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Illegittimità costituzionale del requisito della residenza protratta per i servizi abitativi

di Cecilia Corsi
professoressa ordinaria di Istituzioni di diritto pubblico, Università di Firenze
Con la sentenza n. 44 del 2020 la Corte costituzionale torna a pronunciarsi sulla legittimità del requisito della residenza protratta sul territorio regionale per accedere ai servizi abitativi pubblici e giunge alla declaratoria di incostituzionalità rilevando un contrasto sia con il principio di eguaglianza di cui all’art. 3, primo comma Cost. per l’ingiustificata disparità di trattamento, sia con il principio di eguaglianza sostanziale perché detto requisito contraddice la funzione sociale dell’edilizia residenziale pubblica

1. I precedenti

È da oltre un decennio che la Corte costituzionale è chiamata a pronunciarsi sulla legittimità di disposizioni legislative statali o regionali che richiedono solo agli stranieri o indifferentemente a cittadini e stranieri un periodo di residenza sul territorio nazionale e/o regionale per l’accesso a prestazioni sociali. Se queste disposizioni che, in ogni caso, hanno l’intento di sfavorire gli immigrati, i quali verosimilmente con più difficoltà possono aver maturato un tot di anni di residenza, fanno riferimento alla residenza protratta sul territorio dello Stato discriminano soprattutto chi non è cittadino italiano, ma se fanno riferimento al territorio regionale possono venire a escludere anche cittadini italiani non radicati in quella regione[1].

L’orientamento della Corte non è stato lineare e si è caratterizzato per passi avanti e per retromarce. Sarebbe lungo, in questa sede, ripercorrere tutto l’iter della giurisprudenza costituzionale, rinvio pertanto ai tanti contributi dottrinali[2] sul tema, limitandomi a richiamare solo quelle pronunce aventi ad oggetto prestazioni connesse al diritto all’abitazione.

Un primo intervento della Consulta risale al 2008[3], allorché fu liquidato, con una non certo convincente ordinanza di manifesta infondatezza, un ricorso incidentale contro la l.r. lombarda, la quale prevedeva (analogamente alla legge oggetto della pronuncia che si commenta) per la presentazione della richiesta per l’assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica che i richiedenti avessero la residenza o svolgessero attività lavorativa «da almeno 5 anni per il periodo immediatamente precedente alla data di presentazione della domanda»[4]. Fu ritenuta manifestamente infondata la lamentata violazione dell’art. 3 Cost, in quanto il requisito della residenza continuativa ai fini dell’assegnazione risultava non irragionevole, ponendosi in coerenza con le finalità che il legislatore intendeva perseguire, e realizzando in questo modo un equilibrato bilanciamento tra i valori costituzionali in gioco.

In realtà è singolare questa affermazione della Corte, perché “il ragionamento fila se assumiamo che intenzione del legislatore [fosse] quella di differenziare, sia pur indirettamente in base alla cittadinanza! Ma è costituzionalmente legittimo tale obiettivo?”[5].

Se in relazione ad altre tipologie di benefici la successiva giurisprudenza[6] parve decisamente orientata a negare la sussistenza di alcuna ragionevole correlazione tra la durata della residenza e le situazioni di bisogno che costituiscono i presupposti per accedere a determinate prestazioni e fu omesso qualsiasi cenno di richiamo all’ordinanza del 2008, con la discussa sentenza n. 222 del 2013 la Corte venne a offrire un ragionamento frammentato a seconda del tipo di prestazione in oggetto[7]. E in relazione alle misure di facilitazione all’accesso ad abitazioni in locazione (per il quale si richiedevano a cittadini e stranieri ventiquattro mesi di residenza nel territorio regionale[8]), la Corte rilevava che “il legislatore ha lo scopo di valorizzare con misure eccedenti i livelli essenziali delle prestazioni, il contributo offerto alla comunità dal nucleo familiare, con adeguata costanza, sicché non è manifestamente irragionevole indirizzare i propri sforzi a favore dei nuclei già attivi da tempo apprezzabile e perciò stesso parti vitali della comunità”. E anche per quanto riguarda gli interventi di edilizia convenzionata ed agevolata e di sostegno alle locazioni, la Corte venne a richiamare l’ord. n. 32 del 2008 (vedi supra), per giungere a chiarire che le politiche sociali delle regioni “ben possono prendere in considerazione un radicamento territoriale ulteriore rispetto alla sola residenza, purché contenuto entro limiti non palesemente arbitrari ed irragionevoli. L’accesso a un bene di primaria importanza e a godimento tendenzialmente duraturo, come l’abitazione, per un verso, si colloca a conclusione del percorso di integrazione della persona presso la comunità locale e, per altro verso, può richiedere garanzie di stabilità, che, nell’ambito dell’assegnazione di alloggi pubblici in locazione, scongiurino avvicendamenti troppo ravvicinati tra conduttori aggravando l’azione amministrativa e riducendone l’efficacia”.

