Dopo la perdita di Pierluigi Onorato, oggi ricordiamo con affetto e gratitudine Luigi De Marco, che è venuto a mancare, dopo una lunga e feconda vita (avrebbe compiuto 100 anni il 23 maggio prossimo).
I giovani ovviamente non l’hanno conosciuto (è entrato in magistratura nel 1947 e ha concluso la sua esperienza professionale come presidente della corte d’appello di Bari), ma è stato una presenza importante e un punto di riferimento non solo per la mia generazione, ma per tutta la magistratura e per Magistratura democratica, alla cui fondazione (al collegio Irnerio di Bologna il 4 luglio 1964) partecipò, con ruolo rilevante assieme Riccardo Pacifici, essendo stati entrambi tra i più attivi protagonisti della prima consiliatura (1959-1963) del Consiglio superiore della magistratura.
Fu eletto alla presidenza di Md nel dicembre 1971 nell’assemblea generale svolta alla Casa della cultura di Roma e venne successivamente confermato dopo il dopo il congresso di Firenze (marzo 1973) e quello di Napoli (maggio 1975). Negli anni ‘70 diresse il mensile Magistratura democratica e fu componente del Comitato direttivo dell’ANM, assieme a Marco Ramat, Generoso Petrella, Mario Barone e Guido Neppi Modona.
Erano anni di tentativi di emarginazione di Md e di procedimenti disciplinari spesso finalizzati a piegare il pensiero critico e il dissenso rispetto al modello tradizionale di magistratura. De Marco, che fu sottoposto a procedimenti disciplinari e perfino penali (venendone sempre assolto), visse gli avvenimenti di quegli anni con totale convinzione e determinazione e con piena serenità. Conosceva bene la storia delle eresie ed era del tutto consapevole che chi mette in discussione l’ortodossia, scoprendone il volto arcigno e la connessione con gli assetti di potere, deve mettere in conto un prezzo personale da pagare, se vuole davvero contribuire a far nascere e crescere il nuovo.
La Costituzione, con la promessa di emancipazione anche per i più vulnerabili, fu sempre la sua rigorosa bussola per contrastare le semplificazioni, gli attacchi, i tentativi di legittimazione.
Mi è rimasta sempre in mente la sua pacata e motivata replica all’accusa di “diritto libero” che all’inizio degli anni ‘70 veniva rivolta ai giudici di Magistratura democratica. «Non solo non aderiamo alla concezione del diritto libero nella forma, ma neghiamo anche la libertà dei contenuti, perché affermiamo che il diritto dev’essere sempre vincolato agli indirizzi egualitari della Costituzione, dai quali il giudice non si può mai distaccare senza violare il suo più elementare dovere, che è quello di essere fedele alla legge in quanto questa deriva la sua validità dalla Costituzione» (QualeGiustizia n. 15-16/1972, p. 365).
E per spiegarci che anche alla giurisdizione e ai magistrati è rivolto il compito assegnato alla Repubblica dall’art. 3 cpv. della Costituzione, non ci faceva complessi discorsi di diritto o di filosofia, ma ricordava un’illuminante frase di Anatole France: «la legge, nella sua maestosa uguaglianza, vieta tanto al ricco quanto al povero di dormire sotto i ponti, di mendicare nelle strade e di rubare il pane!».
Ha insegnato il “mestiere” a centinaia di uditori, e tra questi, anche a me, che nel lontano giugno 1972, presso il tribunale di Bari, fui assegnato, con altri due uditori, alla prima sezione civile, da lui presieduta.
Dopo averci fatto assistere ad alcune udienze e partecipare alle relative camere di consiglio, affidò a ciascuno di noi uditori un fascicolo, chiedendoci di studiare e di preparare una bozza di decisione dopo una settimana. Dopo la consegna delle bozze, ci fissò appuntamento a casa sua, in giorni diversi, alle 8 del mattino, non volendo sottrarre tempo al lavoro della sezione.
Arrivato all’appuntamento, entrai nello studio e, approfittando di una breve assenza del padrone di casa che preparava il caffè, sbirciai la mia bozza da lui riposta sulla scrivania. Fui preso dallo scoramento: non c’era una sola riga indenne da segni di matita rossa o blu! De Marco si rese conto del mio turbamento, si complimentò subito per la correttezza della soluzione giuridica, ma poi, con la pazienza e l’empatia di un maestro, mi spiegò che un provvedimento giudiziario non è un romanzo né un articolo di giornale e perciò non basta risolvere correttamente le questioni giuridiche, ma occorre anche usare un linguaggio adeguato, chiaro, comprensibile e soprattutto serio, giacché ogni vicenda giudiziaria è molto seria per le parti coinvolte.
L’episodio, al di là dell’affettuoso ricordo personale, mi è tornato in mente la settimana scorsa, mentre leggevo, con stupore e incredulità, la prosa dell’ordinanza del gip di Crotone relativa alla strage dei migranti. Forse quel magistrato non ha mai incontrato un De Marco che gli insegnasse quanto sono essenziali, oltre alla conoscenza del diritto, anche la serietà, la pertinenza e il rigore professionale (questione rilevante, al di là della singolare vicenda, in tema di formazione e responsabilità dei magistrati e dell’istituzione giudiziaria, tanto più dinanzi alle tragedie e ai complessi problemi dei nostri tempi critici).
Grazie Luigi! Siamo in tanti a esserti grati per i tuoi ammaestramenti di diritto, rigore e democrazia!