È il 18 settembre del 1988, da quattro mesi sono diventata giornalista professionista ma già da quattro anni vado e vengo dal Palazzaccio per spulciare, tra le sentenze della Cassazione appena depositate, quelle di interesse pubblico. È in uno di questi miei via vai quotidiani che alcuni magistrati mi informano di un evento speciale: il giorno dopo, per la prima volta nella storia italiana, una donna debutterà come giudice in un’udienza della Suprema corte. Tanto che per l’occasione è stato organizzato un piccolo festeggiamento, con fiori e bollicine, prima dell’ingresso in aula della debuttante. Il suo nome è Gabriella Luccioli, una delle otto donne che nel 1965 vinsero il primo concorso aperto al genere femminile e che misero piede nel corpaccione della magistratura. La notizia ha tutti gli ingredienti dello scoop. La propongo al giornale, che le riserva uno spazio importante in prima pagina (uscirà con il titolo, forse un po’ ingenuo ma pieno di aspettative, La Cassazione conquista la parità fra uomo e donna), e mi metto al lavoro.
Ottenuto il contatto telefonico con questa ‘prima donna’, la chiamo, mi complimento e comincio a chiederle che effetto le faccia, ma subito percepisco che i riflettori un po’ la infastidiscono, forse per il timore che dietro l’interesse giornalistico vi sia più voyeurismo e ‘colore’ che consapevolezza del significato di quel traguardo, non personale ma storico, frutto di un lento, lentissimo cambiamento culturale nei confronti delle donne, peraltro non ancora compiuto. Abbasso i riflettori, registro le sue garbate risposte e mentre scrivo il mio pezzo mi chiedo se riuscirò a trasmettere empaticamente ai lettori il senso della dignità che quella donna ha trasmesso a me. Dignità – non a caso – è una parola ricorrente nel Diario di Gabriella Luccioli, e leggerla mi ha riportato a quel primo incontro, cui ne seguirono altri nei suoi successivi ventisette anni di attività in Cassazione e come presidente dell’Associazione Donne Magistrato Italiane (Admi), fino al pensionamento. Dignità è la parola chiave del mezzo secolo di storia professionale narrata in queste pagine, perché è con questo diritto fondamentale della persona – «il diritto dei diritti», «il supervalore che per la sua stessa natura non può essere bilanciato con altri valori» – che l’autrice si è misurata nel suo quotidiano amministrare giustizia, in un mondo in continuo cambiamento, scandito dalle riforme storiche degli anni Settanta e poi da una lunga afasia politica sulle sfide poste dalle profonde trasformazioni del costume e del sentire collettivo nonché dalla bioetica.
In questo mondo a due velocità, la giustizia ha svolto un ruolo fondamentale di cerniera tra il diritto e la società grazie alla magistratura più illuminata e, via via, a quelle donne in toga che, con voce di donna, sono riuscite a superare il muro del pregiudizio e della discriminazione, concorrendo ad abbattere stereotipi e luoghi comuni e ad aprire nuove frontiere nella tutela dei diritti di ‘tutte’ le persone. C’è stato un tempo in cui ragione faceva rima con giustizia: ‘fare giustizia’ voleva dire ‘rendere ragione’, ricorda Piero Calamandrei nelle Opere giuridiche pubblicate da Morano editore, e la «fede illuministica nell’onnipotenza della ragione aveva fatto nascere l’illusione di poter ridurre il processo a un ingranaggio di sillogismi o a una semplice operazione aritmetica». Per decenni gli uomini hanno rivendicato a sé la razionalità, come dote tipicamente maschile estranea all’universo femminile. Basta rileggere alcuni interventi all’Assemblea costituente proprio nel dibattito sulla possibilità di aprire alle donne l’accesso in magistratura. «La ragione della diffidenza diffusa di fronte a una donna giudicante sta nella prevalenza che nelle donne ha il sentimento sul raziocinio, mentre nella risoluzione delle controversie deve prevalere il raziocinio sul sentimento», spiegò il democristiano Giuseppe Cappi. «La donna è la regina della casa e se si allontana dal focolare domestico la famiglia si sgretola», sentenziò tra gli applausi Antonio Romano, magistrato eletto nelle file della DC. «E poi l’arte del giudicare richiede grande equilibrio, e a volte l’equilibrio difetta per ragioni fisiologiche». Non fu da meno Salvatore Mannironi, quando dagli