In realtà risultavano discutibili le affermazioni della Corte che finivano per non riconoscere l’importanza di un alloggio per avviare un processo d’inclusione sociale e non solo per attestare la conclusione del percorso di integrazione. E come è stato rilevato, “non sembra fuori luogo affermare che la legislazione italiana in tema di accesso all’abitazione da parte degli stranieri risulta, nel suo complesso, segnata da un corto circuito logico: di fatto per il non-cittadino, l’accesso al diritto all’abitazione è effettivo solo a condizione … che egli risulti già titolare della disponibilità del bene oggetto di quel medesimo diritto!”[9].

Una successiva sentenza del 2014 (la n. 168) relativa alla l.r. della Val d’Aosta che per l’assegnazione di un alloggio di edilizia residenziale pubblica richiedeva la residenza (per tutti indipendentemente dalla nazionalità) nella regione da almeno otto anni, maturati anche non consecutivamente rilevava profili di contrasto con la normativa europea: sia nei confronti dei cittadini dell’Unione, ai quali deve essere garantita la parità di trattamento, (i quali avrebbero invece avuto minori possibilità di soddisfare tale requisito, rispetto soprattutto ai valdostani, ma anche agli italiani[10]), sia nei confronti dei possessori di un permesso di soggiorno a tempo indeterminato, che in base alla direttiva 2003/109/CE devono godere dello stesso trattamento dei nazionali anche con riferimento alle procedure per l’ottenimento di un alloggio[11].

In questa sentenza la Corte non esclude comunque che il legislatore possa prevedere una certa anzianità di residenza nella “finalità di evitare che detti alloggi siano assegnati a persone che, non avendo ancora un legame sufficientemente stabile con il territorio, possano poi rinunciare ad abitarvi, rendendoli inutilizzabili per altri che ne avrebbero diritto, in contrasto con la funzione socio-assistenziale dell’edilizia residenziale pubblica”. Sono gli otto anni di residenza da ritenersi palesemente sproporzionati.

Merita, in ultimo, sottolineare che la motivazione della sentenza fa riferimento soltanto ai profili di contrasto con la normativa europea (che erano peraltro quelli messi in rilievo nel ricorso del governo); mancano invece riferimenti espliciti alla posizione degli stranieri che non sono titolari di un permesso a tempo indeterminato, ma comunque regolarmente soggiornanti, nei confronti dei quali si pongono comunque profili di illegittimità costituzionale soprattutto rispetto all’art. 3 Cost. Forse la Corte, in questa sentenza, ha preferito addivenire alla declaratoria di incostituzionalità, senza prendere posizione sulla delicata questione della legittimità, in linea generale, del requisito della residenza protratta, con riferimento quindi anche gli stranieri titolari di un mero permesso a tempo determinato.

Più recentemente con la sentenza n. 106 del 2018 la Corte ha dichiarato l’incostituzionalità della l.r. ligure del 2017[12] che era venuta a novellare le norme per l’assegnazione e la gestione del patrimonio di edilizia residenziale pubblica, introducendo solo per gli stranieri[13] il requisito temporale della regolare residenza da almeno dieci anni consecutivi nel territorio nazionale, al fine dell’accesso all’edilizia residenziale pubblica.

