Magistratura democratica
Giurisprudenza e documenti

La tutela della salute e della sicurezza sul lavoro dei riders ai tempi del Covid-19

di Giulia Municchi
tirocinante presso il Tribunale di Bologna
I Giudici del lavoro e l’ordine di consegna dei dispositivi di protezione individuale: la rete dei diritti e della protezione giuridica progressivamente si estende a tutte le “nuove” forme di lavoro per troppo tempo trascurate

 

1. Premessa

La chiusura di gran parte delle attività economiche e produttive – a partire da bar e ristoranti – disposta con il Dpcm 11 marzo 2020 nell’ambito delle misure di contrasto alla diffusione dell’epidemia da Covid-19, ha fatto tornare in auge la tanto discussa attività dei ciclo-fattorini (cd. riders) operanti sulle piattaforme digitali a ciò dedicate, dal momento che dal provvedimento governativo è stata esplicitamente ammessa la possibilità della consegna a domicilio di cibi e bevande.

Questo contributo, in particolare, si propone di esaminare i provvedimenti dei Giudici del lavoro che hanno dovuto affrontare una fondamentale questione, ossia la richiesta di emissione in via di urgenza – da parte dei riders ricorrenti nei confronti delle relative società – di un decreto ex art. 700, cpc inaudita altera parte contenente l’ordine di consegnare ai lavoratori i dispositivi di protezione individuale (cd. Dpi), quali mascherine, guanti, gel igienizzanti e soluzioni a base alcolica per la disinfezione degli zaini, che permettessero loro di svolgere la propria attività in condizioni di sicurezza.

2. La decisione del Tribunale del Lavoro di Firenze in tema di diritto dei riders ai Dpi durante lo svolgimento della prestazione

Una prima pronuncia è rinvenibile nel decreto del Tribunale di Firenze, Sez. Lavoro, n. 886/2020, pubblicato in data 1/4/2020. Il giudice, in particolare, ha ritenuto sussistenti il fumus boni iuris e il periculum in mora con riferimento alla menzionata richiesta del ricorrente e, perciò, ha ordinato alla società resistente la consegna a favore del rider dei Dpi oggetto del ricorso. Sotto il primo profilo, infatti, l’organo giudicante ha rilevato che “pur se qualificabile come autonomo, il rapporto di lavoro de quo pare ricondursi a quelli disciplinati dall’art. 2, D.Lgs. 81/2015”, facendo riferimento alla recente sentenza della Suprema Corte, n. 1663/2020. Quest’ultima, in particolare, ha stabilito che “in un'ottica sia di prevenzione sia "rimediale", si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato quando la prestazione del collaboratore sia esclusivamente personale, venga svolta in maniera continuativa nel tempo e le modalità di esecuzione della prestazione, anche in relazione ai tempi ed al luogo di lavoro, siano organizzate dal committente”. Il Tribunale di Firenze ha anche ritenuto applicabile al caso di specie – deve ritenersi in via subordinata – il Capo V-bis del d.lgs 81/2015, rubricato Tutela del lavoro tramite piattaforme digitali e finalizzato, in base a quanto disposto dal comma 1 dell’art. 47-bis, a “stabilire livelli minimi di tutela per i lavoratori autonomi che svolgono attività di consegna di beni per conto altrui, in ambito urbano e con l'ausilio di velocipedi o veicoli a motore”. In particolare, tra i “livelli minimi di tutela” citati, l’art. 47-septies, co. 3 include l’obbligo “per il committente che utilizza la piattaforma” di rispettare la disciplina ex d.lgs. 81/2008 (cd. Testo Unico sicurezza sul lavoro). Il decreto in esame ha anche fatto specifico riferimento all’art. 71 del richiamato Testo Unico, il quale impone al “datore di lavoro” di “mette(re) a disposizione dei lavoratori attrezzature conformi ai requisiti di cui all'articolo precedente, idonee ai fini della salute e sicurezza e adeguate al lavoro da svolgere o adattate a tali scopi, che devono essere utilizzate conformemente alle disposizioni legislative di recepimento delle direttive comunitarie. Inoltre, il giudice fiorentino ha aggiunto che la stessa società resistente, pur non avendo fornito al ricorrente i menzionati Dpi, ne aveva consigliato l’uso ai fini dello svolgimento in sicurezza dell’attività lavorativa. Se pure tale condotta datoriale appare logica conseguenza della qualificazione contrattuale del rapporto di lavoro come autonomo, essa, tuttavia, denota la consapevolezza in capo alla piattaforma della necessità di fornire ai riders i suddetti presidi di sicurezza ai fini di tutela della salute del prestatore e – deve aggiungersi – dei clienti e della collettività intera.