stessi banchi chiosò che alle donne «manca, per costituzione, quel potere di sintesi e di equilibrio assoluto necessario a sottrarsi agli stati emotivi». Stereotipi ai quali non si sottrasse neppure l’opposizione, nonostante la diversa posizione. «La magistratura disdegna che un gentile sorriso venga a rompere l’austerità e la grinta di certi magistrati […]. L’uomo si umanizza vicino alla donna» fu l’argomento ‘forte’ del socialista Giacomo Mancini per perorare la causa delle donne. Il risultato finale fu una non decisione: si rinviò a una futura legge per l’accesso delle donne in magistratura e alle cariche pubbliche. Una sconfitta, seppure momentanea, della battaglia portata avanti da una grande figura femminile, Teresa Mattei, la più giovane deputata dell’Assemblea costituente, che era stata promotrice, fra l’altro, di un emendamento all’articolo 98 della Costituzione sull’ingresso delle donne in magistratura. Era il 1948 e bisognerà attendere vari anni per vincere quella battaglia, prima con la Corte costituzionale, che nel ’60 dichiarò l’incostituzionalità della legge n. 1176 del 1919 che escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici implicanti l’esercizio di diritti e potestà politiche e poi con la legge n. 66 del 1963, che aprì alle donne l’accesso a tutte le cariche, professioni e impieghi pubblici, compresa la magistratura.
Nel frattempo, spopolava il sistema del sillogismo, del ‘giudice bocca della legge’ (che ancora oggi, peraltro, viene evocato da certa politica conservatrice). Con il pretesto del sillogismo, il giudice e il legislatore «trovano il mezzo per salvarsi l’anima e possono dormire sonni tranquilli», osservava sempre Calamandrei, «ma questa non può essere la giustizia di una democrazia, questo non può essere il giudice degno della Città degli uomini liberi. Noi non sappiamo che farci dei giudici di Montesquieu, êtres inanimés, fatti di pura logica. Vogliamo i giudici con l’anima, giudici engagés, che sappiano portare con vigile impegno umano il grande peso di questa immane responsabilità che è il rendere giustizia». Mi è capitato più volte di citare queste parole ma mai come in questa occasione mi sembrano appropriate per descrivere anche il peso che le donne magistrato (non tutte, s’intende) hanno avuto nel progressivo e definitivo abbandono della visione sillogistica della giustizia.
Perché sono state (non tutte, s’intende) portatrici di una visione ‘aperta’, frutto di ragione e sentimento, di laicità e di consuetudine con la complessità dei problemi. Hanno saputo incarnare quel modello di giudice ‘con l’anima’, ‘uomo sociale, partecipe e interprete della società in cui vive’, nelle cui sentenze ‘ragione e sentimento sono all’unisono’. Donne come Gabriella Luccioli hanno imposto alla giustizia una diversa andatura: piedi a terra ma sguardo alto, ai principi e ai valori costituzionali. Che «rimangono vivi – ammoniva Calamandrei – finché vi scorre dentro, come il sangue nelle vene, la forza politica che le alimenta; se questa viene meno, si atrofizzano e muoiono di sclerosi». La consapevolezza della valenza politica dell’attività giudiziaria e della collocazione del giudice nella società è un’acquisizione del 1965, quando a Gardone si svolge lo storico Congresso dell’Associazione nazionale magistrati. Gabriella Luccioli vi partecipa e nota la mancanza di voci femminili in quel contesto così importante. Negli anni che seguirono, però, anche le donne hanno saputo testimoniare quella consapevolezza. A partire… dalle donne. Scardinando cioè una serie di sovrastrutture della famiglia, grazie anche al respiro culturale del riformismo degli anni Settanta e al pensiero femminista. Che cambiò la prospettiva della disparità uomo-donna, valorizzando la specificità – e la differenza – di genere e consentendo di superare l’idea della parità in funzione della ‘somiglianza’ al modello maschile. Ancora una volta la memoria va a Teresa Mattei, pioniera del femminismo: «Noi non vogliamo che le nostre donne si mascolinizzino, noi non vogliamo che le donne italiane aspirino a un’assurda identità con l’uomo; vogliamo semplicemente che esse abbiano la possibilità di espandere tutte le loro forze, tutte le loro energie, tutta la loro volontà di bene nella ricostruzione democratica del nostro Paese».