È interessante rilevare che il ricorso governativo si imperniava esclusivamente sulla violazione della normativa europea e in particolare della direttiva sullo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, ed anche la succinta motivazione della Corte fa riferimento in primis alla situazione dello straniero in possesso di un permesso a tempo indeterminato, rilevando la contrarietà della disposizione regionale alla normativa UE, ma prosegue con alcune valutazioni di carattere più generale. Dopo aver richiamato l’ordinanza n. 32 del 2008 e la sentenza n. 222 del 2013 che pur, come si è visto, aprivano alla possibilità di prevedere un certo periodo di residenza sul territorio per accedere ad un bene di primaria importanza e a godimento tendenzialmente duraturo come l’abitazione, rileva l’irragionevolezza e la mancanza di proporzionalità di una disciplina che prevede ben dieci di residenza (un numero ancora maggiore agli otto anni già previsti dalla l.r. valdostana[14]), nonché l’illogicità del riferimento alla residenza sull’intero territorio nazionale e non sul territorio della Regione Liguria (rispetto al quale avrebbe potuto, se mai, aver senso dar prova di un radicamento). In questa sentenza non si esclude quindi, in linea di principio, la possibilità di prevedere un certo periodo di soggiorno sul territorio, ma sono i dieci anni di residenza e il riferimento alla residenza sull’intero territorio nazionale a risultare irragionevoli e sproporzionati. È, infine, singolare che la Corte dichiari l’illegittimità della disposizione impugnata solo rispetto all’art. 117 Cost. e quindi con riferimento al contrasto con la normativa europea e non vi sia alcun riferimento all’art. 3 Cost.

Di poco successiva è la sentenza n. 166 del 2018 che prende avvio dal ricorso incidentale promosso dalla Corte di Appello di Milano[15] nei confronti dell’art. 11, comma tredici del d.l. 25 giugno 2008, n. 112 conv. in l. 6 agosto 2008, n. 133[16]. La norma censurata stabiliva che “ai fini del riparto del Fondo nazionale per il sostegno all’accesso alle abitazioni in locazione, di cui all’articolo 11 della legge 9 dicembre 1998, n. 431, i requisiti minimi necessari per beneficiare dei contributi integrativi … devono prevedere per gli immigrati il possesso del certificato storico di residenza da almeno dieci anni nel territorio nazionale ovvero da almeno cinque anni nella medesima regione”.

Anche la motivazione di questa sentenza opera, anzitutto, un riferimento alla direttiva europea sullo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, per rilevare un primo tratto di illegittimità della disposizione, ma prosegue ribadendo che ogni norma che impone “distinzioni fra varie categorie di persone in ragione della cittadinanza e della residenza per regolare l’accesso alle prestazioni sociali deve pur sempre rispondere al principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost.”. Se è vero, infatti, che può essere richiesto “un titolo che dimostri il carattere non episodico o di breve durata della permanenza sul territorio”, e se “le politiche sociali dirette al soddisfacimento dei bisogni abitativi possono prendere in considerazione un radicamento territoriale ulteriore rispetto alla semplice residenza”, “occorre pur sempre che sussista una ragionevole correlazione tra la richiesta e le situazioni di disagio” che si intendono fronteggiare. Ne consegue che dieci anni di residenza nel territorio nazionale ovvero cinque anni nella medesima regione costituiscono “una durata palesemente irragionevole e arbitraria” ai fini dell’accesso al beneficio de quo.

L’ “irrazionalità intrinseca” della disposizione trova, per la Corte, conferma anche nel fatto che un termine decennale di residenza sul territorio nazionale è richiesto addirittura per accedere alla cittadinanza italiana; inoltre pure il termine quinquennale di residenza nella regione è irragionevole, tenuto conto che i fondi sono stati istituiti anche per “favorire la mobilità nel settore della locazione attraverso il reperimento di alloggi da concedere in locazione per periodo determinati”[17]; in ultimo trattandosi di una provvidenza riservata a casi di vera e propria indigenza “non si può ravvisare alcuna ragionevole correlazione tra il soddisfacimento dei bisogni abitativi primari della persona… e la lunga protrazione nel tempo del radicamento territoriale”.

La Corte, richiamando la sentenza n. 222 del 2013 non esclude comunque a priori che possa essere preso “in considerazione un radicamento ulteriore rispetto alla semplice residenza”, ma sono l’irragionevolezza e l’arbitrarietà della previsione normativa che conducono alla declaratoria di incostituzionalità.

È infine interessante rilevare che l’argomentazione della Corte non punta l’attenzione sulla legittimità della distinzione italiano/immigrato (trattandosi di requisiti di residenza richiesti solo agli stranieri), ma valuta l’irragionevolezza intrinseca della previsione, con la conseguenza che il ragionamento “si attaglia perfettamente non solo alle norme che prevedono requisiti di lungo residenza per soli stranieri…ma anche alle norme che prevedono detti requisiti in modo indifferenziato”[18].

2. La sentenza n. 44 del 2020

Se questi sono i precedenti alla pronuncia che qui si commenta, possiamo già anticipare che la sentenza n. 44 presenta plurimi profili d’interesse.