Sotto il profilo, invece, del periculum in mora, il Tribunale ha rilevato che “sussiste il pregiudizio imminente ed irreparabile, in quanto la protrazione dello svolgimento dell’attività di lavoro in assenza dei predetti dispositivi individuali di protezione potrebbe esporre il ricorrente, durante il tempo occorrente per una pronuncia di merito, a pregiudizi, anche irreparabili, del diritto alla salute” e che “la natura del diritto coinvolto e l’attuale rischio di possibile contagio da COVID-19 durante lo svolgimento dell’attività lavorativa sono tali che la convocazione della controparte potrebbe pregiudicare l’attuazione del provvedimento; deve pertanto disporsi ai sensi dell’art. 669-sexies, cpc l’invocato provvedimento inaudita altera parte”.

Infine, il giudice ha precisato che “il presente procedimento non soffre la sospensione ex lege disposta dall’art. 83, comma 1, dl. 18/2020, in quanto rientrante tra le eccezioni espressamente previste dall’art. 83, co. 3, lett. a) (“procedimenti cautelari aventi ad oggetto la tutela di diritti fondamentali della persona”)”, aggiungendo che il Presidente del Tribunale di Firenze aveva disposto che “per i procedimenti di lavoro e di previdenza sia adottata la modalità della trattazione scritta di cui all’art. 83, comma 7, lett. h), dl. 18/2020, con autorizzazione al deposito di note scritte e repliche e successiva adozione fuori udienza del provvedimento del giudice” e assegnando, di conseguenza, i termini alle parti per detti adempimenti.

Peraltro, il decreto in esame è stato successivamente confermato con ordinanza dal medesimo giudice, il quale ha, anzitutto, rigettato le eccezioni di rito proposte dalla società convenuta relative all’asserita incompetenza per materia e per territorio del Tribunale di Firenze – in favore del Tribunale di Milano – e all’improcedibilità, inammissibilità e nullità del ricorso, con riferimento alla ritenuta omessa indicazione della domanda di merito da parte del ricorrente e alla natura “completamente satisfattiva” della medesima.

Ulteriormente, il giudice ha confermato la sussistenza nel caso di specie del fumus boni iuris e del periculum in mora. Sotto il primo profilo, in particolare, il Tribunale ha ribadito la riconducibilità del rapporto di lavoro del caso concreto alla fattispecie disciplinata dall’art. 2, co. 1, d.lgs 81/2015 – così come novellato dalla riforma del 2019 – e ha ritenuto soddisfatti tutti e tre i requisiti richiesti dalla norma menzionata, ossia la personalità, la continuità e l’etero-direzione della prestazione. Alla luce di tale conclusione, dunque, il giudice fiorentino ha affermato che “può ragionevolmente ritenersi che, in favore del ricorrente, sia da riconoscere l’applicazione della disciplina a tutela delle condizioni di igiene e sicurezza dei luoghi di lavoro, con correlativi obblighi a carico della convenuta” e che i menzionati obblighi “non possano essere assolti mediante il mero invio ai riders delle varie informative circa le regole da comportamento da seguire in conformità con le linee guida previste dal protocollo concordato tra Assodelivery e FIPE - Federazione Italiana Pubblici Esercizi […], in quanto in essi è da ricomprendere anche l’obbligo di fornire al lavoratore gli strumenti di protezione individuale […] atti a prevenire il rischio da contagio nell’ambito della attuale e notoria emergenza epidemiologica da COVID-19 […]”. L’organo giudicante ha, inoltre, respinto l’osservazione di parte convenuta relativa al fatto che “non vi sia ad oggi alcuna certezza scientifica […] dell’assoluta necessità di dispostivi menzionati da controparte al fine di prevenire rischi da contagio”, aggiungendo anche che “ad identica conclusione si [può] giungere ove si ritenga applicabile al caso di specie la disciplina del Capo V-bis del d.lgs 81/2015”, in quanto “appare […] riduttiva e contraria alla ratio della legge l’interpretazione della normativa proposta dalla convenuta, secondo cui, in caso di lavoro autonomo, l’art. 47-septies, comma 3 […] circoscriverebbe il rinvio alla sola tutela accordata per i lavoratori autonomi dagli artt. 21 e 26, d.lgs 81/2008 (nei quali non è contemplato l’obbligo di fornitura di dispositivi di protezione individuale)”. Se si assecondasse tale interpretazione, infatti, a parere del giudice, “la norma sarebbe del tutto inutile e, soprattutto, contraria alla stessa espressa esigenza della legge di assicurare ai lavoratori “livelli minimi di tutela” in un’ottica di rafforzamento della tutela degli stessi”. 

