Per la settima volta nel giro di meno di due anni la Corte costituzionale torna a occuparsi di vicende legate al controllo della Corte dei conti sui rendiconti dei gruppi consiliari regionali, controllo introdotto dall’art. 1, commi 9, 10, 11 e 12, del d.l. n. 174 del 2012[1] per fornire una risposta immediata ai noti scandali che hanno interessato i gruppi consiliari nelle ultime stagioni politico-istituzionali.
Il comma 9 dispone[2] che, al fine di assicurare la corretta rilevazione dei fatti di gestione e la regolare tenuta della contabilità, ciascun gruppo approva un rendiconto di esercizio annuale, strutturato secondo le linee guida deliberate dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano e recepite con d.P.C.m del 21 dicembre 2012.
I commi 10[3], 11[4] e 12[5] disciplinano l’articolata procedura di esame dei rendiconti ad opera della sezione regionale di controllo della Corte dei conti, i suoi poteri istruttori e le conseguenze della mancata regolarizzazione dei rendiconti medesimi a seguito di invito della sezione regionale e della delibera di accertamento della loro irregolarità.
Su questa articolata disciplina la Corte costituzionale è intervenuta in prima battuta con la nota sentenza n. 39 del 2014, che, come si vedrà immediatamente appresso, pur apportando delle lievi correzioni di rotta, ne ha fatto nella sostanza salvo l’impianto normativo di fondo.
Dopo pochi mesi dalla citata pronuncia, la Corte, con la sentenza n. 130 del 2014, è tornata a occuparsi della questione, questa volta in sede di conflitto di attribuzione sollevato dalle Regioni Emilia-Romagna, Veneto e Piemonte avverso le delibere delle locali sezioni regionali di controllo, di accertamento dell’irregolarità dei rendiconti dei gruppi consiliari per l’anno 2012.
Lungi dal sopirsi, il contrasto tra le Regioni e la magistratura contabile ha dato poi luogo ad altri conflitti di attribuzione esitati nelle sentenze nn. 263 del 2014, 15, 107 e 143 del 2015, e infine nella n. 235 del 2015; risultano, peraltro, pendenti ulteriori due conflitti ancora non decisi dalla Corte[6].
Grazie a questa fitta serie di arresti il Giudice delle leggi ha avuto l’occasione di fornire importanti chiarimenti, secondo una traiettoria evolutiva che qui si intende ripercorrere e che non sempre è apparsa del tutto lineare rispetto alle affermazioni iniziali, sia sulla portata effettiva e le modalità del controllo attribuito alle sezioni regionali della Corte dei conti sui rendiconti dei gruppi consiliari sia in ordine alle interferenze tra detto controllo e la giurisdizione contabile, tanto di conto quanto di responsabilità.
Con la citata sentenza n. 39 del 2014, dunque, la Corte ha scrutinato, su istanza delle Regioni autonome Friuli-Venezia Giulia e Sardegna, la legittimità costituzionale della disciplina dei rendiconti consiliari, ricordando, in primo luogo, che essa si inserisce nel più ampio disegno del legislatore statale, perseguito con il d.l. n. 174 del 2012, di adeguamento del controllo della Corte dei conti sulla gestione finanziaria delle Regioni, al duplice dichiarato fine del rafforzamento del coordinamento della finanza pubblica e della garanzia del rispetto dei vincoli finanziari derivanti dall’appartenenza del nostro Paese all’Unione europea.
Il Giudice delle leggi chiarisce da subito di non condividere l’assunto di fondo delle ricorrenti, incentrato sul presupposto di una loro competenza esclusiva a disciplinare la materia in esame (asseritamente desumibile dagli invocati parametri relativi alla loro autonomia legislativa, amministrativa, finanziaria e dalla fonte statutaria), rammentando di avere costantemente affermato la diversità di posizione e funzioni degli organi del Parlamento nazionale rispetto a quelli delle altre assemblee elettive, e ciò sotto molteplici profili, inerenti alla posizione delle assemblee legislative nel sistema costituzionale e alla loro organizzazione, nonché proprio al piano dei controlli e dei giudizi attribuiti alla Corte dei conti.
Fatte queste premesse di carattere generale, la sentenza passa ad analizzare le diverse questioni di costituzionalità sollevate con riferimento alle singole norme di cui si compone la disciplina in parola.
