Ogni pronuncia della Corte Costituzionale – in specie quelle di accoglimento – costituisce l’occasione per svolgere varie riflessioni sui rapporti tra diverse coppie di concetti (tra diritto e legge; tra potere e diritti; tra discrezionalità e arbitrio [del legislatore]; tra ragionevolezza e irragionevolezza, e via seguitando). La sentenza n. 251 del 2012 della Corte costituzionale (pubblicata in calce a queste note) ne è un esempio. Come è noto, con tale sentenza, la Corte costituzionale ha dichiarato «l’illegittimità costituzionale dell’articolo 69, comma 4, c.p. (…), nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5, D.P.R. n. 309/1990 (…) sulla recidiva di cui all’art. 99, comma 4, c.p.».
E, con la sentenza ora citata, un altro pezzo della politica criminale coltivata nell’ultimo decennio dal nostro legislatore viene dichiarato in contrasto con la Carta fondamentale.
Si ricorderà che con la legge n. 251/2005 – meglio nota come ex-Cirielli – il Parlamento diede una nuova sistemazione alla disciplina dei termini di prescrizione (che, per la larga parte dei reati, comportò una riduzione del tempo necessario a far maturare la prescrzione); è altrettanto noto che – per rendere digeribili all’opinione pubblica le conseguenze dell’entrata in vigore della legge ex-Cirielli – il legislatore, aderendo a logiche di esemplarità della sanzione sempre più in voga, inasprì in modo assolutamente significativo la disciplina sanzionatoria da applicare alle persone recidive; in particolare, il legislatore stabilì che – per le persone già dichiarate recidive – eventuali attenuanti riconosciute dal giudice all’esito del giudizio giammai avrebbero potuto elidere del tutto il disvalore del precedente curriculum criminale dell’imputato (stabilendo il divieto assoluto di prevalenza delle attenuanti sulla recidiva reiterata).
Scelta di politica criminale – quella appena sintetizzata – che ha portato taluni a ritenere, certo con qualche fondamento, che il nostro diritto penale stesse allontanandosi dal canone liberale del diritto penale del fatto, per deviare verso un diritto penale del tipo d’autore.
Sennonché il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata contestata all’imputato (e ritenuta dal giudice) risulta[va] avere un effetto dirompente – oltre che in sede di esecuzione della pena – nei processi in cui persone “affette” dalla recidiva reiterata venivano condannate per modeste cessioni di marginali quantitativi di sostanza stupefacente: il divieto di prevalenza dell’attenuante di cui all’art. 73, comma 5, D.P.R. n. 309/1990 sulla recidiva comportava il risultato di dovere infliggere pene pari a sei anni di reclusione (oltre alla multa) a persone responsabili della cessione anche di una sola dose di sostanza stupefacente (magari pochi grammi di marijuana).
La Consulta è intervenuta più volte su tali automatismi.
In una prima occasione – con la sentenza Corte costituzionale n. 192 del 2007, emessa in adesione ad una (sino ad allora minoritaria) giurisprudenza di legittimità - la Corte ritenne che il giudice di merito potesse riconoscere effetti penali alla recidiva reiterata contestata all’imputato «solo qualora ritenga il nuovo episodio delittuoso concretamente significativo – in rapporto alla natura ed al tempo di commissione dei precedenti, ed avuto riguardo ai parametri indicati dall'art. 133 c.p. – sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo»; e per converso, implicitamente attribuì al giudice di merito la possibilità di escludere gli effetti penali della recidiva reiterata contestata all’imputato. Con il che veniva meno il divieto assoluto di prevalenza delle attenuanti sulla recidiva (non ritenuta dal giudice) e su altre aggravanti.
Con la sentenza n. 251 del 2012, la Corte costituzionale si spinge oltre e censura direttamente il cuore dell’automatismo congegnato dalla legge ex Cirielli (seppure limitatamente alla fattispecie di cui all’art. 73, comma 5, D.P.R. n. 309/1990), ritenendolo manifestamente irragionevole perché, a fronte di condotte di «minima offensività penale, (...) indirizza l’individuazione della pena concreta verso un’abnorme enfatizzazione delle componenti soggettive riconducibili alla recidiva reiterata» (Corte cost. sentenza n. 251 del 2012, punto 5 del considerato in diritto, corsivo di chi scrive). La Consulta precisa altresì che «i due aspetti della colpevolezza e della pericolosità, (…) pur essendo pertinenti al reato, non possano assumere, nel processo di individualizzazione della pena, una rilevanza tale da renderli comparativamente prevalenti rispetto al fatto oggettivo» (ivi).
La Corte ha poi ritenuto che l’automatismo introdotto dal legislatore con la legge ex Cirielli (con il divieto di prevalenza di attenuanti ad effetto speciale sulla recidiva) comportasse una ulteriore lesione dei principi stabiliti dalla Carta fondamentale e, segnatamente, del principio di uguaglianza (ivi).
Poteva fermarsi qui, la Corte costituzionale. Già aveva detto tanto, riportando il diritto penale al diritto penale del fatto offensivo.
E, invece, senza trincerarsi dietro la comoda formula di stile (secondo cui «le residue censure risultano assorbite…»), la Consulta fa un passo in più ed evidenzia che gli automatismi sanzionatori congegnati dal legislatore – dirompenti nelle loro conseguenze – risultano contrari al principio di proporzionalità delle pene e quindi alla finalità rieducativa della pena: «L’incidenza della regola preclusiva sancita dall’art. 69, comma 4, c.p. sulla diversità delle cornici edittali prefigurate dal primo e dal quinto comma dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, che viene annullata, attribuisce alla risposta punitiva i connotati di “una pena palesemente sproporzionata” e, dunque, “inevitabilmente avvertita come ingiusta dal condannato” (…)» Infatti «la finalità rieducativa della pena (…)implica un costante principio di proporzione tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra» (si veda il punto 6 del considerato in diritto, grassetto e corsivo di chi scrive).