In relazione al secondo profilo, ossia quello relativo alla sussistenza del periculum in mora nel caso di specie, il giudice ha richiamato le osservazioni già espresse nel decreto emesso inaudita altera parte, aggiungendo che queste ultime “non sono superate dal fatto che la convenuta abbia fornito al ricorrente una mascherina chirurgica […] ed un kit contenente guanti monouso, mascherine e bustine di gel disinfettante […]”, in quanto tali forniture sono avvenute successivamente al deposito del ricorso cautelare da parte del rider e “sono state espressamente effettuate “volontariamente” e “in un’ottica socialmente responsabile”, nella esplicitata convinzione da parte di Just Eat S.r.l. di non esserne obbligata ai sensi della normativa legale e contrattuale applicabile”. Di conseguenza, a parere del giudice, stante il carattere “volontario” dell’atto e in assenza del provvedimento cautelare invocato, sussisterebbe il rischio che tali forniture possano essere arbitrariamente interrotte dalla piattaforma stessa in futuro o comunque nell’arco di tempo necessario per raggiungere una decisione di merito, con conseguente potenziale compromissione del diritto alla salute del lavoratore.

3. Il decreto del Tribunale di Bologna si pone in linea con il precedente fiorentino

Un decreto analogo a quello del Tribunale di Firenze è stato emesso all’esito del ricorso ex art. 700, cpc presentato innanzi al Giudice del Lavoro del Tribunale di Bologna da parte di un rider nei confronti della piattaforma digitale presso la quale operava in forza di un contratto formalmente qualificato come di lavoro autonomo. Anche in tal caso, oggetto del ricorso era la consegna al lavoratore dei Dpi da parte della società convenuta in costanza dell’emergenza sanitaria da Covid-19.

In accordo con il precedente fiorentino, anche il Tribunale di Bologna ha ritenuto sussistenti i presupposti ai fini dell’emissione del decreto d’urgenza inaudita altera parte e, in primo luogo, ha considerato applicabile al caso di specie l’art. 2, co. 1, d.lgs n. 81/2015, così come novellato dalla l. n. 128/2019[1]. Il giudice bolognese, inoltre, ha fatto riferimento anche alla già menzionata sentenza della Suprema Corte, n. 1663/2020, la quale ha disposto che “quando l'etero-organizzazione, accompagnata dalla personalità e dalla continuità della prestazione, è marcata al punto da rendere il collaboratore comparabile ad un lavoratore dipendente, si impone una protezione equivalente e, quindi, il rimedio dell'applicazione integrale della disciplina del lavoro subordinato” e che “si tratta di una scelta di politica legislativa volta ad assicurare al lavoratore la stessa protezione di cui gode il lavoro subordinato, in coerenza con l'approccio generale della riforma, al fine di tutelare prestatori evidentemente ritenuti in condizione di "debolezza" economica, operanti in una "zona grigia" tra autonomia e subordinazione, ma considerati meritevoli comunque di una tutela omogenea”. La Suprema Corte, peraltro, ha aggiunto che la novella del 2019 “va certamente nel senso di rendere più facile l'applicazione della disciplina del lavoro subordinato, stabilendo la sufficienza per l'applicabilità della norma di prestazioni "prevalentemente" e non più "esclusivamente" personali, menzionando esplicitamente il lavoro svolto attraverso piattaforme digitali e, quanto all'elemento della "etero-organizzazione", eliminando le parole "anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro"”.

Di conseguenza, alla luce della citata evoluzione legislativa e giurisprudenziale, il giudice di Bologna ha richiamato, con riferimento ai c.d. riders, la “necessità di estendere anche a tali lavoratori, a prescindere dal nomen iuris utilizzato dalle parti nel contratto di lavoro, l’intera disciplina della subordinazione e, in particolare, per quanto qui interessa, la disciplina in tema di tutela delle condizioni di igiene e sicurezza dei luoghi di lavoro, fra cui rientrano tutte le norme che prevedono l’obbligo a carico del datore di lavoro di continua fornitura e manutenzione dei Dispositivi di Protezione Individuale”. Infine, l’organo giudicante ha osservato che “il Dpcm 11 marzo 2020, che ha disposto sull’intero territorio nazionale la sospensione delle attività dei servizi di ristorazione […], ha consentito la prosecuzione della sola ristorazione con consegna a domicilio “nel rispetto delle norme igienico-sanitarie sia per l’attività di confezionamento che di trasporto”, con ciò implicitamente onerando l’imprenditore di provvedere a garantire il richiesto rispetto delle prescrizione igienico-sanitarie previste per l’attività di trasporto e consegna a domicilio del cibo, e ciò a tutela della salute non solo degli operatori, ma anche dell’utenza del servizio e, con essa, della collettività intera”, aggiungendo, peraltro, che “nel novero delle prescrizioni igienico sanitarie appare ragionevolmente ricompreso l’uso dei dispositivi di protezione individuale, quali guanti, mascherine e prodotti igienizzanti”.

