Gli occhielli di copertina (Un magistrato contro la gogna giudiziaria) e di quarta (Supplenza politica, processo mediatico, protagonismo: i mali della giustizia italiana raccontati dall’interno); il sottotitolo (che evidenzia l’appartenenza politica dell’autore); la notizia, appresa sempre dalla quarta, secondo cui Piero Tony avrebbe lasciato anticipatamente la magistratura «per essere libero di protestare» con la speranza di ottenere che il «virus» che mina la giustizia del nostro Paese possa finalmente essere combattuto; il titolo stesso, che sembra alludere a notizie di cui l’a. sarebbe entrato in possesso nell’esercizio delle sue varie e importanti funzioni giurisdizionali (al punto da doversene distaccare per poterne parlare); sono, questi, tutti elementi che farebbero pensare a un’opera deflagrante – letta la quale il mondo dovrebbe apparire a tutti sotto una diversa luce.
Diciamo subito che così non è. L’autore non riesce a stupirci con le sue rivelazioni, semplicemente perché queste – senza eccezioni – interessano fatti e fenomeni ampiamente noti e discussi. Stupisce semmai, e favorevolmente, la cifra morale di un magistrato d’antan che, in ruolo dal 1969, ha continuato ad osservare la realtà intorno a sé – quella della giustizia minorile, ma soprattutto quella penale dal lato del procuratore – con preoccupazione e disagio crescenti. Registrando le tante cose che non vanno, sino a non poterne più.
I capitoli del libro, come le stazioni di una via della croce, indicano (per difetto) i mali di quella giustizia e di quella magistratura: la supplenza e le responsabilità dei singoli che, magari sentendosi «sentinelle della democrazia», non esitano a violarne regole intuitive quasi fossero legibus soluti; le correnti, strumenti attraverso cui la vita politica entra di prepotenza in quella dei magistrati facendo dell’organo di autogoverno un parlamentino temuto, più che rispettato (e assai poco lo rispetta il TAR Lazio); la grande lentezza (citazione da Sorrentino?) tra riti alternativi, rapporti problematici con la polizia giudiziaria, incapacità del sistema di dare risposte nel “termine ragionevole” nonostante l’incombere delle prescrizioni che mandano in fumo il lavoro di anni; la discrezionalità, o altrimenti morte della terzietà, tra l’equivoco dell’obbligatorietà dell’azione penale e il protagonismo di certi PM che imbastiscono indagini che già sanno inconcludenti ma che al contempo permetteranno loro di infliggere all’indagato una pena anticipata quanto ingiustificata – la custodia preventiva – che sovente resta l’unica possibile; le riforme del sistema della giustizia penale, che sembrano a portata di mano (sarebbe così facile, ripete Tony) ma che stranamente nessuno propone, anche all’interno della magistratura. Si auspicano certe riforme istituzionali (l’accesso al CSM per sorteggio, come in un racconto di J.L. Borges), che potrebbero – personalmente ne dubito molto – sfilacciare il legame insano che unisce magistratura e politica.
Certo, le soluzioni proposte da Tony non sono sempre in linea con la corrente “di sinistra” nella quale ha sempre militato: basti dire che dal suo punto di vista, improntato soprattutto a ragionevolezza (e certamente post-ideologico), la separazione delle carriere tra giudici e PM è un fatto scontato. Tony lamenta che spesso, più che reati, si perseguano “fenomeni”, comportamenti (anche diffusi nella società) dei quali il PM dà, senza alcuna particolare legittimazione, anzitutto un giudizio “morale” e inevitabilmente legato alla storia. In queste loro operazioni, apparentemente senza regole, i PM hanno a disposizione un enorme megafono, di cui spesso impunemente si abusa: il rapporto privilegiatissimo con la stampa (fenomeno che Tony chiama “bignè”: «metodo collaudato che cattura l’attenzione dei giornalisti e rende appetibile un’indagine, proprio come un bignè»). Se per la stampa è un dolcetto, per chi si trova coinvolto nella propalazione incontrollata di verbali, intercettazioni, dichiarazioni fuori contesto etc. il tutto diventa facilmente un incubo.