La l.r. lombarda 8 luglio 2016 n. 16, analogamente a quanto già previsto dalla previgente normativa già oggetto dell’ordinanza n. 32 del 2008 della Corte, stabiliva che i beneficiari dei servizi abitativi pubblici devono, tra i vari requisiti, avere “residenza anagrafica o svolgimento di attività lavorativa in Regione Lombardia per almeno cinque anni nel periodo immediatamente precedente la data di presentazione della domanda”.

La Corte dopo aver ribadito, richiamando la propria giurisprudenza sul tema, che il diritto all’abitazione rientra tra i diritti inviolabili e che l’abitazione è “bene di primaria importanza” e dopo aver sottolineato che “i criteri adottati dal legislatore per la selezione dei beneficiari dei servizi sociali devono presentare un collegamento con la funzione del servizio”[19], conclude per l’ “irragionevolezza del requisito della residenza ultraquinquennale previsto dalla norma censurata come condizione di accesso al beneficio dell’alloggio ERP”, in quanto esso non rivela alcuna condizione significativa attinente alla situazione di bisogno o di disagio del richiedente.

Di fronte all’argomento della difesa regionale che veniva a ricalcare alcune affermazioni della sent. n. 222 del 2013 (vedi supra), in base al quale il requisito della residenza protratta servirebbe a garantire un’adeguata stabilità nell’ambito della regione, la Corte sottolinea che esso non è di per sé indice di un’elevata probabilità di permanenza in un determinato territorio ed osserva anche che lo stesso radicamento territoriale non potrebbe comunque assumere importanza tale da escludere qualsiasi rilievo del bisogno. È, infatti, “irragionevole che anche i soggetti più bisognosi siano esclusi a priori dall’assegnazione degli alloggi solo perché non offrirebbero garanzie di stabilità”, e come già affermato nella sentenza n. 107 del 2018[20] siffatti requisiti rischiano di “privare certi soggetti dell’accesso alle prestazioni pubbliche solo per il fatto di aver esercitato il proprio diritto di circolazione o di aver dovuto mutare regione di residenza”.

Analoghe considerazioni sono rivolte al requisito dello svolgimento di attività lavorativa, perché, anche se esso può essere considerato un ragionevole indice di collegamento col territorio, comporta la negazione del rilievo della condizione di bisogno in contraddizione con la funzione sociale del servizio.

La Corte conclude che i requisiti previsti dalla legge lombarda contrastano sia con i principi di eguaglianza e ragionevolezza di cui all’art. 3, primo comma Cost. per l’ingiustificata disparità di trattamento, sia con il principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, secondo comma, perché essi contraddicono la funzione sociale dell’edilizia residenziale pubblica. E possono inoltre venire a discriminare non solo gli stranieri, ma anche i cittadini che abbiano esercitato la loro libertà di circolazione e soggiorno.

Nell’ampio e articolato panorama della giurisprudenza della Corte sul tema[21], questa sentenza si pone in linea con quelle pronunce (cfr. sentt. n. 40/2011, 2/2013, 133/2013, 172/2013, 107/2018 che riguardavano però altre tipologie di prestazioni sociali) che colgono nella richiesta della residenza prolungata sul territorio una distonia, un requisito cioè non coerente con la ratio della norma, il quale finisce per essere ingiustamente discriminatorio nei confronti di chi quella residenza non l’ha maturata[22]. La Corte adotta una motivazione stringata, ma chiara e incisiva che mette in evidenza come “il radicamento territoriale” non può “assumere importanza tale da escludere qualsiasi rilievo del bisogno”: la richiesta di un certo numero di anni di residenza risulta fuori asse rispetto alla finalità della legge e quindi depriva la norma di coerenza interna. E come sottolineato nella sentenza n. 107/2018, se una provvidenza risponde direttamente alla finalità di uguaglianza sostanziale fissata dall’art. 3, secondo comma Cost. deve rispondere alla situazione di disagio che si intende supportare e non far riferimento a criteri ad essa estranei.

Anche rispetto alle recenti sentenze n. 106 e 166 del 2018 (vedi supra), che giungono alla declaratoria di incostituzionalità anche per la sproporzione del numero di anni di residenza richiesti, ma non mettono in discussione la possibilità per il legislatore di prevedere un radicamento territoriale ulteriore rispetto alla mera residenza[23], questa pronuncia coglie invece una irragionevolezza nel prendere in considerazione un elemento estraneo alla logica della provvidenza per determinarne l’accesso.