In conclusione, in base alle richiamate osservazioni, il giudice di Bologna ha deciso in senso analogo al Tribunale fiorentino in merito alla sussistenza, nel caso di specie, sia del fumus boni iuris sia del periculum in mora e, di conseguenza, ha ordinato alla società resistente di “consegnare immediatamente al ricorrente i dispositivi di protezione individuale di cui al ricorso […], in quantità adeguata e sufficiente allo svolgimento dell’attività lavorativa”. Peraltro, alla luce della normativa d’urgenza emanata con riferimento alla disciplina del rito civile in costanza dell’emergenza sanitaria, il giudice bolognese ha ravvisato anche l’opportunità di trattare la fattispecie secondo la modalità di trattazione scritta ex art. 83, co. 7, lett. h), dl. 18/2020, facendo salva l’eventualità di concedere alle parti che ne avessero fatto richiesta l’assegnazione di un termine per il deposito di ulteriori repliche in sostituzione della discussione in udienza.

4. La giurisprudenza italiana in tema di qualificazione dei riders e il rapporto di lavoro etero-organizzato ex 2, co. 1, d.lgs 81/2015

All’esito dell’esame dei decreti in parola, è possibile individuare due principali profili che li accomunano, ossia, da un lato, la qualificazione dei rapporti di lavoro esaminati come etero-organizzati, ai sensi dell’art. 2, co. 1, d.lgs. 81/2015, sia pure ai soli fini del fumus boni iuris; dall’altro lato, il fondamentale riferimento alla già citata sent. n. 1663/2020 della Suprema Corte. Tale pronuncia, in particolare, è intervenuta sulla questione, oggetto di diversi esiti in ambito giurisprudenziale, relativa alla qualificazione dei c.d. riders come lavoratori autonomi o subordinati.

Il dibattito citato, infatti, aveva preso le mosse davanti al Tribunale di Torino, il quale, con sent. n. 778/2018, aveva respinto entrambe le domande dei lavoratori ricorrenti. Nella specie, veniva richiesto, in via principale, il riconoscimento della natura subordinata del rapporto ex art. 2094, cc e, in via subordinata, l’applicazione al caso concreto della disciplina ex art. 2, co. 1, d.lgs. 81/2015 afferente il c.d. lavoro etero-organizzato. Tuttavia, il giudice torinese riteneva che i riders ricorrenti fossero qualificabili come lavoratori autonomi sulla base del rilievo per cui gli stessi avevano la possibilità di dare o meno la propria disponibilità alla piattaforma relativamente ai turni delle consegne. Il Tribunale, di conseguenza, ravvisava un mero coordinamento intercorrente tra i fattorini e la piattaforma committente e, peraltro, interpretava il menzionato art. 2 come una norma apparente, ossia inidonea ad apportare modifiche all’assetto ordinamentale in relazione alla distinzione tra lavoro autonomo e subordinato.

I riders, perciò, ricorrevano in appello contro la decisione di primo grado, ottenendone una parziale riforma. La Corte d’Appello, infatti, con sent. 26/2019, pur non ritenendo applicabile al caso concreto la disciplina del rapporto di lavoro subordinato, qualificava i ricorrenti come lavoratori etero-organizzati ex art. 2, co. 1, d.lgs. 81/2015 e interpretava tale ultima norma come una “norma di fattispecie”, ossia in grado di creare un tertium genus che si poneva a metà tra lavoro autonomo e subordinato[2].

Contro tale decisione, infine, la piattaforma formulava quattro motivi di ricorso in Cassazione, tutti respinti dalla Corte, la quale, con la già citata sentenza n. 1663/2020, confermava l’applicabilità al caso di specie dell’art. 2, co. 1, d.lgs. 81/2015 nel testo anteriore alla novella di cui al d.l. 101/2019, convertito in l. 128/2019[3].

L’articolo citato, infatti, è stato oggetto di una recente revisione normativa e, nella sua prima stesura, disponeva l’estensione delle tutele previste per i lavoratori subordinati a tutte quelle collaborazioni che si fossero concretizzate in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione fossero organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro. Successivamente, la novella del 2019 ha apportato tre sostanziali modifiche alla disciplina menzionata: i) ha sostituito il carattere della “esclusività” della personalità della prestazione con una mera “prevalenza”; ii) ha, inoltre, soppresso l’ultimo periodo “anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro” e iii) ha, infine, aggiunto la previsione per cui “le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforma digitale[4]

5. Il complesso rapporto tra l’art. 2, co. 1 e l’art. 47-bis, co. 2, d.lgs. 81/2015

Occorre fare qualche osservazione in più in merito alla decisione del Tribunale di Firenze nel punto in cui, sia pure in via subordinata, fa riferimento all’applicabilità al caso concreto della disciplina sancita dagli artt. 47-bis e 47-septies, co. 3, di cui al Capo V-bis, d.lgs. n. 81/2015.

