1. L’ultimo anno, almeno a partire dall’estate del 2017, è stato caratterizzato da un lungo dibattito sui flussi migratori, che è divenuto via via più irrazionale e feroce con l’avvicinarsi della scadenza elettorale di marzo per poi divampare, dopo una pausa lunga quanto le trattative per formare il nuovo Governo, e culminare, almeno per ora, nel divieto di attracco nei porti italiani di navi (mercantili o di organizzazioni umanitarie) che abbiano effettuato salvataggi in mare.
In queste brevi note vorremmo cercare di fare chiarezza sul problema evitando ipocrisia e silenzi.
È opportuno iniziare distinguendo nettamente due specie di flussi, a seconda delle diverse cause da cui sono determinati: la migrazione causata da motivi politici e la migrazione causata da motivi economici. La distinzione può essere a volte non semplice, per il cumularsi in alcuni Paesi e in alcune storie personali di persecuzioni e di assenza di prospettive di vita minimamente dignitose, il che avviene soprattutto per le minoranze e per i soggetti vulnerabili, bambini e donne. In generale tali casi possono ascriversi al primo tipo di flussi.
2. La migrazione causata da motivi politici è quella dovuta a guerre in atto, a persecuzioni o a regimi totalitari incapaci di assicurare «l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla costituzione italiana» (o in genere dalle costituzioni europee, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Ue, dalla Convenzione Edu). In questi casi l’art. 10, terzo comma, della nostra costituzione e le convenzioni internazionali – prima di tutto la Convenzione di Ginevra – attribuiscono allo straniero che si trovi in tali condizioni un vero e proprio diritto, il diritto di asilo politico, che rientra fra i diritti fondamentali della persona.
Come tale, la migrazione motivata da ragioni politiche deve essere protetta in ogni modo e non certo contrastata. Per favorirla sarebbe opportuno aprire uffici decentrati dei Governi europei prossimi ai Paesi dove sono in atto guerre o limitazioni alle libertà democratiche allo scopo di agevolare l’arrivo in Europa (tramite aerei o navi appositi) degli aventi diritto all’asilo.
Quanto all’Italia (con il suo “sporgere” nel Mediterraneo ed essere pertanto uno dei primi Paesi in cui possono arrivare via mare i migranti cd. politici) l’accordo di Dublino (la cui vincolatività è stata di recente riaffermata da una sentenza del luglio 2017 della Corte di giustizia dell’Unione europea, la quale ha escluso anche la derogabilità dell’accordo per ragioni di emergenza) impone al primo Paese nel quale sia arrivato il richiedente asilo la concessione del relativo diritto. Imprescindibile appare una modifica di tale accordo nel senso di favorire il riparto fra i vari Paesi europei dei richiedenti asilo allo scopo di alleggerire gli oneri di Paesi come l’Italia, la Grecia o la Spagna (quanto poi ai Paesi dell’Est Europa radicalmente contrari a tal modifica, sarebbe da riflettere sulla opportunità del loro restare nell’Unione europea godendo di tutti i vantaggi in punto di aiuti economici che da tale partecipazione derivano).
Le conclusioni del Consiglio europeo del 28 giugno 2018 sono state modeste e non certo all’altezza della sfida che il fenomeno migratorio pone agli Stati europei e della terribile statistica dei naufragi e delle morti in mare. I principi di pace, giustizia, solidarietà, lotta alla povertà che hanno animato il sogno europeo sembrano sempre più fievoli. Dopo aver riaffermato che «il buon funzionamento della politica dell’Ue presuppone un approccio globale alla migrazione che combini un controllo più̀ efficace delle frontiere esterne dell’Ue, il rafforzamento dell’azione esterna e la dimensione interna, in linea con i nostri principi e valori», si sottolinea che «è necessario trovare un consenso sul regolamento Dublino per riformarlo sulla base di un equilibrio tra responsabilità e solidarietà, tenendo conto delle persone sbarcate a seguito di operazioni di ricerca e soccorso» (punto 12). Si tratta di una prospettiva che solleva qualche speranza anche se allo stato si fa ricorso soltanto a iniziative su base volontaria: infatti, «nel territorio dell’Ue coloro che vengono salvati, a norma del diritto internazionale, dovrebbero essere presi in carico sulla base di uno sforzo condiviso e trasferiti in centri sorvegliati istituiti negli Stati membri, unicamente su base volontaria; qui un trattamento rapido e sicuro consentirebbe, con il pieno sostegno dell’Ue, di distinguere i migranti irregolari, che saranno rimpatriati, dalle persone bisognose di protezione internazionale, cui si applicherebbe il principio di solidarietà».
