In un articolo pubblicato nell’inserto economico del New York Times del 20 Agosto 2016, Sendhil Mullainathan, professore dell’Università di Harvard, affronta il tema delle discriminazioni che intervengono nella ricerca di un lavoro e dei possibili “effetti indesiderati” delle misure adottate per fronteggiarle.
Il caso è quello delle misure adottate in molti Stati e comunità per impedire che gli aspiranti a un lavoro debbano preventivamente dichiarare i propri precedenti penali. Come ho già avuto modo di accennare in altro commento1, salvo poche eccezioni le sentenze di condanna anche per fatti assolutamente minori restano registrate a vita nel casellario giudiziale statunitense.
Si tratta di una soluzione che per le persone condannate ostacola drammaticamente la ripresa di una vita normale e che danneggia soprattutto gli appartenenti alle classi sociali più emarginate. Le statistiche dimostrano che quasi il 70% dei giovani di colore che non hanno concluso gli studi superiori hanno subito una condanna entro i loro primi 30 anni.
Muovendo da tale situazione di fatto, sia a livello federale sia a livello statale e di comunità locale sono state adottate politiche che non consentono in sede di selezione per un posto di lavoro la richiesta di informazioni sulle eventuali condanne penali. Sembrerebbe una buona soluzione anti-discriminatoria e un aiuto effettivo per coloro che intendono recuperare una vita “normale” dopo avere scontato una condanna, soprattutto in un Paese che lega alla posizione lavorativa il godimento di diritti e servizi essenziali.
Citando una ricerca sul campo, l’autore ci dice che il discorso è più complesso e che una misura antidiscriminatoria può trasformarsi una soluzione che accresce i rischi di discriminazione. Il suo argomento è semplice e, insieme, di portata generale. Non sempre i bisogni e le aspettative di una parte possono essere semplicemente inibiti o vietati.
Siccome è nelle cose che un datore di lavoro tenda a preferire persone che non hanno avuto condanne penali, nell’impossibilità di richiedere tale informazione direttamente agli aspiranti lavoratori egli finirà per adottare altri criteri di selezione che in qualche modo rispondano alla sua esigenza. E questo può essere un fattore inatteso di nuova discriminazione.
È quanto ipotizzano gli esiti di una ricerca sul campo. In una realtà in cui le domande di lavoro sono fatte essenzialmente con la trasmissione del proprio curriculum, i ricercatori hanno inviato una serie di domande campione inserendovi elementi che potevano indirizzare il datore di lavoro nel comprendere se l’aspirante fosse bianco oppure di colore. Il risultato è che le domande presentate da aspiranti “probabilmente” bianchi hanno avuto un’attenzione molto maggiore delle altre; un risultato che sembra avere una chiara relazione con le statistiche sopra ricordate.
Se tale ricerca trovasse maggiori conferme, dovremmo concludere che per evitare la discriminazione in danno dei giovani (di colore) effettivamente colpiti da condanna penale si finisce per estenderla a tutte le persone di colore, incluse quelle incensurate.
La conclusione del prof. Mullainathan è semplice: invece di incidere sui sintomi, occorre cercare di incidere sulle cause dei fenomeni e ricordarsi che non è affatto vero che modifiche delle convinzioni e dei comportamenti richiedono tempi biblici. Se in soli 60 anni, grazie all’impegno di associazioni e istituzioni, il favore per i matrimoni inter-razziali è passato dal 4 all’87%, azioni positive e altrettanto impegno possono cambiare in tempo ancor più breve i pregiudizi che accompagnano i giovani con precedenti penali.
L’esempio viene da una ricerca condotta in Pennsylvania, dove campi di lavoro estivi rivolti a giovani a rischio non solo hanno fornito a costoro una prima esperienza lavorativa da spendere nelle ricerche di un lavoro stabile, ma sembrano ridurre le possibilità di commissione di futuri crimini. Sono strade come questa che possono eliminare le ragioni che spingono oggi i datori di lavoro ad adottare condotte discriminatorie.
Non è difficile comprendere come un approccio critico di questo genere possa trovare applicazione nel nostro Paese ai temi che riguardano il ricorso al carcere, le misure alternative e le politiche volte a ridurre i rischi di recidivanza. Il che significa investire in serie ricerche sul campo e avere una reale volontà di sperimentare e misurarsi coi fatti: condizioni su cui abbiamo ancora molta strada da fare dopo i primi segnali incoraggianti.
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