Il Capo V-bis citato, anzitutto, è stato interamente inserito nel d.lgs. n. 81/2015 all’esito della riforma operata dalla l. 128/2019 e – in applicazione dello scopo perseguito dal già menzionato comma 1 dell’art. 47-bis e facendo comunque salvo quanto stabilito dall’art. 2, co. 1 – prevede, nelle disposizioni successive, una serie eterogenea di tutele – in termini di “livelli minimi” – in capo ai riders espressamente qualificati come lavoratori autonomi[5].

Il comma 2 del citato art. 47-bis, peraltro, fornisce una specifica definizione normativa di piattaforma digitale, stabilendo che “ai fini di cui al comma 1, si considerano piattaforme digitali i programmi e le procedure informatiche utilizzati dal committente che, indipendentemente dal luogo di stabilimento, sono strumentali alle attività di consegna di beni, fissandone il compenso e determinando le modalità di esecuzione della prestazione”. Tale previsione, in particolare, pone non pochi problemi di coordinamento con quanto sancito dall’ultimo periodo dell’art. 2, co. 1, ossia “le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali”.

Parte della dottrina[6], infatti, osserva che “se ai sensi dell’art. 47-bis le piattaforme digitali determinano le modalità di esecuzione della prestazione fissandone il compenso, il rapporto di lavoro dovrebbe essere automaticamente ricondotto nell’ambito di applicazione dell’art. 2, co. 1, con applicazione di tutte le tutele del rapporto di lavoro subordinato (non solo quelle minime previste dal Capo V-bis). Addirittura, in tal caso, si potrebbe porre anche la questione di una qualificazione diretta come lavoro subordinato, visto che la piattaforma stabilisce anche il compenso”. Tale potere, infatti, non spetta al committente né è previsto nello schema delle collaborazioni etero-organizzate e neppure in quello della locatio operis in generale, in quanto, in tale ultimo caso, è stabilito che il corrispettivo è determinato in base all’accordo delle parti (ex art. 2225, cc)[7].

Alla luce del descritto difetto di coordinamento tra le due norme, dunque, la dottrina[8] in esame propone una soluzione per razionalizzare il problema. Anzitutto, viene individuato come primo elemento di differenziazione tra le due discipline il fatto che l’art. 47-bis non preveda il requisito della “continuatività” della prestazione, elemento, invece, previsto nella fattispecie ex art. 2, co. 1. Di conseguenza, si ritiene che la prima norma possa fare riferimento ai rapporti di lavoro occasionale[9].

In secondo luogo – sul presupposto che il secondo comma dell’art. 2 consente alla contrattazione collettiva di stabilire ulteriori garanzie a favore dei lavoratori etero-organizzati rispetto a quanto previsto al primo comma –, l’orientamento dottrinale in esame ritiene che “con il Capo V-bis il legislatore abbia inteso definire una disciplina minima, intangibile dalla stessa autonomia collettiva nell’esercizio della sua funzione derogatoria ex art. 2, co. 2[10].

In conclusione, per risolvere il menzionato contrasto, l’autore sostiene che “il lavoratore autonomo della piattaforma avrà diritto se ricorrono le condizioni di etero-organizzazione delle modalità di esecuzione della prestazione univocamente poste dagli artt. 2, co. 1 e 47-bis, co. 2 – alla disciplina del rapporto di lavoro subordinato, ovvero, in caso di intervento dell’autonomia collettiva ai sensi dell’art. 2, co. 2, alla diversa regolamentazione stabilita dalle parti sociali, le quali non potranno tuttavia disattendere la disciplina minima di fonte legislativa contenuta nel Capo V-bis, che assume quindi carattere inderogabile (perché non è nella disponibilità dell’autonomia collettiva) e, al contempo, residuale (perché si applica solo qualora non trovi applicazione l’art. 2, co. 1)[11]

6. L’art. 47-septies, co. 3, d.lgs. 81/2015 e l’interpretazione della nozione di Dpi fornita dalla Suprema Corte in relazione all’art. 2087, cc

Come anticipato, il decreto di Firenze fa espresso riferimento anche all’art. 47-septies, co. 3, d.lgs. n. 81/2015, il quale stabilisce che “il committente che utilizza la piattaforma anche digitale è tenuto nei confronti dei lavoratori di cui al comma 1, a propria cura e spese, al rispetto del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81”. Tale previsione è fondamentale, in quanto colloca tra i “livelli minimi di tutela” previsti dall’art. 47-bis, co. 1 a favore dei riders qualificati come lavoratori autonomi – e/o occasionali – l’obbligo in capo all’impresa che si avvale di tali lavoratori di rispettare la disciplina di cui al d.lgs. n. 81/2008 in materia di sicurezza sul lavoro[12].