3. Completamente diversa dal punto di vista giuridico, è la migrazione cd. economica motivata dal sottosviluppo di numerosi Paesi africani (e in parte dall’Asia occidentale).
Esigenze di chiarezza impongono di iniziare l’esame di questo problema (non solo ricordando che questa migrazione proviene da Paesi ampiamente sfruttati dagli Stati europei durante il triste periodo del colonialismo) rilevando che tale migrazione è quasi sempre motivata dalla circostanza che negli Stati di provenienza i migranti sono costretti a vivere in condizioni di “povertà assoluta”, secondo gli standard internazionali elaborati dall’Onu. È motivata cioè dalla fame, dalla disperazione.
Solo se si ha presente questo dato elementare (che i razzisti rifiutano di volere riconoscere) si comprende perché questi migranti si sottopongono a lunghi e pericolosi viaggi che dai loro spesso lontani Paesi di origine li conducono sulle coste del Nord del mediterraneo dove prima di potersi “imbarcare” per l’Europa sono sottoposti − come è riconosciuto da tutte le organizzazioni umanitarie internazionali − a violenze di ogni genere, a stupri, a tortura.
Se non si ha presente la disperazione che li motiva, il fenomeno diviene incomprensibile.
Detto questo è da sottolineare che buona parte dei relativi flussi migratori ha avuto come tappe finali la partenza dalla costa libica e l’arrivo sulla costa del Sud Italia.
4. In questa situazione che fare? Innanzitutto prendere atto: che si è alla presenza (come la migrazione del primo millennio) di un fenomeno storico che probabilmente caratterizzerà almeno tutto il primo secolo del secondo millennio.
In secondo luogo: che puntare sul rientro nei Paesi di origine, sul piano pratico è irrealizzabile almeno riguardo ai grossi numeri; e ciò non solo o non tanto per l’alto costo economico di tali rientri, ma soprattutto perché si tratta di persone che − come si dirà fra poco − si disperdono normalmente e in tempi brevi sul terreno di tutti i Paesi europei.
Quanto all’Italia, una non inutile politica potrebbe essere quella di convincere gli altri Stati europei che collaborano alle operazioni di salvataggio nel Mediterraneo (anche sotto l’egida di missioni europee) di fare sbarcare i migranti soccorsi nei porti di tutti gli Stati che si affacciano sul Mare nostrum e non sempre e solo nei porti italiani, come invece prevede irragionevolmente un a dir poco incauto accordo sottoscritto dal Governo italiano tre o quattro anni fa.
Quanto sempre all’Italia, che da più anni è il Paese presso cui sbarca la maggior parte dei migranti economici, senza ipocrisia è da dire che solo una parte di questi migranti economici resta nel nostro Paese; la parte maggiore infatti si sposta, con maggiori o minori difficoltà, verso altri Paesi europei o d’oltreoceano, Paesi che a loro avviso offrono maggiori opportunità o che già ospitano loro familiari. Questo fenomeno – facilitato dal sistema aperto delle frontiere e dalle condizioni di permanenza nei centri – determina una situazione di fatto notevolmente diversa da quella (reale) del numero degli sbarchi nei porti italiani (così come molte domande di asilo sono presentate da migranti economici al solo scopo di lucrare il − spesso lungo − tempo del processo amministrativo e giurisdizionale di asilo per potere meglio organizzare il loro trasferimento in altro Paese europeo).
