Il percorso che mira a migliorare l’efficacia dell’azione giudiziaria si sostanzia dell’impegno generoso di alcuni operatori del diritto più sensibili ai temi organizzativi del loro lavoro, disposti ad interrogarsi, confrontarsi e quindi modificare quanto possa garantire (nel rispetto dello statuto dato, talvolta ritenuto, non a torto, fattore di dis-organizzazione, in relazione ai molteplici vincoli ordinamentali che riguardano la magistratura, cfr. V. PACILEO, Pubblico Ministero, Torino, 2011, 315) il miglior assetto della giurisdizione.
La spinta all’innovazione, motore di molte e meritorie iniziative trova tuttavia ostacolo in coloro che, anche di fronte a regole condivise per la semplice organizzazione dell’udienza, invocano, refrattari all’uniformità, un mal riposto senso dell’autonomia ed indipendenza che non pertiene, invece, queste situazioni.
Sembra ancora viva - nonostante l’innegabile mutazione che ha interessato la magistratura nell’arco degli ultimi venti anni - la tentazione di effettuare una (errata) equazione tra autonomia nell’esercizio della giurisdizione ed indipendenza (rectius, anarchia) nell’assumere moduli organizzativi individuali nell’ambito dell’ufficio giudiziario.
Nel panorama, variegato e composito come il nostro Paese è capace di offrire, gli ambiti della giustizia civile e lavoristica rappresentano terreni fecondi nella riflessione ed elaborazione di analisi, soluzioni e proposte circa la strutturazione razionale del lavoro giurisdizionale.
La situazione è sfaccettata e, come spesso accade, eterogenea: da un lato, settori della giustizia maggiormente coinvolti nel processo di innovazione organizzativa, dall’altro, sedi giudiziarie che, più di altre, hanno manifestato interesse, attitudine e volontà nell’elaborare metodiche finalizzate ad un miglior assetto degli uffici e, quindi, della risposta giudiziaria.
Tra le molte sedi giudiziarie, gli uffici torinesi vantano, in termini di impegno sul fronte organizzativo, una tradizione che si è progressivamente consolidata nel tempo ed ha pure suscitato l’attenzione scientifica di alcuni economisti che, in una ricerca di qualche tempo fa (COVIELLO, ICHINO, PERSICO, “Giudici in affanno”, 2009), raffrontando le performance tra due uffici di tribunale, sezione lavoro, ha rilevato, a parità di condizioni (sono stati esaminati serie di parametri che garantiscono l’uniformità delle coordinate di analisi), la maggior rapidità nella definizione di casi per la corte subalpina.
Nell’interessante prospettiva, i ricercatori hanno affermato che, a differenziare ed incidere positivamente sulla durata dei processi, gioca un ruolo determinante quello che, con espressione sintetica, possiamo definire il case management.
In sintesi ed accettando il rischio di banalizzare il contenuto del lavoro: quando il magistrato gestisce i processi del proprio ruolo in parallelo – cioè, per esemplificare, facendo progredire contemporaneamente un determinato numero di casi - il controllo sul relativo ruolo, come è intuitivo, si rivela piuttosto difficile ed a discapito, in definitiva, della tempestività nella risposta decisoria.
Quando i processi sono invece gestiti in sequenza (un minor numero di processi contemporaneamente aperti sul ruolo, con relativa chiusura dei casi, volta per volta) la possibilità di concentrazione sulla singola causa si rivela più agevole e si traduce quindi in una più rapida risoluzione giudiziaria, garantendo il contenimento dei tempi processuali secondo un paradigma (maggiormente) in linea con il giusto processo.
L’ufficio torinese, in virtù di tale impostazione, ha dimostrato (per il periodo di tempo oggetto di ricerca) di garantire la pronuncia di decisioni in tempi più contenuti rispetto all’ufficio tertium comparationis.