Non è chiara la portata del rinvio alla disciplina dettata dal Testo Unico in materia di sicurezza; l’assenza di qualsiasi limitazione o esclusione sembra rendere applicabile ai lavoratori di cui all’art. 47-bis l’intero corredo di misure preventive, in tal modo superando i limiti di applicazione del citato T.U. espressamente previsti per le forme di lavoro parasubordinato ed autonomo. Inoltre, occorre al riguardo dare atto del fatto che l’art. 3, co. 7, T.U. prevede l’applicazione delle proprie disposizioni al lavoro parasubordinato solo “ove la prestazione lavorativa si svolga nei luoghi di lavoro del committente” e che il successivo art. 21 prevede in favore dei lavoratori autonomi solo alcuni obblighi, tra cui quelli di usare le attrezzature di lavoro in conformità alle disposizioni di cui al Titolo III, di munirsi di dispositivi di protezione individuale e di utilizzarli conformemente alle disposizioni di cui al Titolo III. L’articolo menzionato, peraltro, contempla in capo ai medesimi destinatari anche la facoltà di beneficiare della sorveglianza sanitaria secondo le previsioni di cui all’art. 41 e di partecipare a corsi di formazione specifici in materia di salute e sicurezza sul lavoro, incentrati sui rischi propri delle attività svolte, con oneri a proprio carico.

Sul presupposto che i dispositivi individuali di protezione rappresentano uno strumento fondamentale ai fini del contenimento della diffusione del virus, è interessante fare riferimento alla sentenza della Suprema Corte, Sezione Lavoro, n. 16749/2019, la quale precisa in che modo debba essere interpretata la definizione di Dpi contenuta nell’art. 74, co. 1, d.lgs. 81/2008 in rapporto a quanto sancito dall’art. 2087, cc, il quale stabilisce che “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. L’art. 74, co. 1 menzionato, infatti, dispone che “ai fini del presente decreto, si intende per dispositivo di protezione individuale […] qualsiasi attrezzatura destinata ad essere indossata e tenuta dal lavoratore allo scopo di proteggerlo contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza o la salute durante il lavoro, nonché ogni complemento o accessorio destinato a tale scopo”. Secondo la Corte, in particolare, tale definizione “deve essere intesa nella più ampia latitudine proprio in ragione della finalizzazione a tutela del bene primario della salute e dell'ampiezza della protezione garantita dall'ordinamento attraverso non solo disposizioni che pongono specifici obblighi di prevenzione e protezione a carico del datore di lavoro, ma anche attraverso la norma di chiusura di cui all'art. 2087, cc”.

La sentenza citata, infine, pone il seguente principio di diritto: “la nozione legale di Dispositivi di Protezione Individuale (Dpi) non deve essere intesa come limitata alle attrezzature appositamente create e commercializzate per la protezione di specifici rischi alla salute in base a caratteristiche tecniche certificate, ma, in conformità alla giurisprudenza di legittimità, va riferita a qualsiasi attrezzatura, complemento o accessorio che possa in concreto costituire una barriera protettiva, sia pure ridotta o limitata, rispetto a qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza del lavoratore, in conformità con l'art. 2087, cc, norma di chiusura del sistema di prevenzione degli infortuni e malattie professionali, suscettibile di interpretazione estensiva in ragione sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute sia dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro. Nella medesima ottica, il datore di lavoro è tenuto a fornire i suddetti indumenti ai dipendenti e a garantirne l'idoneità a prevenire l'insorgenza e il diffondersi di infezioni […]”. 

7. Il diritto dei lavoratori di rifiutare di eseguire la prestazione in assenza di adeguate misure di sicurezza. L’eccezione di inadempimento

Infine, occorre anche osservare che la Suprema Corte ha dovuto più volte affrontare situazioni nelle quali i lavoratori rifiutavano di eseguire la propria prestazione – oppure la eseguivano con modalità diverse da quelle stabilite per contratto – sulla base dell’asserita mancanza di misure di sicurezza tali da permettere loro lo svolgimento dell’attività senza rischi per la salute e per l’integrità psicofisica, con particolare riferimento all’applicabilità a tali casi dell’eccezione di inadempimento ex art. 1460, cc[13].

In generale, sull’eccezione di inadempimento, si è affermato che “il giudice, ove venga proposta dalla parte l'eccezione inadimplenti non est adimplendum – alla quale è riconducibile il rifiuto del lavoratore di rendere la prestazione fondata sulla allegazione dell'inadempimento, anche parziale, del datore di lavoro – deve procedere ad una valutazione comparativa degli opposti inadempimenti avuto riguardo anche alla loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto e alla loro rispettiva incidenza sull'equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse. Pertanto, qualora rilevi che l'inadempimento della parte nei cui confronti è opposta l'eccezione non è grave ovvero ha scarsa importanza in relazione all'interesse dell'altra parte a norma dell'art. 1455, cod. civ., deve ritenersi che il rifiuto di quest’ultima di adempiere la propria obbligazione non sia di buona fede e quindi non sia giustificato ai sensi dell'art. 1460, comma 2, cod. civ.[14].