Quanto al comma 9 dell’art. 1, la Consulta osserva che «il rendiconto delle spese dei gruppi consiliari costituisce parte necessaria del rendiconto regionale, nella misura in cui le somme da tali gruppi acquisite e quelle restituite devono essere conciliate con le risultanze del bilancio regionale. A tal fine, il legislatore ha predisposto questa analisi obbligatoria di tipo documentale che, pur non scendendo nel merito dell’utilizzazione delle somme stesse, ne verifica la prova dell’effettivo impiego, senza ledere l’autonomia politica dei gruppi interessati al controllo. Il sindacato della Corte dei conti assume infatti, come parametro, la conformità del rendiconto al modello predisposto in sede di Conferenza, e deve pertanto ritenersi documentale, non potendo addentrarsi nel merito delle scelte discrezionali rimesse all’autonomia politica dei gruppi, nei limiti del mandato istituzionale».
La natura meramente «esterna» e «documentale» del controllo in questione consentirebbe, dunque, di escludere la violazione dei parametri competenziali invocati dalle ricorrenti a tutela della propria autonomia.
La sentenza aggiunge che la norma impugnata ha avuto attuazione con il citato d.P.C.m. 21 dicembre 2012, che sarebbe privo di contenuto normativo, limitandosi ad indicare criteri e regole tecniche volte a soddisfare esigenze di omogeneità nella redazione dei rendiconti dei gruppi consiliari[7].
Quanto ai commi 10 e 11, la Corte ha invece accolto le – obiettivamente più marginali – questioni sollevate dalle Regioni autonome con riferimento al coinvolgimento del Presidente della Giunta nella procedura di controllo, tanto nella fase ascendente della trasmissione dei rendiconti dai gruppi alla competente sezione regionale, quanto nella fase discendente, nella parte in cui individua nel Presidente della Giunta, in luogo del Presidente del Consiglio regionale, il destinatario delle eventuali osservazioni della Corte dei conti, e ciò sulla base dei rilievi che l’individuazione dell’organo legittimato alla trasmissione deve considerarsi rimessa agli statuti o alle leggi statuarie e che le fonti di autonomia individuano nel Presidente del Consiglio l’unico organo che ha la rappresentanza dell’assemblea elettiva.
La Corte ha invece fatto salvo il comma 11, nella parte in cui prevede l’obbligo di restituzione delle somme ricevute, in caso di accertate irregolarità, poiché esso può ritenersi «principio generale delle norme di contabilità pubblica», essendo «strettamente correlato al dovere di dare conto delle modalità di impiego del denaro pubblico in conformità alle regole di gestione dei fondi e alla loro attinenza alle funzioni istituzionali svolte dai gruppi consiliari».
Non hanno per contro retto allo scrutinio di costituzionalità le norme, recate dal terzo periodo del comma 11 e dal comma 12, che prevedevano per il gruppo consiliare che non regolarizzasse il rendiconto entro il termine fissato dalla sezione regionale la decadenza dal diritto all’erogazione di risorse pubbliche per l’anno successivo.
Con un passaggio motivazionale che, secondo la logica implicita della c.d. ridondanza, oscilla tra parametri strettamente competenziali e il canone della ragionevolezza sub specie di proporzionalità, la Corte ritiene, infatti, che la decadenza sia un’automatica misura repressiva di indiscutibile carattere sanzionatorio, non graduabile in ragione del vizio riscontrato, né prevenibile con l’adozione di misure correttive, per ciò solo in grado di porre a rischio il fisiologico funzionamento dell’assemblea regionale pur in presenza, in ipotesi, di mere irregolarità contabili[8].
La Corte, infine, ha dichiarato non fondate le questioni di costituzionalità dei commi 11 e 12 per violazione degli artt. 24 e 113 Cost., perché le norme impugnate non garantirebbero idonei strumenti di tutela giurisdizionale contro la comunicazione di irregolarità (comma 11) e la delibera di non regolarità (comma 12), dal che discenderebbe una lesione dell’autonomia del Consiglio regionale e dei gruppi consiliari.