L’elaborazione e l’adozione del protocollo concordato tra gli operatori (avvocati e magistrati) della sezione gius-lavoristica del tribunale di Torino si pone nel solco di un percorso che si traduce, anche nel presente, in azioni ad ampio spettro (si pensi, con riferimento al settore penale, a quanto previsto nell’ambito della Relazione del Presidente della Corte d’Appello di Torino in occasione della inaugurazione dell’Anno Giudiziario 2014, che si prefigge l’adozione, anche in tale settore per il quale è opzionale, del Programma di gestione dell’arretrato ai sensi dell’art. 37 D.L. n. 98/11 per l’anno 2014 – cfr. pag. 60, Relazione sul sito www.giustiziapiemonte.it) e sintomatiche della sensibilità con la quale i temi organizzativi vengono trattati nel distretto.
Raffrontato ai numerosi protocolli che, in varie realtà giudiziarie italiane sono stati convenuti e vengono osservati (tra i molti, cfr. “Protocollo per le udienze della Corte d’Appello di Venezia, Sezione Lavoro”, del settembre 2010, in www.ordineavvocativenezia.net), quello adottato presso la sezione lavoro del tribunale di Torino non riguarda, come di regola accade, la (mera) regolamentazione dell’attività d’udienza.
Il documento torinese si occupa di regolare questioni che potremmo definire, con un ossimoro suggestivo, merito processuale, riprendendo ed ampliando temi che vengono sistematizzati già nel “Protocollo per i processi del lavoro” (giugno 2011) a cura della AGI (Associazione giuslavoristi italiani), pubblicato sul sito www.giuslavoristi.it .
Premesso che l’esigenza di concordare, avvocati e magistrati, una serie di modalità nello svolgimento dell’attività giudiziaria origina dalla convinzione che la giustizia, servizio reso alla collettività (e solo in quanto tale, esercizio di un potere dello Stato), presenti ampi margini di miglioramento delle sue performance, ci si è mossi secondo differenti linee e livelli di azione.
La lettura dei molti esempi di protocollo, adottati di concerto in numerosi uffici nazionali rende evidente che, nella quasi totalità dei casi, ci si occupa di disciplinare gli orari di udienza, la scansione delle sue fasi, l’informazione, rivolta alle parti, del ruolo dell’udienza (con determinazione, in alcuni casi, dei precisi tempi di anticipazione dell’informazione, rispetto agli interessati), le modalità della verbalizzazione, la precedenza, nel ruolo d’udienza, accordata a processi con imputati detenuti.
Una serie di accorgimenti finalizzati ad assicurare, verrebbe da dire, la razionalità minima del sistema, confidando nella (non scontata) promessa di reciproca collaborazione tra tutti gli operatori, protagonisti della scena processuale.
Anche soltanto per inciso, merita ricordare che il patrimonio valoriale della comunità di pratica (cfr. M. FERRANTE – S. ZAN, Il fenomeno organizzativo, Roma, 1994; D. PIANA, Magistrati, Bologna, 2010) – composta, cioè, da tutti gli operatori del diritto – consente, ove adeguatamente valorizzato, di ottenere risultati importanti, proprio favorendo la presa di coscienza (comune) circa la possibilità che, aggregando le relative forze e competenze possano essere raggiunti risultati per tutti (in primis, per la collettività) soddisfacenti.
Relazioni, collaborazione, costante (quindi: non episodica e frammentaria) interazione ed impegno condiviso sono le componenti, tanto indispensabili, quanto rare, per una rinnovata attitudine del sistema giudiziario ad attuare diritti, secondo le sempre crescenti e più raffinate richieste di una società in rapida trasformazione.
Ciò detto, il protocollo che commentiamo non si limita ad affrontare e disciplinare la gestione delle attività processuali né, come talvolta avviene, a ribadire regole già imposte per legge: valga, come esemplificazione di quanto già dovuto per legge, la regola ridondante (che si ritrova in alcuni protocolli) secondo cui “giudice, P.M., difensori, in udienza sono tenuti ad indossare la toga”.
Diversamente, si potrebbe pensare di utilizzare i protocolli, onde garantire, per esempio, una tempistica conforme ai principi del giusto processo, prevedendo la calendarizzazione della sequenza di udienze che il giudice va a svolgere, in quanto noto è il disservizio che può annidarsi nel mancato governo dei complessivi tempi processuali.