Ma la vicenda esaminata dalla Corte nella sentenza n.251/2005 non è importante solo perché pone un freno al progressivo allontanamento del diritto penale dal fatto al suo autore; né perché ricorda che la discrezionalità sanzionatoria del legislatore, oltre il confine della ragionevolezza, rischia di diventare arbitrio.
La vicenda qui in esame è istruttiva anche per il modo con il quale la questione di legittimità viene posta all’attenzione della Consulta. Vale davvero la pena di leggere l’ordinanza di rimessione (Ordinanza del Tribunale di Torino del 24/10/2011; registro ordinanze n. 61 del 2012, pubblicata su G.U. del 18/04/2012 n. 16; l’ordinanza è reperibile a questo link.
Perché è importante leggerla? Perché dice molto di come dovrebbe essere ed agire la giurisdizione (e, implicitamente, assegna a ciascun operatore giudiziario – giudice, pubblico ministero o avvocato – le responsabilità connaturali al suo ruolo). Alcuni flash:
- il giudice a quo – nel sollevare la questione di legittimità costituzionale (peraltro scritta in una lingua diretta e chiara, che va al cuore della questione) – ha fatto ciò che nessuno in quel processo gli aveva chiesto; insomma: si è fatto la classica «domanda in più»; si è fatto venire il dubbio… non ha avuto paura di disturbare la Corte in un caso che – letta la sentenza n. 192/2007 – sembrava segnato da prognosi infausta;
- il giudice a quo ha promosso l’incidente di legittimità costituzionale in un modo estremamente onesto, rifiutando di coltivare obliqui percorsi di disapplicazione de facto del dettato legislativo (ne è testimonianza il passaggio: «Il problema, ancora aperto nonostante la sent. 192/2007 della Corte costituzionale, deriva dal fatto che il riconoscere o escludere la recidiva reiterata facoltativa è operazione valutativa radicalmente diversa dal «bilanciare» quella recidiva con concorrenti circostanze attenuanti: esistono situazioni in cui, giudicando con onestà intellettuale, la recidiva non può essere esclusa, e tuttavia viene sentito come ingiusto negare la prevalenza di determinate attenuanti» (…); «questa possibilità non sempre è praticabile, e segnatamente, volendo giudicare con onestà intellettuale, non e' praticabile nel presente processo»);
- il giudice a quo – abbandonando il linguaggio paludato di troppi provvedimenti giudiziari - fa ben capire quale sia il “dramma” della questione: « Non richiede giustificazione, perché si impone come un dato autoevidente, che l'inflizione di sei anni di reclusione per la cessione di una singola modesta dose di sostanza stupefacente, chiunque ne sia l'autore, non può essere in alcun modo considerata una risposta sanzionatoria proporzionata»; posta questa premessa, il giudice a quo “fa entrare” l’imputato nel Palazzo della Consulta: «Per convincersene è sufficiente vivere l'esperienza quotidiana delle aule di giustizia e osservare l'espressione di incredula disperazione che si dipinge sul volto del condannato alla lettura di certi dispositivi»;
- nell’ordinanza, poi, si illustrano – censurandoli - i paradossi che si determinano quando il legislatore tenta di ridurre al minimo quello che è un ineliminabile tasso di discrezionalità giudiziaria: «si é così assistito a veri e propri «equilibrismi dialettici» per motivare l'esclusione della recidiva - in situazioni che ragionevolmente non l'avrebbero consentito - pur di evitare l'assurdo dell'inflizione di sei anni di reclusione in ipotesi di cessione di una singola dose di sostanza stupefacente; ipotesi questa in cui - al contrario - altri giudici, preso atto dell'esistenza di condanne pregresse, hanno inflitto sei anni di reclusione (ovvero quattro in sede di giudizio abbreviato, ma non fa differenza) senza chiedersi se ciò fosse rispettoso dei principi di proporzionalità e personalità della pena, e trincerandosi dietro lo schermo della disposizione legislativa Un intervento normativo avente lo scopo dichiarato di arginare la discrezionalità del giudice nella quantificazione della pena ha perciò finito col divaricare ancor più le decisioni e con l'esaltare proprio il momento discrezionale».
E su questa strada di chiarezza, linearità di linguaggio e di pensiero, di ancoraggio ai principi costituzionali, la Corte costituzionale ha seguìto il piccolo giudice monocratico. Piccolo. Ma capace di sollevare una grande questione.
Un insegnamento per tutti. Perché ricorda a tutti gli operatori del diritto che l’attività interpretativa, la pratica giudiziaria non può risolversi in vuota legis-dizione (per usare una fortunata formula).
Al contrario, la giurisdizione – per essere autenticamente tale – non può abdicare dal dovere del dubbio e conseguentemente deve interpellare incessantemente una razionalità costituzionale per sua natura superiore a quella della legge. È una precisa responsabilità di tutti gli operatori giudiziari.
Soprattutto ai giorni d’oggi, allorquando il tema dei diritti fondamentali – anche grazie alla straordinaria vitalità introdotta nell’ordinamento dall’intreccio tra fonti di rango costituzionale e fonti sovra-nazionali – sembra inaugurare una rinnovata stagione per il costituzionalismo. Stagione che, inevitabilmente, assegna nuove responsabilità alla giurisdizione.