Ad escludere la fondatezza della censura è la considerazione che «L’eventuale pregiudizio immediato e diretto arrecato alle posizioni giuridiche soggettive non può che determinare – nel silenzio della norma – la facoltà dei soggetti controllati di ricorrere agli ordinari strumenti di tutela giurisdizionale previsti dall’ordinamento in base alle fondamentali garanzie costituzionali previste dagli artt. 24 e 113 Cost., espressamente qualificate da questa Corte come principi supremi dell’ordinamento», fermo restando che il quomodo di tale tutela rappresenta un «problema interpretativo della normativa vigente la cui definizione esula» dal giudizio costituzionale.
La successiva stagione dei conflitti di attribuzione tra enti si apre con la sentenza n. 130 del 2014, avente ad oggetto una questione di diritto “intertemporale”. Le Regioni Emilia-Romagna, Veneto e Piemonte avevano infatti promosso conflitto nei confronti dello Stato, in relazione alle deliberazioni assunte nel 2013 dalla sezione delle autonomie e dalle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti, con cui si era, rispettivamente, orientato ed esercitato il controllo sui rendiconti dei gruppi consiliari regionali relativi all’esercizio finanziario 2012, lamentando una indebita compressione della loro autonomia organizzativa e contabile.
In sentenza, nell’accogliere le censure delle ricorrenti, si evidenzia che, ai sensi dell’art. 1, comma 9, del d.l. n. 174 del 2012, il rendiconto dei gruppi consiliari, che è parte necessaria del rendiconto regionale, è «strutturato secondo linee guida deliberate dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano e recepite con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri»; e che il comma 11 attribuisce alla sezione regionale di controllo un giudizio di conformità dei rendiconti medesimi alle prescrizioni dettate dall’art. 1, e quindi ai criteri contenuti nelle citate linee guida.
Nel richiamare il precedente n. 39 del 2014, si ribadisce, poi, che «il sindacato della Corte dei conti assume come parametro, la conformità del rendiconto al modello predisposto in sede di Conferenza, e deve pertanto ritenersi documentale, non potendo addentrarsi nel merito delle scelte discrezionali rimesse all’autonomia politica dei gruppi, nei limiti del mandato istituzionale».
In altri termini, il dettato normativo configura il potere di controllo in esame come condizionato alla previa individuazione dei criteri per il suo esercizio, «sull’evidente presupposto della loro indispensabilità», e poiché i detti criteri sono stati adottati con il d.P.C.m. entrato in vigore il 17 febbraio 2013 tale potere non poteva essere esercitato con riferimento all’anno 2012.
Con la successiva sentenza n. 263 del 2014[9] la Corte costituzionale prosegue il cammino ricostruttivo della disciplina introdotta dal d.l. n. 174 del 2012, giungendo a ulteriori approdi interpretativi che solo in parte si pongono in rapporto di stretta consequenzialità con i precedenti nn. 39 e 130 del 2014.
Nel dichiarare inammissibile per difetto di tono costituzionale la censura con cui la ricorrente lamentava la violazione di norme di legge statali e regionali riguardanti il costo massimo del personale, la Consulta ha ricordato di avere già chiarito con la sentenza n. 39 che avverso le determinazioni della sezione regionale in materia di controllo sui rendiconti dei gruppi consiliari non può essere esclusa la garanzia giurisdizionale, restando in discussione «non già l’an, ma soltanto il quomodo di tale tutela».
Tale ultimo problema interpretativo, che, come già detto, nella sentenza n. 39 era stato considerato «esulante dall’oggetto del giudizio di costituzionalità», questa volta viene risolto mediante l’osservazione che nella materia si è registrato il successivo intervento del legislatore, che, con l’art. 33, comma 2, lettera a), n. 3, del d.l. n. 91 del 2014, ha introdotto un secondo periodo all’art. 1, comma 12, del d.l. n. 174 del 2012, in forza del quale «Avverso le delibere della Sezione regionale di controllo della Corte dei conti, di cui al presente comma, è ammessa l’impugnazione alle Sezioni riunite della Corte dei conti in speciale composizione, con le forme e i termini di cui all’articolo 243-quater, comma 5, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267».
E’ invece proprio in relazione al punto nodale della natura del controllo che, sotto le mentite spoglie della continuità argomentativa, la sentenza n. 263 fa registrare, in realtà, un parziale ma significativo discostamento dai precedenti.
