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Diritto di cittadinanza e scioglimento del matrimonio per morte. Nota a Corte Costituzionale 26 luglio 2022 n. 195

di Rita Russo
consigliera presso la Corte di Cassazione

E’ contraria al principio di ragionevolezza la normativa che prevede, tra le cause ostative al riconoscimento della cittadinanza per lo straniero coniugato con cittadino italiano, la morte del coniuge, intervenuta dopo la domanda.

1. La sentenza della Corte 

La Corte Costituzionale con la sentenza in commento ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art 5, comma 1, della legge n. 91 del 1992, nella parte in cui non esclude, dal novero delle cause ostative al riconoscimento del diritto di cittadinanza, la morte del coniuge del richiedente, sopravvenuta in pendenza dei termini previsti per la conclusione del procedimento.

Secondo il testo normativo originario, il coniuge del cittadino italiano ha diritto al riconoscimento della cittadinanza italiana, a condizione che sia trascorso un certo lasso di tempo dal matrimonio (due anni o tre anni secondo che risieda o meno sul territorio italiano) e che al momento dell’adozione del decreto «non sia intervenuto lo scioglimento, l'annullamento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio e non sussista la separazione personale dei coniugi». 

 Per effetto di questa sentenza il testo risulta manipolato e si esclude dalle cause ostative lo scioglimento del matrimonio per decesso del coniuge, intervenuto nelle more tra la presentazione della domanda e il decreto di riconoscimento.

 La questione è stata sollevata dal Tribunale di Trieste, che ha prospettato, tra l’altro, la violazione degli artt. 3, 24, 97 e 111 della Costituzione, osservando che il tempo del processo amministrativo andrebbe a scapito di chi all’atto della domanda è in possesso dei requisiti, e ciò per effetto di un evento che non è governabile dalla parte. La norma non sembra avere ragionevole giustificazione in relazione alla finalità di contrastare i matrimoni contratti al solo scopo di ottenere la cittadinanza: se infatti la separazione o il divorzio possono essere indici sintomatici della celebrazione di un matrimonio fittizio, altrettanto non può dirsi dello scioglimento per morte. 

L’Avvocatura dello Stato, di contro, ha evidenziato che la ratio della norma è da individuarsi nella particolare tutela che il legislatore riserva al nucleo familiare costituito dal vincolo matrimoniale fra un cittadino italiano e un cittadino straniero o apolide, ragion per cui, sciolto il vincolo, verrebbe meno la ragione di tutela.

La Corte Costituzionale ritiene la norma contraria al principio di ragionevolezza e ciò sia nel caso in cui si voglia ritenere che la ratio legis è quella di tutelare la famiglia, che quella di evitare matrimoni strumentali. 

Si osserva in primo luogo che elemento costitutivo del diritto non è l’esistenza del nucleo familiare al momento dell’adozione del decreto, ma la sussistenza del vincolo al momento della presentazione della domanda. Il venir meno del vincolo in pendenza del procedimento amministrativo si configura invece come una causa ostativa al riconoscimento. 

Inoltre, osserva la Consulta, appare irragionevole che si faccia gravare sull’istante il rischio della morte del coniuge nella pendenza del procedimento, perché ciò equivarrebbe a porre a carico di chi ha già maturato i presupposti costitutivi del diritto al riconoscimento della cittadinanza un’alea che gli è totalmente estranea, che sfugge alla sua sfera di controllo e che non attiene alle ragioni costitutive del diritto alla cittadinanza. Peraltro, nel nostro ordinamento, la morte del coniuge, se pure scioglie il vincolo, non fa venir meno la pienezza delle tutele, privatistiche e pubblicistiche, fondate sull’aver fatto parte di una comunità familiare, basata sulla solidarietà coniugale, e dunque, anche ritenendo che la ratio legis sia quella di tutelare il rapporto familiare, deve tenersi conto che esiste una estensione delle tutele legate ad esso anche dopo la morte di uno dei coniugi.

Infine, la presunta finalità di evitare i matrimoni di comodo, che comunque non è enunciata espressamente dalla legge sulla cittadinanza, a differenza di quanto avviene in tema di norme sul permesso di soggiorno, non avrebbe comunque alcuna giustificazione razionale, poiché la morte è un evento naturale non sintomatico della celebrazione di un matrimonio simulato al solo fine di ottenere la cittadinanza.

