la ragion di stato prevale sull’effettività nella tutela dei diritti. Prospettiva assai distante da quella costituzionale che rende indisponibili al potere politico i diritti inviolabili delle persone. Per fortuna la nuova normativa approvata a Cutro definisce solo una “procedura accelerata” per l’esame del diritto d’asilo, non la cancellazione ovvero il venir meno di ogni garanzia a tutela dei diritti fondamentali dei migranti. È così che la salvaguardia dell’effettività dei diritti si è trasferita nelle aule giudiziarie, provocando una forte incertezza e una estesa conflittualità tra le ragioni del diritto costituzionale e le pretese di chiusura ed espulsione dal nostro territorio di chiunque varchi irregolarmente i nostri confini.
La pretesa ideologica delle misure adottate si deduce ancor meglio se si considera la creazione di nuove fattispecie di reato, anche se spesso si tratta di ipotesi irreali, di natura puramente simboliche e decisamente velleitarie. Basta qui pensare a quella forma di “reato universale” che tende a punire secondo la legge italiana reati di immigrazione clandestina che producano morte o lesioni anche se tali atti o comportamenti si verificano al di fuori del territorio nazionale. Indicazione non solo carente dei presupposti stessi affinché sia accolta dal diritto internazionale (doppia incriminazione, riconoscimento generalizzato, gravità delle fattispecie, territorialità), ma non ha neppure impedito la liberazione e il reimpatrio di un presunto torturatore libico arrestato nel nostro territorio, su richiesta della Corte Penale Internazionale (il caso Almasri). Ancora una volta a dimostrazione della prevalenza della ragione politica sul rispetto delle regole di diritto, di quello internazionale in quest’ultimo caso cui il nostro Paese si è obbligato sottoscrivendo il Trattato di Roma.
A fronte di tali previsioni di natura propagandistica se ne collega un’altra di carattere indeterminato. Ci si riferisce a quella nuova fattispecie di reato che prevede la reclusione da venti a trenta anni per chiunque effettua «in qualunque modo» il trasporto di stranieri procurandone illegalmente l’ingresso se dal fatto deriva, quale conseguenza non voluta, la morte di più persone. Una fattispecie di tale genericità che non può escludere che possa riguardare persino le imbarcazioni che soccorrono i naufraghi, qualora, nelle situazioni più critiche, si verifichi «quale conseguenza non voluta» la perdita di vite umane.
4. Decreto Caivano
I fatti di Caivano sono all’origine del terzo tassello del mosaico che viene a comporsi e che da forma alla nuova concezione securitaria. In questo caso di fronte ad una situazione di degrado che aveva già portato ad inasprimenti e controlli da parte delle forze dell’ordine per reprimere fatti di criminalità e violenze nel territorio perpetrati anche da minori, il Governo è indotto ad emanare l’ennesimo decreto legge n. 123 del 2023, convertito con modifiche in legge n. 159 del 2023. Questo provvedimento ha ad oggetto specifico il contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa e alla criminalità minorile. Ci si potrebbe aspettare che almeno in questo caso ci si sia concentrati su misure di prevenzione e di natura sociale, con l’intenzione di superare le cause che determinano i fenomeni patologici e criminali giovanili. E invece si inaspriscono le pene, si creano nuovi reati, si applicano ai minori le misure di sicurezza riservate ai maggiorenni. Così, ad esempio, si estende il Daspo (il divieto di accesso alle aree urbane a fini di tutela del decoro e della sicurezza della città) anche ai minori, includendo tra i luoghi dove può porsi il divieto di accesso anche le scuole o le sedi universitarie. Si allontanano i minori ritenuti potenziali criminali o spacciatori dagli spazi pubblici pensando così di poter contrastare efficacemente una questione o comportamenti sociali diffusi. Come sopra anziché pensare a contrastare le cause ci si limita a reprimere i comportamenti.
Anche nei delicatissimi rapporti educativi e familiari l’approccio è esclusivamente quello punitivo. Si responsabilizza la potestà genitoriale, punendo con una pena fino a due anni di reclusione l’abbandono scolastico dei figli minori e la revoca dell’assegno di inclusione, senza occuparsi in alcun modo della situazione di degrado sociale (e non solo familiare) che si pone a fondamento dei comportamenti devianti. La normativa sembra sottendere che, in fondo, è responsabilità della famiglia, non certo della società, se i giovani tengono condotte illecite. Forse se si fosse pensato ad introdurre oltre alle misure repressive anche alcune misure di assistenza, di incremento dei servizi sociali, di educazione si sarebbe potuto avere una diversa approccio, meno ideologicamente orientato alle ragioni esclusivamente d’ordine e più attento ai principi fondamentali che la nostra costituzione impone alla Repubblica. Di fronte al disagio giovanile, ci si sarebbe dovuti richiamare, anzitutto, all’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale; inoltre, si sarebbero dovuti attivare tutte le iniziative per poter assolvere al compito imposto alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana.