5. Ove l’ipocrisia sopra denunciata cessi e si voglia guardare realisticamente il problema della migrazione economica, la sua dimensione e i suoi tempi storici, quel principio di solidarietà su cui si fondano tutte le costituzioni europee del secondo dopoguerra, e su cui si dovrebbe fondare l’esistenza stessa dell’Unione europea, impone che si adottino e soprattutto si applichino discipline volte a distribuire fra tutti i Paesi che vogliono continuare ad aderire all’Unione i migranti anche economici ed il loro relativo onere economico. Ciò potrà comportare una riduzione della ricchezza individuale o collettiva, ma è un qualcosa che necessariamente si dovrà essere capaci di affrontare e risolvere.
Ma ciò non basta.
Il carattere storico della migrazione economica in atto, migrazione che trova la sua causa profonda nella disperazione e nella fame, ben sfruttate dai trafficanti di esseri umani, comporta che essa potrà essere superata solo quando − a seguito di aiuti internazionali della stessa specie e ampiezza di quelli che gli Stati Uniti d’America (sia pure intimoriti dalla Guerra fredda) effettuarono a favore dell’Europa alla fine della Seconda guerra mondiale (aiuti accompagnati alla rinuncia di ingenti crediti) − i Paesi da cui provengono i migranti economici abbiano cessato di essere economicamente sottosviluppati. Fino a questo momento, la disperazione, la fame saranno sempre, crediamo, più forti delle (miserabili) contromisure che l’Europa sarà in grado di apprestare.
6. Vorremmo concludere accennando proprio ad alcune contromisure di cui si è parlato a partire dall’estate del 2017.
6.1 Si è cominciato a ripetere che controllare il confine Sud della Libia (di oltre cinquemila chilometri) con il Ciad e, soprattutto, il Niger «significa controllare i confini meridionali dell’Africa settentrionale e quindi della nostra Europa». L’avere scoperto che la migrazione in atto da quasi un ventennio dalle coste libiche verso l’Europa meridionale, e pertanto in primis verso le coste del Sud Italia, migrazione che trova il suo alimento in Paesi spesso assai lontani non è ovviamente cosa nuova. È nuova invece la richiesta, sempre più pressante da parte europea, di «esternalizzare le frontiere dell’Unione europea convincendo i leader dei Paesi africani, innanzi tutto del Ciad e del Niger, a collaborare nel fermare i flussi di migranti diretti in Italia e da qui negli altri Paesi europei».
A tale scopo è stato finanche proposto di installare nel Ciad e nel Niger “campi” (verrebbe quasi da aggiungere “di concentramento”) «volti a impedire l’ingresso nel deserto libico dei flussi di migranti», si osa dire allo scopo soprattutto di «convincerli a rimpatriare nei loro Paesi di origine volontariamente».
Non sappiamo se l’ipocrisia di tali discorsi sia maggiore o no della pervicace volontà di non volere rendersi conto della disperazione che motiva il formarsi di tutti i flussi migratori insieme.
Quanto poi ai migranti politici che fuggono da guerre o dittature che senso ha parlare di «convincere (negli ipotizzati campi creati nel Ciad e nel Niger) i migranti di tale specie a rimpatriare volontariamente nei propri Paesi di origine», Paesi da cui sono fuggiti per i motivi politici in senso ampio sopra succintamente richiamati? Che senso ha parlare di convincerli a rimpatriare non solo in Siria, ma anche in Somalia, Eritrea, Etiopia, Congo, Centrafrica etc.?
Parlare del convincimento al rimpatrio in tali casi è affermazione prima ancora che ipocrita, offensiva, oltre che lesiva del vero e proprio diritto soggettivo dell’asilo che questi migranti possono legittimamente vantare.
6.2 Si è assistito poi ad una serie di vicende particolarmente gravi.
Si è iniziato con una ignominiosa campagna denigratoria delle ong che avevano, in spirito umanitario, contribuito in modo determinante alla riduzione del numero dei migranti morti nell’attraversamento del Mediterraneo.