Non tutte le donne entrate in magistratura coglieranno questa dimensione della questione femminile e delle relative conseguenze. Tuttavia chi ci riesce darà l’avvio a una vera e propria rivoluzione giudiziaria, testimoniata da un susseguirsi di decisioni ‘eversive’ rispetto al consolidato sistema di rapporti personali, familiari e sociali, nelle quali il valore di riferimento è la dignità della persona. Dagli anni Novanta in avanti, la Cassazione ha prodotto un ricco campionario di sentenze che hanno ‘aggiornato’ il diritto di famiglia, dimostrando che il compito interpretativo del giudice di legittimità non si esaurisce nel recinto claustrofobico della singola norma ma si esplica nel perimetro, ben più ampio, di un sistema che – a partire dalla Costituzione e dalle Convenzioni internazionali, e passando per la giurisprudenza costituzionale e di Strasburgo – lascia al giudice ampi margini di intervento, facendone anche il promotore di nuovi diritti.
Da questo punto di vista, la rassegna di decisioni riportate nel Diario di Gabriella Luccioli è un documento prezioso dell’opera ‘costruttrice’ svolta dalla Cassazione, all’insegna della laicità e della ‘leggerezza’, nonché del «rifiuto di ogni pretesa statalista di indagare nella sfera degli stati d’animo e dei sentimenti». Senza mai rinunciare, però, a considerare la «dignità ferita» della persona come «parametro ineludibile di riferimento». Tuttavia, i riflettori mediatici che via via si sono accesi su questo lento ma progressivo mutamento epocale hanno lasciato nell’ombra molte delle protagoniste. Che anzi, spesso, hanno persino pagato un prezzo in termini professionali. Gabriella Luccioli non ne parla nel suo Diario, ma la cronaca giornalistica documenta che la sua ‘ostinazione’ nel mettere al centro la dignità della persona – in modo laico e rispettoso del patrimonio di valori costituzionali e sovranazionali – le si è ritorta contro.
A marzo del 2013, infatti, sarà clamorosamente esclusa dalla corsa alla prima presidenza della Cassazione. Unica donna fra otto candidati, ha tutte le carte in regola per sedere sullo scranno più alto della magistratura italiana: anzianità, professionalità, stima dei colleghi. E sentenze storiche. Tra le tante che portano la sua firma, come relatore o come presidente del collegio, ce ne sono due per certi versi rivoluzionarie ma ingombranti: quella su Eluana Englaro, che ha sancito il diritto all’autodeterminazione terapeutica per i malati terminali, e quella sull’affidamento dei figli alle coppie gay, secondo cui un bambino può crescere in modo equilibrato anche in una famiglia omosessuale poiché non vi sono «certezze scientifiche o dati di esperienza» che dimostrino il contrario. Due sentenze che hanno suscitato polemiche. Di più: scandalo. E che, di fatto, porteranno alla sua esclusione dalla competizione fin dalla prima selezione della commissione Incarichi direttivi del Csm. Complici le gerarchie ecclesiastiche ma anche la profonda, radicata indipendenza di Gabriella Luccioli. Che giustamente le fa rivendicare con orgoglio «di non aver mai salito le scale di Palazzo dei Marescialli se non per motivi istituzionali e di non aver mai alzato il telefono per chiedere». Senza nulla togliere all’autorevolezza e all’indipendenza degli altri candidati, la storia di questa giudice non dava sufficienti ‘garanzie’ che la prima presidenza della Cassazione potesse diventare, alla bisogna, anche un’utile ‘sponda’ politico-istituzionale, in un contesto politico-istituzionale che, invece, era sistematicamente alla ricerca di sponde ‘affidabili’. D’altra parte, l’abitudine delle donne a coltivare autonomia e competenza per costruirsi un’esistenza libera e dignitosa consente di sviluppare un profondo senso dell’indipendenza che prescinde dall’abito indossato, dal ruolo ricoperto. Imparano a camminare, appunto, con i piedi a terra ma lo sguardo alto. E anche se sanno esercitare l’arte della mediazione e della comprensione istituzionale, non cambiano passo né postura. Non è sempre così e non sempre è stato così.