5. Disegno di legge sicurezza: un manifesto politico culturale
Ma è nell’ultimo disegno di legge – non a caso denominato “sicurezza” – che si delinea nel modo più compiuto la direzione di marcia. In esso si delinea un vero e proprio “manifesto” del pensiero politico-culturale della destra al governo. Un sistema ispirato al diritto penale illiberale che è proprio della tradizione della destra storica. Basta passare in rassegna alcune delle misure contenute per intendere lo spirito che lo attraversa.
5.1. Daspo urbano
Se la legalità ordinaria è considerata un ostacolo e il potere dei giudici un intralcio per la tutela dell’ordine pubblico, si comprende come diventi necessario trovare altri soggetti che siano in grado di garantire il decoro della città. Naturale diventa guardare alle autorità di pubblica sicurezza, aumentando i casi in cui queste possono applicare misure preventive limitative della libertà personale e di circolazione. Lo strumento già collaudato è il c.d. Daspo urbano che, dopo il decreto Caivano si estendeva anche ai minori, e che ora possono colpire chiunque sia stato anche solo denunciato per reati contro la persona o il patrimonio senza bisogno di una valutazione in concreto di “pericolosità sociale”. Come si possa conciliare questo con quanto stabilisce la nostra costituzione agli articoli 13 e 25 è un mistero.
5.2 Blocchi stradali e grandi opere
Le misure assunte per assicurare la libera circolazione a scapito del diritto di manifestare sono ancor più esemplari. Già da tempo sono previste misure per contrastare i blocchi stradali, soprattutto quando questi determinano interruzioni di pubblico servizio. Ora, in odio agli “eco-attivisti”, si punisce qualsiasi blocco stradale, aggravato se posto in essere «con il proprio corpo». Invece, è in odio ai No-Tav o per il timore che si possa contestare la costruzione del Ponte sullo stretto che si prevede una specifica aggravante qualora le azioni di contrasto siano rivolte ad impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura strategica. C’è da chiedersi cosa rimanga della libertà di riunione e di manifestazione del pensiero.
5.3 Terrorismo
Anche le misure assunte in materia di terrorismo appaiono allontanarsi dai principi propri del diritto penale liberale. Non basta più, infatti, la norma che già punisce «comportamenti univocamente finalizzati alla commissione di condotte con finalità di terrorismo» (art. 270 quinquies c.p.), ora si punisce anche chi si procura o detiene materiale potenzialmente idonei a compiere atti di terrorismo. Un diritto penale di prevenzione di assai dubbia efficacia, ma di sicuro impatto simbolico.
5.4 Occupazioni di immobili
Sulle occupazioni abusive si esprime il massimo della forzatura ideologica. Si prescinde infatti del tutto dal considerare le condizioni reali di disagio che possono portare a occupare immobili, magri abandonati al degrado e di utilizzo pubblico. Si equiparano queste situazioni a quelle – già ora ovviamente penalmente rilevanti – di chi approfitta dell’assenza momentanea del legittimo proprietario per insediarsi in appartamenti altrui (secondo l’icona televisiva della vecchietta che esce per far la spesa e al suo ritorno trova la casa occupata). Si riduce un dramma – quello della carenza abitativa e dell’ineffettività del diritto alla casa – ad una farsa ovvero ad una nube di fumo che tutto equipara. Lo dimostra non solo l’assenza di misure di contrasto alla carenza abitativa, ma anche l’estensione delle pene previste (sino a sette anni!) a chiunque cooperi nell’occupazione. Introducendo così il “reato di solidarietà”. Nessuno potrà più sostenere chi è in situazione di disagio estremo: chi vive in alloggi occupati deve essere lasciato al suo destino e guai a chi si vuol far carico dei bisogni primari dei diseredati. Verrebbe da chiedersi se anche il Papa sarà incriminato, visto che ha espresso in più occasioni solidarietà e il suo “elemosiniere” si è spinto persino a riattaccare la corrente ad un palazzo occupato.