La Corte conclude nel senso che la norma difetta di ragionevolezza, richiamando i propri precedenti in materia[1], poiché si evidenzia una «contraddittorietà intrinseca tra la complessiva finalità perseguita dal legislatore e la disposizione espressa dalla norma censurata». 

 

2. La norma e la sua ragionevolezza

Ragionevolezza della norma significa che le disposizioni normative devono essere congruenti rispetto al fine perseguito dal legislatore. 

La finalità della norma è una scelta discrezionale e politica del legislatore, il quale tramite la produzione legislativa sceglie quali beni tutelare e come, nell’ambito dei principi posti dalla nostra Costituzione e dagli obblighi internazionali ed eurounitari. 

Il legislatore, pertanto, pur se dotato di discrezionalità, si muove in un campo definito dai valori costituzionali da perseguire (tutela della famiglia, della salute, del lavoro) dai principi generali da rispettare (libertà, uguaglianza formale e sostanziale, giusto processo) e dalla necessità di armonizzare la propria legislazione con quella degli altri paesi UE (primazia dei Regolamenti europei, vincolatività delle Direttive quanto i fini) nonché dalla esigenza di conformità ai trattati internazionali, tra i quali la Cedu. Pertanto, non è del tutto libero nei fini, e non lo è neppure nei mezzi; se infatti il mezzo non è congruente al fine, due sono i possibili sviluppi, entrambi inaccettabili: la prescrizione normativa non persegue né il fine voluto dal legislatore né alcun altro fine legittimo e si traduce quindi in una ingiustificata compressione della libertà, oppure la norma persegue fini in contrasto con quello della legge stessa o dell’ordinamento in generale, mettendo a rischio la solidità del sistema assiologico. 

La nostra Costituzione non enuncia espressamente il principio di ragionevolezza, ma sin dagli anni settanta la Corte Costituzionale ha sviluppato il concetto di ragionevolezza, inizialmente configurandolo come un corollario del principio di eguaglianza sostanziale, fino ad utilizzarlo come complemento e in appoggio a qualunque altro principio costituzionale richiamato a parametro del giudizio della Corte[2]

Il principio di eguaglianza ben si presta ad essere chiamato a supporto del vaglio di ragionevolezza della norma, posto che la stessa idea di diritto, se inteso come volto a conseguire un risultato di giustizia, si raccorda alla eguaglianza perché, come è stato affermato, una teoria del diritto è concretamente possibile solo in una società di uomini egualmente liberi[3]. Inoltre, il nostro ordinamento costituzionale non si limita ad enunciare l'eguaglianza in termini formali, ma afferma che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che limitano di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini». Questo significa che sono necessari interventi positivi in favore di coloro che sono in condizioni di svantaggio economico sociale e che per conseguire il risultato deve tenersi conto peculiarità della fattispecie e della diversa condizione dei soggetti che richiedono le specifiche tutele previste dalla norma. 

Un ulteriore sviluppo del principio di ragionevolezza è l’attenzione che la Corte riserva agli “automatismi legislativi”. La norma giuridica è per sua natura generale ed astratta, il che significa che al verificarsi di un determinato evento (inteso in senso naturale o giuridico) riconnette una o più conseguenze: ad esempio la legge prevede che dal matrimonio discendano doveri e diritti e tra questi ultimi il diritto a conseguire, in presenza delle altre condizioni positive negative previste dalla norma, la cittadinanza italiana. Nel produrre la norma, il legislatore esegue un bilanciamento di interessi, ma in astratto, e cioè valuta come mettere in equilibrio i diversi interessi che si evidenziano nella fattispecie. L'automatismo si ha quando il bilanciamento di interessi operato dal legislatore è eccessivamente rigido e non consente a chi deve applicare la norma -il giudice o eventualmente l'autorità amministrativa- di tenere conto della specificità del caso concreto e di modulare gli effetti della regola in relazione alle peculiarità della specifica situazione. 