Nel Diario, Gabriella Luccioli annota: «Nella mia carriera ho incontrato colleghi, uomini e donne, eccezionali, ma ho anche incontrato piccoli uomini e figure di donne del tutto negative nel loro narcisismo e rampantismo, che hanno assimilato gli aspetti meno esaltanti del modello maschile proiettandosi in modo spasmodico verso ogni successo di carriera. Donne incapaci di instaurare un rapporto con le altre donne se non in termini di rivalità e di competizione». In un’intervista a Il Sole 24 ore del 23 aprile 1999, diceva: «Mi capita spesso di leggere sentenze scritte da colleghe intrise di cultura maschilista in cui è difficile riconoscere l’impronta di genere. Il problema è cambiare una cultura di cui uomini e donne sono portatori. E di questo cambiamento devono farsi promotrici anzitutto le donne». La strada è ancora in salita, e non solo nella magistratura. Dove, però, la presenza femminile è ormai divenuta preponderante, anche se nei posti di vertice gli uomini continuano a spopolare. Salvo quando l’anzianità di servizio ‘costringe’ a scelte diverse. Esclusione, ma anche autoesclusione. Tuttavia, anche grazie all’attivismo dell’Admi, prassi e resistenze stanno mutando. E qualche numero lo testimonia: negli ultimi diciotto mesi (2015-2016), il Csm ha cambiato passo, assegnando a molte donne posti chiave per il buon funzionamento degli uffici, non senza alcune clamorose esclusioni. Sono state 88 su 312 le donne indicate per ruoli dirigenziali, anche allo scopo di riequilibrare una situazione che continua a pendere, appunto, in favore degli uomini. E se la ragione ufficiale è sempre stata il tardivo ingresso in magistratura delle donne (che ne ha rallentato l’ascesa ai posti direttivi), d’ora in poi bisognerà fare i conti con il costante, progressivo aumento di quegli ingressi, che proprio quest’anno hanno fatto registrare il sorpasso nell’organico: le donne sono 4.553 su 9.098 magistrati (gli uomini si fermano a 4.545). Una ‘femminilizzazione’ che ha molte spiegazioni: la maggiore preparazione e motivazione delle donne ma anche la progressiva perdita – quanto meno per il giudice medio – di appeal sociale di questo mestiere, rimasto orfano di quello status che per secoli l’ha contraddistinto e che perciò spingerebbe molti uomini a prendere altre strade.
La magistratura – al di là delle rappresentazioni mediatiche – è parte della classe dirigente del Paese. Tuttavia, stando a un recente sondaggio, se si chiede ai magistrati se hanno questa percezione, soltanto il 40% risponde affermativamente mentre, se la stessa domanda è rivolta ai cittadini, il 70% non ha dubbi che sia così. Personalmente, ritengo che nelle donne ci sia, molto più che negli uomini, questa consapevolezza nonché quella dei compiti e delle responsabilità che ne derivano. E mi auguro che il loro impegno come classe dirigente sia capace di quel respiro giuridico e culturale dimostrato da figure come Gabriella Luccioli, soprattutto in una fase politico-istituzionale in cui sembrano riemergere forti spinte alla burocratizzazione del giudice e altrettanto forti rigurgiti corporativi. Spero, insomma, che la magistratura sappia essere protagonista della ‘contemporaneità’ e che le donne, sull’esempio di chi ha speso la propria vita professionale in questa direzione, continuino a essere «il sangue che scorre nelle vene, la forza politica che alimenta i principi e i valori costituzionali» della nostra democrazia.
*In copertina: Le mondine. Foto Coop lavoratori della terra - Bentivoglio, 1950 ca. Archivio fotografico dell’Istituzione Villa Smeraldi - Museo della civiltà contadina di San Marino di Bentivoglio (Bo)