Si è proseguito iniziando una politica volta per un verso a riacquistare influenza presso il governo libico di Tripoli inviando navi militari allo scopo di consentire la riattivazione delle navi libiche di guardia costiera, per altro verso a fare intervenire tali navi libiche direttamente sulle barche degli scafisti allo scopo di ricondurre i migranti in Libia, cioè in quelle carceri o quei campi nei quali − come già detto − sono all’ordine del giorno violenze, stupri, torture. Si è operato per rafforzare, con forniture di mezzi e supporto vario (ad esempio con la formazione), la guardia costiera, assegnandole progressivamente il ruolo di polizia del mare in funzione di contrasto all’immigrazione clandestina. Questa politica, che ha trovato nel nuovo Governo nuovi e più radicali interpreti, è sfociata oggi nel divieto di attracco nei porti italiani delle navi di ong anche per il solo fine di rifornimento alimenti e carburante.
7. Avvicinandosi alla scadenza delle elezioni europee, poche sono le speranze che si esca da questa campagna elettorale continua che da un anno si gioca sulle vite di chi, per disperato desiderio di un futuro dignitoso e senza violenze e sopraffazioni per i propri figli, si affida giornalmente ai trafficanti di esseri umani. E questo proprio quando, e ormai almeno dal 2015, i flussi di migranti sono fortemente diminuiti sulle rotte del Mediterraneo.
7.1 Alcune misure minime dovrebbero essere adottate da subito. Non possono attendere.
Nuovi meccanismi per assicurare l’asilo a chi ne ha diritto devono essere messi in atto. L’attuale sistema, che incentiva la presentazione indiscriminata di domande da parte delle masse di disperati raccolti nei centri di accoglienza, produce inefficienza e arretrato (ingestibile nonostante gli indubbi sforzi di creazione delle sezioni specializzate e di rafforzamento delle commissioni territoriali), ritarda il riconoscimento per gli aventi diritti, prolunga oltre il lecito la permanenza nei centri dei richiedenti asilo. Si può pensare alla concessione di visti temporanei al fine di permettere la presentazione della domanda di asilo nei Paesi richiesti o a missioni dell’Unione europea col compito di esaminare le richieste in punti geograficamente nevralgici. Due le maggiori sfide: le garanzie minime del giusto processo devono essere assicurate; l’Europa (che già ha dato lo schiavismo e il colonialismo all’Africa) non può destabilizzare il Sahel e l’Africa subsahariana facendo confluire flussi migratori in situazioni geografiche ed economiche già estremamente fragili e costantemente sotto la minaccia del terrorismo jihadista.
Si devono creare nuovi canali di migrazione economica lecita. La chiusura dell’Europa – dalla popolazione sempre più anziana e inabile – in una roccaforte è economicamente ancor prima che umanamente perdente.
Si deve fare tutto quanto è possibile per fermare i discorsi di odio e discriminazione. Nelle scuole e nelle università, nei tribunali, sui posti di lavoro, sui social network.
Si deve preservare la capacità di accoglienza dimostrata dalle istituzioni e strutture dello Stato e prima fra tutti dall’amministrazione degli Interni, degli enti locali, delle organizzazioni umanitarie (pensiamo alla Croce rossa internazionale o alla Caritas ma enorme è stato lo sforzo di piccole e grandi organizzazioni non governative d’ispirazione laica e religiosa). Insieme hanno gestito flussi imponenti, migliaia di minori non accompagnati, garantendo loro sicurezza e dignità. È un patrimonio che non può essere disperso.
[*] Lo scritto è dedicato a Stefano Rodotà di cui, in questi momenti, si sente particolarmente la mancanza delle sue analisi, della sua chiarezza nell’individuare i problemi, della sua sensibilità etica.
La foto di copertina è di Naida Caira (Stoccolma, 2015) - www.naidacaira.com