Nel giudicare inammissibile la censura – centrale nell’economia del ricorso – di illegittimità del controllo esercitato dalla Corte dei conti perché rivolto a sindacare il merito delle scelte discrezionali di spesa dei gruppi consiliari, la Corte costituzionale osserva che le deliberazioni impugnate dichiarano nelle ampie premesse di fare applicazione, nel controllo di regolarità dei rendiconti, dei criteri di veridicità e correttezza della spesa previsti dall’art. 1 dell’Allegato «A» al d.P.C.m. 22 dicembre 2012.
Tale impostazione risulta, secondo la Consulta, in linea con quanto da essa affermato nella sentenza n. 39 (e poi ribadito nella n. 130), ove si è posto in evidenza che il controllo della Corte dei conti, se, da un lato, non comporta un sindacato di merito delle scelte discrezionali rimesse all’autonomia politica dei gruppi, dall’altro, non può non ricomprendere la verifica dell’attinenza delle spese alle funzioni istituzionali svolte, «secondo il generale principio contabile, costantemente seguito dalla Corte dei conti in sede di verifica della regolarità dei rendiconti, della loro coerenza con le finalità previste dalla legge».
Ora, se è innegabile che l’esclusione del sindacato di merito delle scelte discrezionali resta un elemento centrale nella ricostruzione del controllo della Corte dei conti sui rendiconti dei gruppi consiliari, si deve tuttavia registrare la scomparsa del riferimento alla sua natura meramente «documentale» (su cui le Regioni avevano puntato molto nei loro ricorsi) e l’accentuazione, per contro, dell’aspetto “sostanziale” della necessaria verifica dell’attinenza delle spese alle funzioni istituzionali.
Questa caratteristica del controllo viene saldamente ancorata, da un lato, al dato positivo della presenza nelle linee guida dei criteri di «veridicità» e «correttezza» della spesa (che appaiono, appunto, criteri di legalità sostanziale e non già meramente «tecnici», come invece riduttivamente affermato nella sentenza n. 39), e, dall’altro, ai principi generali che regolano l’attività della Corte dei conti di verifica della rendicontazione contabile.
Tale impostazione, che vede rafforzato il controllo sui rendiconti si pone, secondo la Corte, in continuità con l’auspicio già formulato in precedenza «che il conferimento di contributi finanziari e di altri mezzi utilizzabili per lo svolgimento dei compiti dei gruppi consiliari sia sottoposto a forme di controllo più severe e più efficaci di quelle attualmente previste, le quali, pur nel rispetto delle imprescindibili esigenze di autonomia garantite ai gruppi consiliari, siano soprattutto dirette ad assicurare che i mezzi apprestati vengano utilizzati per le finalità effettivamente indicate dalla legge (sentenza n. 1130 del 1988)».
Nessun nuovo spunto interpretativo, invece, è possibile cogliere nelle sentenze nn. 15 e 143 del 2015, che pure sono state rese su ricorsi per conflitto di attribuzione promossi, rispettivamente, dalla Regione Calabria e dalla Regione Liguria nei confronti dello Stato in relazione alle deliberazioni di irregolarità delle sezioni regionali di controllo [10].
E’ tra le due ultime sentenze sopra citate, invece, che si colloca un altro arresto di particolare importanza, che, pur occupandosi anch’esso della rendicontazione delle spese dei gruppi consiliari regionali, lo fa, questa volta, dal diverso angolo visuale della giurisdizione di conto.
La pronuncia[11] era molto attesa, perché sulla sussistenza in capo ai presidenti dei gruppi consiliari dell’obbligo di presentare il conto giudiziale si era aperto un acceso dibattito giurisprudenziale che aveva registrato anche l’intervento delle sezioni riunite giurisdizionali della Corte dei conti[12], mentre le sezioni unite della Corte di cassazione, investite della medesima questione in sede di regolamento di giurisdizione, avevano deciso di attendere[13] l’esito del conflitto pendente davanti la Corte costituzionale.
Le ricorrenti sostenevano l’interferenza degli atti impugnati con la loro sfera di autonomia costituzionalmente garantita in ragione dell’assenza della giurisdizione di conto nei confronti dei capigruppo ̶ sia per la mancanza di una specifica interpositio legislatoris ritenuta necessaria ai sensi dell’art. 44 del R.d. n. 1214 del 1934 sia per la non ricorrenza, in capo ai medesimi capigruppo, della qualifica soggettiva di agenti contabili ̶ , nonché della violazione della prerogativa di insindacabilità delle opinioni espresse e dei voti dati dai consiglieri regionali che coprirebbe anche le attività riconducibili all’autonomia organizzativa e contabile del Consiglio, e, infine, della compressione della funzione legislativa regionale.