Questo genere di problemi si evidenzia spesso quando si tratta di regolare le relazioni familiari e le conseguenze che l'instaurarsi di una relazione familiare produce sul piano giuridico; deve qui tenersi conto che la relazione familiare è una materia viva e fluida, che presenta molteplici sfaccettature e peculiarità a seconda del caso concreto.

Si vedano ad esempio le note sentenze della Corte Costituzionale in tema di decadenza e sospensione dalla responsabilità genitoriale in caso di condanna pronunciata contro il genitore per il delitto di sottrazione e mantenimento di minore all’estero, e per i delitti di alterazione e soppressione di stato[4]. Le norme penali sono state ritenute irragionevoli laddove rimettono ad un automatismo legislativo l’applicazione della misura, senza prevedere la possibilità per il giudice di decidere se applicarla o meno, previa la valutazione in concreto della rispondenza di detto provvedimento all’interesse del minore, valutazione da compiersi all’attualità e cioè tenendo conto necessariamente anche dell’evoluzione delle circostanze successive al fatto di reato.

 

3. La cittadinanza 

La cittadinanza è un tema sensibile di grande attualità, ove la legislazione italiana è messa alla prova dall’imponente fenomeno migratorio degli ultimi anni. 

La cittadinanza, in senso ampio, è la condizione giuridica di chi fa parte di uno Stato; in senso più ristretto, indica la condizione giuridica (status) di coloro che sono titolari di particolari diritti ed obblighi, fra i quali i diritti politici, il diritto di soggiornare liberamente nel territorio dello Stato, di ricoprire cariche pubbliche e l'obbligo di effettuare determinate prestazioni (ad es. il servizio militare). Alla base della cittadinanza vi è la sussistenza di un legame con lo Stato, che può ritenersi, in astratto, in tre casi: se la persona discende da coloro che sono cittadini (ius sanguinis) se la persona è nata sul territorio dello Stato (ius soli) se la persona ha manifestato la volontà di entrare a fare parte della società statuale.

Ogni Stato sceglie a quale dei criteri ispirare la propria legislazione in materia, secondo quelle che sono le sue esigenze e gli obiettivi che intende perseguire, con il limite rappresentato dall’esistenza di un collegamento effettivo tra lo Stato e la persona di cui si tratta; nelle legislazioni contemporanee, in genere, uno di questi criteri viene scelto come prevalente, ma non è del tutto esclusa la rilevanza anche degli altri requisiti.

In un passato non troppo remoto, l'Italia era un paese di emigrazione, sicché le principali problematiche in tema di cittadinanza non erano quelle di far acquistare la cittadinanza a chi si stabiliva nel nostro paese, quanto piuttosto di farla conservare e trasmettere a coloro che emigravano e si stabilivano in paesi stranieri, problematiche in taluni casi ancora attuali[5]

Non deve quindi sorprendere che il legislatore italiano abbia scelto quale criterio principale dell'attribuzione della cittadinanza lo ius sanguinis cioè la nascita da cittadini italiani o anche da uno solo di essi, oppure l’adozione da parte di cittadini. Lo ius soli è riservato, al momento, a chi nasce da genitori ignoti o apolidi, al figlio che non segue la cittadinanza dei genitori secondo la legge dello Stato al quale essi appartengono e allo straniero che, nato in Italia, vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino al raggiungimento della maggiore età che dichiara di voler acquistare la cittadinanza italiana entro un anno dalla suddetta data. In questo ultimo caso si ha la combinazione del criterio dello ius soli con quello della volontà. Ancora diverso è il caso dell'acquisto della cittadinanza per matrimonio: qui avviene una iuris communicatio e cioè il cittadino italiano comunica, a determinate condizioni, il proprio status civitatis al coniuge, in combinazione con il criterio della manifestazione della volontà da parte dell'interessato, e sempre che non sussistano condizioni ostative.