In altri termini, secondo quanto anche ritenuto dalla dottrina consolidata, il secondo comma dell’art. 1460, cc – mediante il richiamo alla non contrarietà alla buona fede – intende fondamentalmente esprimere il principio per cui ci deve essere equivalenza tra l’inadempimento altrui e il rifiuto a rendere la propria prestazione. Tale rifiuto, inoltre, deve essere successivo e causalmente giustificato dall’inadempimento della controparte ed il parametro della non contrarietà alla buona fede di quest’ultimo va riscontrato in termini oggettivi, a prescindere dall’animus dell’autore del rifiuto stesso. Questa regola, in particolare, costituisce espressione del generale principio di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto, sancito dall’art. 1375, cc[15].

Con specifico riferimento alle misure di prevenzione sul lavoro, numerose pronunce della Suprema Corte hanno ritenuto come non possa essere dubbio che il lavoratore – ove effettivamente sussistano situazioni pregiudizievoli per la sua salute o per la sua incolumità – possa legittimamente astenersi dalle prestazioni che lo espongano ai relativi pericoli, in quanto è coinvolto un diritto fondamentale, espressamente previsto dall’art. 32, Cost., che può e deve essere tutelato in via preventiva, come peraltro attesta anche la norma specifica di cui all’art. 2087, cc Si è, di conseguenza, affermata l’illegittimità del licenziamento intimato dal datore di lavoro a fronte del rifiuto opposto dal lavoratore ad eseguire la propria prestazione in assenza di condizioni di sicurezza[16].

Infine, quanto ai licenziamenti irrogati sotto il vigore della l. n. 92/2012, si è affermato che “in tema di licenziamento disciplinare, qualora il comportamento addebitato al lavoratore, consistente nel rifiuto di rendere la prestazione secondo determinate modalità, sia giustificato dall'accertata illegittimità dell’ordine datoriale e dia luogo pertanto ad una legittima eccezione d’inadempimento, il fatto contestato deve ritenersi insussistente perché privo del carattere dell’illiceità, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria attenuata, prevista dall'art. 18, comma 4, della l. n. 300 del 1970, come modificato dalla l. n. 92 del 2012[17]

8. Conclusione

I decreti ex art. 700, cpc emessi dai Tribunali di Firenze e di Bologna, nel sancire il diritto dei riders di ricevere dal committente per cui operano tutti i dispositivi di protezione individuale necessari alla tutela dell’imprescindibile diritto alla salute, si collocano su un percorso che, a livello normativo e giurisprudenziale, ha finalmente preso consapevolezza della necessità di estendere la rete dei diritti e della protezione giuridica a tutte quelle forme di lavoro che – a causa delle assurde dinamiche di mercato e del ruolo delle piattaforme piuttosto lontano dalle categorie del codice civile, in quanto concentrate maggiormente sulla visibilità dei loghi societari sugli zaini dei riders piuttosto che sulla tutela del lavoratore come persona – sono state per troppo tempo ignorate.

Pur riconoscendo la difficoltà di un’interpretazione sistematica delle disposizioni sopra esaminate – resa ancora più complessa dalle modifiche apportate in poco tempo e dalla conseguente stratificazione delle norme – deve ribadirsi la fondamentale importanza dell’intervento legislativo in questa materia. Il decreto legislativo del 2015 e le modifiche apportate nel 2019 rappresentano il primo passo verso la necessaria regolazione dei nuovi lavori, sempre più legati all’uso degli strumenti digitali e agli accessi da remoto e divenuti recentemente ancora più impellenti a causa della condizione pandemica che ha rivoluzionato la nostra società in tutti i settori.

La velocità e l’imprevedibilità dei cambiamenti sulla scena economica e sociale rendono non più rinviabile una rimodulazione delle tutele del lavoro e dei lavoratori che riesca a garantire – attraverso un elenco di diritti non minimi e universalistici – la sicurezza e la dignità al lavoro economicamente dipendente affinché, in coerenza con gli ideali e gli obiettivi della nostra Costituzione e delle Carte europee, nessuno sia lasciato indietro.

 

 

[1] La norma, in particolare, stabilisce che “A far data dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro prevalentemente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali”.

[2] Per un esame più approfondito della vicenda, si rinvia al contributo di Martelloni F., La Corte d’appello di Torino tira la volata ai riders di Foodora, in www.questionegiustizia.it/articolo/la-corte-d-appello-di-torino-tira-la-volata-ai-riders-di-foodora_17-04-2019.php.