La Corte, facendo applicazione della nota tecnica dell’assorbimento, accoglie i ricorsi con riferimento alla censura di carenza di giurisdizione per assenza del presupposto soggettivo, e cioè la qualifica di agente contabile in capi ai presidenti dei gruppi consiliari.
Dopo avere riportato alcuni passaggi di precedenti che tratteggiano il ruolo e la funzione politico-istituzionale dei gruppi, che «contribuiscono in modo determinante al funzionamento e all’attività dell’assemblea» e assicurano «quel pluralismo che costituisce uno dei requisiti essenziali della vita democratica», la Corte rileva che la figura dei loro presidenti «delineata dagli statuti regionali e dai regolamenti consiliari interni, si caratterizza, a sua volta, per il forte rilievo politico e per l’importanza delle funzioni di rappresentanza, direttive e organizzative ad essi attribuite».
Ne consegue che l’attività di gestione amministrativa e contabile dei contributi pubblici assegnati ai gruppi è meramente funzionale all’esercizio della sfera di autonomia istituzionale che ai gruppi consiliari medesimi e ai consiglieri deve essere garantita, affinché siano messi in grado di concorrere all’espletamento delle molteplici e complesse funzioni attribuite al Consiglio regionale.
La Corte conclude affermando che «L’eventuale attività materiale di maneggio del denaro costituisce, quindi, in relazione al complesso ruolo istituzionale del presidente di gruppo consiliare, un aspetto del tutto marginale e non necessario (perché i gruppi consiliari ben potrebbero avvalersi per tale incombenza dello stesso tesoriere regionale), e non ne muta la natura eminentemente politica e rappresentativa della figura, non riducibile a quella dell’agente contabile».
Questa impostazione si pone in controtendenza rispetto alla tesi tradizionale, prevalente tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, della ricorrenza della figura dell’agente contabile in ragione del mero maneggio di denaro[14] e a prescindere dal concorrente espletamento di altre funzioni, e, laddove non fosse riferita solo alla figura del presidente di gruppo consiliare ma assurgesse a principio generale, potrebbe comportare un notevole ridimensionamento dell’ambito operativo del giudizio di conto.
A ben vedere, tuttavia, sembra proprio la peculiare posizione direttiva dei capigruppo ad avere condizionato il ragionamento della Corte e ciò smorzerebbe anche l’apparente contrasto con il precedente n. 292 del 2001[15], laddove, sia pure in un obiter dictum, si era prefigurata la sottoponibilità a giurisdizione di conto dei consiglieri regionali in caso di maneggio di denaro pubblico.
La scivolosità della questione spiega forse perché diverso fosse stato l’iter logico-giuridico seguito dalle sezioni riunite della Corte dei conti, che, con la sentenza n. 39 del 2014, erano giunte al medesimo risultato dell’esclusione della giurisdizione di conto nei confronti di capigruppo, basandosi però sul principio dell’alternatività dei controlli, giurisdizionale e amministrativo, di cui sarebbe punto di emersione normativa il vetusto art. 610, comma 2, del R.d. n. 2440 del 1923[16].
La Corte costituzionale, al punto 7 della motivazione, mostra tra le righe di non condividere, quanto meno pro praeterito, l’assunto delle sezioni riunite, perché il controllo amministrativo previsto dal d.l. n. 174 del 2012 non poteva considerarsi «vigente negli esercizi di bilancio interessati dagli odierni conflitti», con la conseguenza che la tesi dell’alternatività, quand’anche valida per il futuro, non avrebbe condotto all’esclusione della giurisdizione di conto con riferimento alle fattispecie oggetto di conflitto (e della stessa analisi delle sezioni riunite).
Il nuovo sistema di controllo sui rendiconti, tuttavia, sarebbe «rilevante dal punto di vista sistematico, poiché è evidente che l’attribuzione del potere di verifica della [loro] regolarità […] alle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti intende porre rimedio a un vuoto di attribuzioni in materia della magistratura contabile, vuoto evidenziato dal rilievo che, sin dall’istituzione delle Regioni e prima delle iniziative sfociate negli odierni conflitti, la prassi[17] non ha mai conosciuto l’esercizio della giurisdizione di conto nei confronti dei presidenti dei gruppi consiliari».