Deve notarsi che, già nell’ambito della Convezione dei Diritti dell’Uomo del 1950 (art. 6) era stata prevista la durata ragionevole del processo ma, oggi, si tratta di regola ineludibile, in quanto espressamente previsto dall’art. 111 della Costituzione di cui ogni magistrato non può quindi ignorare l’esistenza.
E’ banale – ma il deficit, ancora profondo, di sensibilità e capacità organizzative impongono di ripeterlo – che una sentenza (penale e civile), pronunciata a distanza di anni dall’azione e seconda una tempistica imprevista ed imprevedibile, non si ponga in linea di compatibilità rispetto al paradigma del giusto processo.
Le regole del protocollo adottato dalla corte subalpina hanno l’ambizione – che merita condivisione e plauso – di mirare all’adozione di condotte che perseguano, mediante accorgimenti processuali, l’obiettivo di una migliore qualità della decisione giudiziaria.
A tal fine, la disciplina significativamente si espande verso aspetti di merito processuale, che evidenziano la volontà di assicurare (non solo) il buon governo dell’udienza ma, soprattutto, l’impegno ad ottenere, attraverso il rispetto di regole nella redazione degli atti processuali di parte, nelle allegazioni documentali, nella collaborazione informativa tra operatori, decisioni più celeri e di migliore qualità.
Notoriamente, nella giurisdizione civile e del lavoro in particolare si pone il problema della pluralità di ricorsi ad oggetto la medesima questione (si tratta delle cd. cause seriali).
Ebbene, il protocollo (frutto di una spiccata sensibilità anche nell’avvocatura) stabilisce che, ove non sia possibile, per i legali, depositare un ricorso unico (opzione prima) a fronte di più lavoratori che propongano la medesima questione, comunque dovrà essere segnalata l’identità di questioni, all’atto del deposito dei ricorsi, affinchè essi vengano assegnati allo stesso giudice, con evidente sinergia processuale.
Si suggerisce anche – definendolo “obiettivo condiviso” , espressione che richiama la comunità di pratica ed il suo patrimonio culturale – di ridurre la lunghezza degli atti processuali (anche in considerazione dell’incombente appuntamento, per il giugno 2014, con il processo civile telematico), avendo pure attenzione alla relativa tecnica redazionale (nell’ottica, ancora una volta, di sintesi, razionale strumentalità rispetto alla decisione), alla allegazione di documenti (anche per l’accertamento della costituzione delle parti), e, infine, alla descrizione trasparente e ragionata dei conteggi delle spettanze retributive.
Si tratta, quindi, di richiamare alla sensibilità professionale chi opera nell’ambito della giurisdizione, nella convinzione che fenomeni ricorrenti (e stigmatizzati dalla giurisprudenza) quali l’abuso del diritto e del processo, meritino di essere contrastati attraverso una accurata azione preventiva, ove, grazie all’impiego di leve culturali, si lavori per costruire una comune competenza ed attitudine professionale ispirata al fair play.
In disparte gli accorgimenti (peraltro di indubbia utilità) per avvisare il magistrato dei possibili ritardi di avvocati impegnati in altra udienza, si segnalano, ancora, le questioni, di natura sostanziale, relative alla concessione di decreto ingiuntivo in caso di prova documentale del rapporto di lavoro e della sua durata, della definibilità delle cause contumaciali sulla base soltanto di documenti ovvero di interrogatorio formale, della opportunità (con relativo impegno da parte della corte) di rendere effettiva la sommarietà dell’istruzione nelle cause di licenziamento con rito “Fornero”.
Insomma, una serie di regole che, in quanto maturate in un clima di condivisione, rispetto dei reciproci ruoli, implicito riconoscimento delle competenze rispettive e della natura di servizio della giurisdizione, segnano uno snodo importante verso la definitiva consapevolezza della necessità di affrontare laicamente e pragmaticamente i problemi della giurisdizione.
Il percorso, segnato di molte e significative tappe, è ancora in atto ed il segnale di chiara razionalità che il protocollo torinese emana, rinfranca tutti coloro che sperano e lavorano per il completamento del faticoso itinerario.