È la prima volta che con riferimento al diritto all’abitazione viene focalizzato così nitidamente il collegamento fra i criteri adottati dal legislatore e la funzione del beneficio in ossequio alla “struttura tipica del sindacato svolto ai sensi dell’art. 3, primo comma Cost., che muove dall’identificazione della ratio della norma di riferimento e passa poi alla verifica della coerenza con tale ratio del filtro selettivo introdotto”.

Ricordo, infine, che non poche normative regionali esigono il requisito della residenza protratta[24], tanto che si è parlato di costruzione delle “cittadinanze regionali” come “piccole patrie”[25]. Inoltre il carattere intrinsecamente discriminatorio delle politiche abitative non deve essere considerato solo sotto il punto di vista dell’accesso alle provvidenze sociali, ma deve essere calato all’interno di un dibattitto pubblico più ampio, sulle politiche urbanistiche[26], perché “i modi e le forme di inserimento socio-spaziale degli stranieri rappresentano per la disciplina urbanistica una cartina di tornasole per osservare l’efficacia (o il fallimento) degli attuali processi di governo del territorio e riflettere su come rendere gli spazi urbani più equi, giusti e vivibili per tutti”[27].

 

[1] F. Corvaja, Cittadinanza e residenza qualificata nell’accesso al welfare regionale, in Le Regioni, 2011, 1271 che mette anche in evidenza gli effetti paradossali di una diffusione di tale criterio nei confronti delle persone che mutino frequentemente la loro residenza. D. Tega, Le politiche xenofobe continuano a essere incostituzionali, in Diritti regionali, 2.2018.

[2] Ex multis: C. Corsi, L’accesso degli stranieri ai diritti sociali, in Cittadinanze amministrative, a cura di A. Bartolini e A. Pioggia, vol. VIII, in A 150 anni dall’unificazione amministrativa italiana, Firenze, Fup, 2016, 133 ss.; F. Biondi Dal Monte, Dai diritti sociali alla cittadinanza, Torino, Giappichelli, 2013; W. Chiaromonte, Lavoro e diritti sociali degli stranieri, Torino, Giappichelli, 2013; B. Pezzini, Una questione che interroga l’eguaglianza, in Lo statuto costituzionale del non cittadino, Atti del XXIV Convegno annuale AIC, Napoli, Jovene, 2010.

[3] Corte cost., ord. 21 febbraio 2008, n. 32.

[4] Art. 3, co. 41-bis della l.r. Lombardia 5 gennaio 2000, n. 1, introdotto dall’art. 1, lett. a) della l.r. 8 febbraio 2005, n. 7. Per un’analisi critica della legge, vedi M. Gorlani, Accesso al welfare state e libertà di circolazione: quanto «pesa» la residenza regionale?, in Le Regioni, 2006, 345 ss.

[5] C. Corsi, Il diritto all’abitazione è ancora un diritto costituzionalmente garantito anche agli stranieri?, in Dir. Imm. Citt., 3-4.2008, 145; cfr. F. Corvaja, Libera circolazione dei cittadini e requisito di residenza regionale per l’accesso all’edilizia residenziale pubblica, in Le Regioni, 2008, 611 ss.

[6] Sentt. 9 febbraio 2011, n. 40; 18 gennaio 2013, n. 2; 7 giugno 2013, n. 133; 4 luglio 2013, n. 172.

[7] Per un commento alla sentenza vedi L. Principato, L’integrazione sociale, fine o condicio sine qua non dei diritti costituzionali?, in Giur. cost., 2013, 3294 ss. che parla di ragionamento a geometria variabile.

[8] La stessa sentenza dichiarava l’illegittimità dell’ulteriore requisito (per i soli stranieri) della residenza da almeno cinque anni nel territorio nazionale per l’accesso alle diverse prestazioni sociali disciplinate dalla l.r. friulana 30 novembre 2011, n. 16. Con riferimento invece al requisito (rivolto a cittadini e stranieri) della residenza biennale nel territorio regionale la Corte articola diversamente il ragionamento a seconda del tipo di beneficio.

[9] F. Pallante, Gli stranieri di fronte al diritto all’abitazione, in Diritti uguali per tutti? a cura di A. Giorgis, E. Grosso, M. Losana, Milano, FrancoAngeli, 2017, 255. Cfr. P. Bonetti, Il diritto all’abitazione, in I percorsi giuridici per l’integrazione, a cura di G. Caggiano, Torino, Giappichelli, 2014, 551 ss.; A. Ciervo, Il diritto all’abitazione dei migranti, in I diritti di cittadinanza dei migranti, (a cura di) L. Ronchetti, Milano, Giuffrè, 2012, 265 ss.