Anche la previsione che esclude la punibilità nel caso in cui l’occupante “collabori all’accertamento dei fatti e ottemperi volontariamente all’ordine di rilascio dell’immobile” esprime in modo esemplare uno specifico indirizzo repressivo. Gli occupanti trattati alla stregua di “terroristi”, cui sembra estendersi la normativa in materia dei pentiti: se collabori con la giustizia avrai il premio che in questo caso si conforma come causa di non punibilità. È poi la “collaborazione” richiesta che inquieta. Si presume che l’occupante non solo si penta dall’aver preteso di abitare in un immobile non di sua proprietà, ma anche che denunci i suoi sodali. Cos’altro può infatti significare la richiesta di chiarire lo svolgimento dei fatti che hanno portato all’occupazione illegittima ed ora così gravemente punita? Una cultura della delazione che viene utilizzata per dividere e rompere il fronte di solidarietà che sostiene le esperienze delle occupazioni delle case.
5.5 Carceri, Cpr e Cas
La prigione, si sa, è stata in passato a lungo considerato un’istituzione totale, disumana e finalizzata ad umiliare la dignità delle persone recluse. La nostra Costituzione dispone, invece, che anche chi deve scontare una pena sia trattato con senso di umanità, nel rispetto dei diritti fondamentali di ogni persona e che il fine della reclusione sia quello della rieducazione del condannato. Le nuove misure introdotte dal ddl sicurezza ci fanno fare grossi passi verso la ricomparsa del primo dei due modelli richiamati: un ritorno al carcere come luogo di alienazione disumanizzante. Lo dimostrano due misure selvagge.
La prima cancella il differimento obbligatorio del carcere per le donne incinte o le madri con figli sino ad un anno. Si esige che il carcere travolga tutto, i rapporti familiari e in particolare quello dell’infante. “L’interesse superiore del minore” che è il principio che informa la normativa di tutti i paesi che si ritengono civili cede il passo di fronte ad una visione che non rispetta nessuno, neppure i diritti di chi non solo non ha colpe ma è pure in culla. Innocenti come vittime: “danni collaterali” si dirà, utilizzando l’osceno linguaggio bellico ormai in uso.
L’altra misura punisce chiunque all’interno delle strutture carcerarie si oppone ad un ordine di un agente di polizia, opponendo una resistenza passiva. Anche in questo caso mettendo sullo stesso piano il comportamento di chi rifiuta di sottostare ad un comando – magari illegittimo – e chi partecipa ad una rivolta mediante atti di violenza o minaccia (ipotesi quest’ultime già sanzionate e che non avevano bisogno di essere ulteriormente regolate). È stata definita la norma “anti Gandhi”: ed in effetti oggi c’è da temere che Gandhi sarebbe in carcere a scontare la sua pena.
Che poi analogo trattamento sia previsto nei confronti delle persone migranti trattenute nei CPR o nei CAS non può certo stupire. La paura nei confronti dello straniero – “nemico” in via di principio – non prevede il rispetto dei diritti di persone che non hanno commesso reati, ma sono ugualmente costretti in centri assai spesso peggiori delle carceri. A dimostrazione della “minorità” dei migranti v’è pure l’ultima misura introdotta nel disegno di legge sicurezza che vieta di vendere le SIM a chi non possiede il permesso di soggiorno. Prima ancora che incostituzionale è una previsione surreale. Chi può pensare possa funzionare? Impedire di comunicare al tempo di internet è come voler tornare nella preistoria. In fondo, forse, è proprio questa la direzione di marcia.
5.6 Armi agenti di pubblica sicurezza
Un grande passo indietro è anche permettere agli agenti di pubblica sicurezza di portare le armi senza licenza quando non sono in servizio. In questo caso più che all’età della pietra si guarda alla cultura del Far West. La libertà dei singoli è rinchiusa nella fondina della pistola.
5.7 Obblighi e convenzioni con i sevizi segreti
Concludo questa rapida analisi del ddl sicurezza con quella che appare la misura ideologicamente più devastante. L’obbligo cui sono tenute le pubbliche amministrazioni, le società a partecipazione o controllo pubblico, i soggetti che erogano servizi di pubblica autorità di collaborare e assistere i servizi segreti per indefinite ragioni di tutela della sicurezza nazionale. Convenzioni che possono anche essere stipulate con le Università e con gli enti di ricerca. Accordi che possono prevedere «la comunicazione di informazioni (…) anche in deroga alle normative di settore in materia di riservatezza». Dunque, si deve dedurre che si rende possibile, se non doveroso, trasmettere informazioni “riservate” (sui comportamenti tenuti o le opinioni manifestate) da parte dei fruitori dei servizi pubblici. Nel caso delle università persino inerenti alla ricerca o alla cultura di docenti e studenti. Il grande fratello è in agguato, la libertà di opinione invece è in pericolo.
Il presente articolo costituisce anticipazione del numero di Questione giustizia trimestrale, di prossima pubblicazione, dedicato al diritto penale del governo della destra. Il contributo è stato chiuso prima della trasformazione del d.d.l. in d.l.