[3] Per un approfondimento in materia, si rimanda al contributo di Santoni Rugiu R., Le tutele necessarie: la Corte di Cassazione sul rapporto di lavoro dei riders anticipa la legge e fornisce risposte utili in tempo di epidemia, in www.questionegiustizia.it/articolo/le-tutele-necessarie-la-corte-di-cassazione-sul-ra_17-03-2020.php.

[4] Per quanto concerne un’analisi più dettagliata della novella del 2019 e del rapporto con la normativa già esistente, si rinvia al contributo di Riverso R., Cambiare si può. Nuovi diritti per i collaboratori, in www.questionegiustizia.it/articolo/cambiare-si-puo-nuovi-diritti-per-i-collaboratori_15-11-2019.php.

[5] Per un approfondimento in merito alle singole previsioni inserite nel Capo V-bis, si rimanda al contributo di Riverso R., Cambiare si può. Nuovi diritti per i collaboratori, op. cit..

[6] Perulli A., Il diritto del lavoro “oltre la subordinazione”: le collaborazioni etero-organizzate e le tutele minime per i riders autonomi, in WP CSDLE, IT, n. 410, 2020, pp. 59 ss.

[7] Ibidem.

[8] Ibidem.

[9] Sul lavoro occasionale deve considerarsi il comma 13 dell’art. 54-bis, dl. 50/2017, conv. in l. 96/2017 e succ. mod., che definisce il “contratto di prestazione occasionale” come “il contratto mediante il quale un utilizzatore, di cui ai commi 6, lettera b), e 7, acquisisce, con modalità semplificate, prestazioni di lavoro occasionali o saltuarie di ridotta entità, entro i limiti di importo di cui al comma 1, alle condizioni e con le modalità di cui ai commi 14 e seguenti” e che sembra doversi qualificare come subordinato. Inoltre, l’art. 44 del decreto legge n. 269/2003, conv. dalla legge n. 326/2003 che al comma 2, seconda parte, stabilisce: “A decorrere dal 1° gennaio 2004 i soggetti esercenti attività di lavoro autonomo occasionale e gli incaricati alle   vendite a domicilio di cui all'articolo 19 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114, sono iscritti alla gestione separata di cui all'articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, solo qualora il reddito annuo derivante da dette attività sia superiore ad euro 5.000. Per il versamento del contributo da parte dei soggetti esercenti attività di lavoro autonomo occasionale si applicano le modalità ed i termini previsti per i collaboratori coordinati e continuativi iscritti alla predetta gestione separata”. 

[10] Perulli A., Il diritto del lavoro “oltre la subordinazione”: le collaborazioni etero-organizzate e le tutele minime per i riders autonomi, pp. 60-61.

[11] Ivi, pg. 60.

[12] Per le prestazioni di lavoro occasionale, l’art. 54-bis, d.l. 50/2017, conv. in l. 96/2017, al comma 3, seconda parte prevede “ai fini della tutela della salute e della sicurezza del prestatore, si applica l’art. 3, comma 8, del decreto legislativo 9 aprile 2008 n. 81”. Nello specifico, l’art. 3, comma 8 citato stabilisce: “Nei confronti dei lavoratori che effettuano prestazioni di lavoro accessorio, le disposizioni di cui al presente decreto e le altre norme speciali vigenti in materia di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori si applicano nei casi in cui la prestazione sia svolta a favore di un committente imprenditore o professionista. Negli altri casi si applicano esclusivamente le disposizioni di cui all'articolo 21. Sono comunque esclusi dall'applicazione delle disposizioni di cui al presente decreto e delle altre norme speciali vigenti in materia di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori i piccoli lavori domestici a carattere straordinario, compresi l'insegnamento privato supplementare e l'assistenza domiciliare ai bambini, agli anziani, agli ammalati e ai disabili”.

[13] Tale norma, in particolare, dispone che “Nei contratti con prestazioni corrispettive, ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione, se l’altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria, salvo che termini diversi per l’adempimento siano stati stabiliti dalle parti o risultino dalla natura del contratto. Tuttavia, non può rifiutarsi l’esecuzione se, avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto è contrario alla buona fede”.

[14] Cfr., tra le altre, Cass., n. 3959/2016; Cass., n. 11430/2006; Cass., n. 8880/2000.

[15] Cfr. Cass., n. 11408/18; Cass., n. 3959/2016; Cass., n. 2720/2009; Cass., n. 11430/2006; Cass., n. 16822/2003.

[16] Cfr. Cass., n. 831/2016; Cass., n. 6631/2015; Cass., n. 19573/2013; Cass., n. 14375/2012; Cass., n. 9576/2005; Cass., n. 17314/2004; Cass., n. 11704/2003.

[17] Cfr. Cass., n. 19579/2019.

15/05/2020
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