La riforma della giustizia la vuole il popolo, ripetono Carlo Nordio e Giorgia Meloni, alludendo non agli uffici giudiziari dissestati, alle carenze degli organici dei magistrati e dei cancellieri, alla lunghezza dei processi, cose alle quali la generalità dei cittadini vorrebbe che si ponesse rimedio. Alludono invece a una modifica della Costituzione che, insieme alla distinzione delle carriere di giudici e pubblici ministeri, preveda di conseguenza non uno ma due consigli superiori della magistratura, con composizione rinnovata rispetto all’attuale equilibrata previsione e la scelta per sorteggio dei loro componenti.
Davvero il popolo vuole questo? O è un obiettivo politico delle destre? Che da sempre lamentano l’esistenza delle “correnti” di magistrati, e che da qualche tempo hanno messo fra gli obiettivi da raggiungere non tanto una separazione delle carriere che nei fatti già c’è (si contano sulle dita di una mano gli spostamenti, ogni anno, da una funzione a un’altra, resi difficili da specifiche norme), bensì un consiglio superiore dei pubblici ministeri facilmente condizionabile in considerazione delle proprie esigenze. Si tratta solo di fantasie come dice Nordio? O, addirittura, di una misura che potrebbe rilevarsi ancora insufficiente rispetto agli obiettivi governativi? Questo dubbio attraversa la maggioranza, se è vero che un sottosegretario alla giustizia, Andrea Delmastro, autorevole esponente di Fratelli d’Italia, ha definito l’operazione governativa sul pubblico ministero «un errore strategico», che non risolve davvero i problemi. Infatti, a suo giudizio, il Pm, «con un suo Csm che gli garantirà sostanzialmente tutti i privilegi, ancor prima di divorare i politici andrà a divorare i giudici». Delmastro dovrà chiarire il suo pensiero, perché le cose fin qui espresse appaiono molto confuse, salvo una. «O si va fino in fondo e si porta il pm sotto l’esecutivo, come avviene in tanti paesi, oppure gli si toglie il potere di impulso alle indagini». Ma c’è anche chi auspica l’istituzione di un “tavolo di confronto preventivo” fra corte di cassazione e governo per individuare linee comuni per la tutela di determinati interessi.
Una recente clamorosa vicenda, quella del poliziotto libico Najem Almasri, dimostra quali siano le logiche che muovono il governo e chiarisce anche la direzione nella quale ci stiamo muovendo. Vale la pena di ricordarla, perché il caso sta passando nel dimenticatoio. La scarcerazione di Almasri, capo della polizia libica condannato dalla Corte penale europea per numerosi e gravi delitti ai danni di migranti sequestrati nei lager del suo paese, è stata disposta dai giudici della Corte d’appello di Roma per un vizio procedurale. Questo vizio era sanabile dal ministro della giustizia italiano, che avrebbe potuto chiedere il rinnovo della misura cautelare. Carlo Nordio, tempestivamente interpellato, ha letto le carte - anche se erano scritte in inglese, si è lamentato - ma si è ben guardato dall’attivarsi. Non ha neppure risposto alla richiesta inoltratagli dal procuratore generale di Roma, così evidenziando la volontà del governo di contrapporsi alle decisioni della Corte Penale Internazionale. L’imputato è stato di conseguenza liberato (e trasportato al suo paese con un aereo di Stato), e i rapporti fra l’Italia e la Libia non hanno subito pregiudizi.
La storia non è però finita qui, anche se da sola è sufficiente a evidenziare l’atteggiamento del governo verso le sentenze e le richieste dei magistrati, europei o italiani. Perché il procuratore della Repubblica di Roma ha doverosamente trasmesso al tribunale dei ministri una denuncia presentata da un autorevole avvocato italiano contro la presidente del consiglio, Carlo Nordio, Matteo Piantedosi e Alfredo Mantovano per aver essi aiutato l’imputato Almasri a sottrarsi al mandato di cattura disposto dalla Corte Internazionale. Nelle ore successive il procuratore, che pure aveva semplicemente applicato la legge, è stato costretto a subire una dura aggressione dalle destre italiane, con in prime fila proprio la presidente del consiglio. Giorgia Meloni, infatti, ha sventolato sui social e in TV la lettera di trasmissione del procuratore, prima definendola un avviso di garanzia, poi scambiando un atto “dovuto” per un atto invece “voluto”, e ha indicato il denunciante come l’avvocato di alcuni mafiosi, dimenticando che lo stesso era stato anche il difensore della famiglia Calabresi e, in passato, parlamentare di Di Pietro e sottosegretario di un governo centrista di coalizione. Insomma, il procuratore della Repubblica per far contento il governo avrebbe dovuto gettare la denuncia in un cestino.
Tutto questo evidenzia in modo chiarissimo il futuro verso il quale stiamo andando. Cosa può avvenire per fermare questa tendenza?