Come si può vedere, è una legislazione che muove dall'evidente considerazione che la presenza stabile dello straniero nel territorio italiano sia una eccezione, legata a particolari circostanze della sua vita personale e familiare come ad esempio il matrimonio, ovvero l’essere nato e cresciuto in Italia senza avere più alcun legame con la terra di origine. Si tratta quindi di una legislazione non allineata alla complessità del fenomeno migratorio nell'epoca attuale, connotato da rilevanti flussi migratori legali (richiedenti asilo, lavoratori altamente qualificati, studenti e ricercatori, lavoratori stagionali, ricongiungimento familiare) e altrettanto rilevanti flussi migratori illegali (migranti economici irregolari, tratta, sfruttamento del lavoro) talora difficili da distinguere l'uno dall'altro[6]

Ciononostante, nell’ordinamento italiano, è avvenuta comunque una progressiva assimilazione della condizione dello straniero alla condizione del cittadino, quantomeno in tema di diritti fondamentali.

I diritti fondamentali che l'art. 2 della Costituzione riconosce e garantisce sono un patrimonio di tutti gli esseri umani a prescindere dalla loro nazionalità e condizione; inoltre l’art 16 delle preleggi al codice civile estende anche allo straniero, a condizione di reciprocità, gli altri diritti civili. E’ indubbio inoltre, dato il principio di territorialità, che anche lo straniero risponda del reato commesso sul territorio italiano.

Si tratta comunque di una assimilazione parziale, perché la cittadinanza porta con sé, oltre che una serie di doveri, anche importanti benefici, di cui il principale è il diritto di risiedere nel territorio dello Stato e di scegliere il luogo ove la persona intende fermarsi, senza incontrare limiti o divieti. Gli stranieri, infatti, per essere ammessi sul territorio dello Stato, hanno bisogno del permesso di soggiorno e, contrariamente al cittadino italiano, possono essere espulsi, alle condizioni stabilite dalla legge.

Il legislatore è consapevole dell'insufficienza dell'attuale quadro legislativo a regolare l'acquisto della cittadinanza, dal momento che è all'esame del Parlamento una proposta di legge di iniziativa parlamentare che favorisce l'acquisizione della cittadinanza ai minori stranieri, nati o entrati in Italia nei primi anni di vita, e che hanno compiuto gli studi nel nostro Paese. Si tratta comunque di un intervento parziale, che si concentra solo sull'acquisto della cittadinanza da parte dei minori e non tiene conto di molte situazioni di radicamento sul territorio italiano parzialmente assimilabili alle fattispecie normative attualmente vigenti, ma che presentano qualche elemento di diversità. Ad esempio, l'intervento della Corte costituzionale qui esaminato riguarda soltanto il caso del cittadino straniero coniugato con cittadino italiano che deceda nel corso del procedimento per il riconoscimento della cittadinanza; quindi resterebbe escluso dall'acquisto della cittadinanza il cittadino straniero che pur avendo contratto matrimonio con il cittadino italiano - e anche dopo una lunga convivenza - presenti la domanda di acquisto della cittadinanza soltanto dopo la morte del coniuge; e ciò nonostante il riferimento, nella motivazione della sentenza in esame, al fatto che la morte del coniuge, pur se scioglie il vincolo matrimoniale, non fa venir meno, tuttavia, la pienezza delle tutele, privatistiche e pubblicistiche, fondate sull’aver fatto parte di una comunità familiare.


 
[1] Corte Cost. 11/01/2019 n.6; Corte Cost. 19/05/2022 n. 125 in www.cortecostituzionale.it

[2] M. Cartabia, I principi di ragionevolezza e proporzionalità nella giurisprudenza costituzionale italiana,  Conferenza trilaterale delle Corte costituzionali italiana, portoghese e spagnola, Roma 24-26 ottobre 2013.

[3] E. Opocher, Il problema dell'individualità, Padova, 1944.

[4] Corte Cost. 29/5/2020, n. 102; Corte cost. 15/2/2012 n. 31; Corte Cost. 23/1/2013, n. 7, in www.cortecostituzionale.it

[5] Si veda ad es. in tema di riconoscimento della cittadinanza italiana iure sanguinis per i cittadini brasiliani naturalizzati, Cass. sez. un. 24/08/2022 n. 25318.

[6] A. Di Florio, in questa Rivista 28/07/2022, si esprime per la necessità di trovare «una sintesi intelligente fra i doveri di protezione internazionale e la convenienza del nostro paese all’inclusione degli stranieri».

13/09/2022
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