[10] La Corte di giustizia ha più volte chiarito che il requisito della residenza ai fini dell’accesso ad un beneficio può venire a configurarsi come una forma di discriminazione dissimulata in quanto esso può essere più facilmente soddisfatto dai nazionali, e quindi costituire una restrizione alla libertà di circolazione.

[11] Cfr. Corte di giustizia, sent. 24 aprile 2012, C-571/10 Kamberaj c. Provincia di Bolzano; G. Pelacani, La parità di trattamento dei cittadini di paesi terzi soggiornanti di lungo periodo nell’accesso alle prestazioni assistenziali: il caso Kamberaj, in Le Regioni, 2012, 1233 ss.

[12] L.r. 6 giugno 2017, n. 13 recante modifiche alla l.r. 29 giugno 2004, n. 10 e alla l.r. 3 dicembre 2007, n. 38.

[13] Il termine stranieri va qui inteso far riferimento ai cittadini di Stati non appartenenti all'Unione europea e agli apolidi (cfr. art. 1 del t.u. imm.).

[14] La legge valdostana faceva comunque riferimento alla residenza sul territorio regionale e rivolgeva detto requisito nei confronti di tutti gli aspiranti, qualunque fosse la loro nazionalità.

[15] Il giudice milanese era stato chiamato ad accertare la natura discriminatoria di una delibera della giunta regionale lombarda e di una delibera del comune di Milano che erano venute a fissare i requisiti per l’accesso al Fondo “sostegno affitti” ricalcando i requisiti previsti dal legislatore statale.

[16] M. Vrenna, Il Decreto Legge n. 112 del 2008 e le misure per il contenimento della spesa sociale e di quella sanitaria: piano casa, assegno sociale e questioni aperte sul trattamento dei comunitari, in Gli stranieri, 6.2008, 568 ss.

[17] Art. 11, comma terzo, l. n. 431/1998.

[18] A. Guariso, Le sentenze della Corte costituzionale 106, 107 e 166 del 2018: diritto alla mobilità e tramonto del localismo, in Dir. Imm. Citt., 3.2018, 9.

[19] La sentenza richiama ex plurimis i seguenti precedenti: sentt. n. 166 e 107 del 2018; sent n. 168 del 2014; sentt. n. 172 e n. 133 del 2013 e n. 40 del 2011.

[20] La sentenza n. 107 del 2018 aveva ad oggetto una disposizione della l.r. veneta che tra i titoli di precedenza per l’ammissione all’asilo nido prevedeva la residenza in Veneto dei genitori anche in modo non continuativo da almeno quindici anni o la prestazione di attività lavorativa in Veneto ininterrotta da almeno quindici anni, compresi eventuali periodi intermedi di cassa integrazione, o di mobilità o di disoccupazione.

[21] Sulle oscillazioni della giurisprudenza della Corte rispetto alla domanda: quanta eguaglianza è dovuta agli stranieri nel godimento dei diritti sociali?, cfr. F. Corvaja, Straniero e prestazioni di assistenza sociale: la Corte fa un passo indietro ed uno di lato, in Dir. Imm. Citt., 3.2019, 244 ss.

[22] C. Corsi, Stranieri, diritti sociali e principio di eguaglianza nella giurisprudenza della corte costituzionale, in Federalismi, 2014.

[23] Le sentenze n. 106 e 166 richiamano la n. 222 del 2013 che aveva ritenuto legittimo prendere in considerazione un radicamento territoriale ulteriore rispetto alla mera residenza, ed inoltre la sent. n. 166 conclude affermando, che resta ferma la possibilità che il legislatore individui altri indici di radicamento territoriale e sociale, nei limiti ovviamente del principio ragionevolezza.

[24] Vedi C. Corsi, Peripezie di un cammino verso l’integrazione giuridica degli stranieri. Alcuni elementi sintomatici, in Rivista AIC, 1.2018, 16 nota n. 77.

[25] F. Dinelli, Le appartenenze territoriali, Napoli, Jovene, 2011, 213.

[26] E. Olivito, Il diritto costituzionale all’abitare, Napoli, Jovene, 2017, 264.

[27] G. Marconi, M. Marzadro, L’abitare urbano al plurale. Immigrazione e questione casa, in Archivio di studi urbani e regionali, 2015, 7.

05/05/2020
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