L’augurio finale è che sopravvenga una radicale e generale modifica del sistema – ma non si sa davvero chi potrebbe proporla, e con quale séguito in parlamento – allo scopo di rimettere in moto quel «sonnacchioso pachiderma pressoché immobile» che è ora la giustizia penale (anche civile, afferma Tony, sebbene il tema non venga mai direttamente affrontato: ma si suppone che, se la giustizia penale funziona così nonostante gli investimenti in uomini e mezzi – pensiamo soltanto al costo delle intercettazioni – quella civile potrà funzionare inevitabilmente assai peggio). L’a. confessa che per poter liberamente diffondere il suo grido di allarme ha dovuto abbandonare la magistratura, «perché altrimenti, per pormi al riparo dagli attacchi, avrei dovuto affrontare seri problemi alchemici di correnti associative».
È forse questo l’aspetto del libro che lascia maggiormente perplessi. L’a. non dice nulla – la sua correttezza glielo avrebbe forse impedito – che già non si sappia e che anche il pubblico “generalista” non abbia per sua parte già digerito, ormai assuefatto a quelle situazioni che a giudizio di Tony non sono normali. Magistrati che entrano e escono dalla politica (o non ne escono più, aspirando al ruolo di padri della patria), PM che esercitano le funzioni per prepararsi avventurose discese in campo (a volte riuscite, altre meno) o che, chiamati ad occuparsi di settori particolarmente delicati e socialmente esposti, si sentono poi legittimati ad interloquire su ogni passaggio della vita politica immedesimandosi in un ruolo catoniano.
Tony ricorda la felice battuta di un magistrato affidatario durante il suo tirocinio: hai vinto un concorso per fare il magistrato, non per essere ordinato a divinità. Molti magistrati, soprattutto PM, non hanno evidentemente avuto la fortuna di incontrare maestri altrettanto saggi. Il problema è che non li incontrano, poi, neppure nella c.d. società civile, incapace di individuare un limite di ragionevolezza tra ciò che il magistrato può fare perché tale, ciò che può fare quale cittadino (ma non certo quivis de populo) che deve godere delle stesse garanzie costituzionali di tutti gli altri, ciò che può fare nel territorio della sua giurisdizione, ciò che può fare soltanto rinunciando a quanto potrà fare in futuro, e così via discorrendo secondo un copione notissimo e immutabile perché il problema non è stato mai seriamente affrontato. Sebbene se ne parli sempre più insistentemente.
Quindi le riflessioni di un galantuomo, magistrato che vorrebbe parlare dal di dentro, sembrano piuttosto il frutto di osservazioni fatte dal di fuori – ovvero di chi “dentro” non c’è mai davvero entrato. Non certo per propri limiti: ma per la semplice, disarmante ragione che non sono questi i tempi in cui un galantuomo può essere a suo agio nel professare un’idea astratta della funzione, slegata dal corpo sociale di riferimento e dal contesto in cui è tenuto ad agire.
Le istituzioni di cui parla Tony sono molto peggiori di quelle che lui vorrebbe semplicemente perché è divenuta molto peggiore la società: della quale la magistratura, come ogni altra pubblica istituzione, non può che essere espressione conseguente.
Non ho elementi per dirlo, ma non credo che il libro abbia avuto l’effetto deflagrante preventivato (e abilmente perseguito dall’editore). Come nel marziano a Roma di E. Flaiano, tutto era già stato digerito, impastato, metabolizzato, trasformato: fino alla esiziale battuta marzià, fàcce ride.
Tony conclude tutti i suoi capitoli con frasi ricorrenti: «no, non posso tacere», «io non ci sto», e simili. Ma il problema non è certo lui. Lui è soltanto il magistrato galantuomo che, prima di chiudere la porta, ha detto senza mezzi termini, ma comunque con garbo, quel che pensava. Avrebbe potuto farlo prima, qualcuno potrà dire. Avrebbe potuto farlo dal di dentro, per essere più incisivo. Dal mio osservatorio (di chi ha conosciuto la magistratura dall’interno e da quasi vent’anni ne è fuori) potrei aggiungere: ma forse, se anche lo avesse fatto e se avesse scritto il libro restando in ruolo, nulla sarebbe cambiato.