Al punto successivo del Considerato in diritto, infine, la Corte, pur avendo assorbito la censura di violazione dell’art. 122, quarto comma, Cost., non rinuncia a fornire un’indicazione che verrà sviluppata, come si vedrà appresso, con la successiva sentenza n. 235 del 2015: mostrando in questo caso di condividere l’assunto delle sezioni riunite, la Corte ritiene opportuno rammentare che i capigruppo, «anche se non tenuti alla resa del conto giudiziale in ragione del particolare ruolo ricoperto e delle funzioni svolte, in caso di illecita utilizzazione dei fondi destinati ai gruppi restano assoggettati alla responsabilità amministrativa e contabile (oltre che penale, ricorrendone i presupposti)».
Da ultimo, la Corte costituzionale è stata adita dalla Regione Emilia-Romagna, ancora in sede di conflitto di attribuzione nei confronti dello Stato, questa volta in relazione alla nota del Presidente della sezione regionale di controllo della Corte dei conti di trasmissione alla Procura contabile della deliberazione di irregolarità dei rendiconti dei gruppi consiliari per l’anno 2012, agli atti di contestazione di responsabilità e invito a dedurre e ai susseguenti atti di citazione adottati nei confronti dei capigruppo e di alcuni consiglieri regionali, ed infine a un nota del Procuratore regionale, indirizzata al Presidente del Consiglio regionale, di invito al recupero di somme relative a spese ritenute irregolari.
Secondo la ricorrente tali atti, in quanto prosecuzione di un’attività di controllo già dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 130 del 2014 e volti a realizzare un indebito controllo di merito sulle scelte discrezionali dei gruppi, sarebbero, sotto svariati profili, lesivi della sua autonomia istituzionale e dell’autonomia organizzativa e contabile del Consiglio regionale, e violerebbero l’art. 122, quarto comma, della Costituzione, che garantisce l’insindacabilità delle opinioni espresse e dei voti dati dai consiglieri regionali nell’esercizio delle funzioni.
La Corte, con la sentenza n. 235 del 2015, prima di esaminare in medias res le censure prospettate, ha analizzato una lunga serie di profili pregiudiziali, tra cui meritano di essere segnalati, per la loro stretta attinenza alle questioni di merito, quelli di inammissibilità per avere la ricorrente in realtà contestato un cattivo uso del potere giurisdizionale (censura, questa, da fare valere in seno alla giurisdizione comune e non in sede di conflitto di attribuzione), per inidoneità lesiva degli atti di contestazione e invito a dedurre, e per genericità e contraddittorietà della censura di indebita valutazione del merito delle scelte di spesa dei gruppi consiliari.
Quanto al primo profilo, se assolutamente in linea con i precedenti appare l’affermazione che gli atti della giurisdizione sono suscettibili di essere posti a base di un conflitto di attribuzione tra Regione e Stato, oltre che tra poteri dello Stato, solo quando sia contestata radicalmente la riconducibilità dell’atto che determina il conflitto alla funzione giurisdizionale ovvero sia messa in questione l’esistenza stessa del potere giurisdizionale nei confronti del soggetto ricorrente[18], degna di maggiore attenzione appare l’asciutta ma incisiva considerazione che sono «giurisdizionali, nell’accezione lata in cui tale nozione viene in rilievo nei conflitti di attribuzione, gli altri atti impugnati provenienti dalla Procura contabile nell’esercizio o in occasione della sua funzione istruttoria preordinata all’accertamento giudiziale di responsabilità erariali»[19] (ovverosia tutti gli atti impugnati, con esclusione della nota del Presidente della sezione regionale di controllo).
E ciò perché, nonostante la Corte citi due precedenti a sostegno di tale affermazione[20], non mancano nella sua giurisprudenza arresti di espresso segno contrario con riferimento agli analoghi ̶ da questa angolazione ̶ atti provenienti dalle Procure ordinarie: tra questi, in particolare, la nota sentenza n. 1 del 2013 (avente ad oggetto il conflitto di poteri tra il Presidente della Repubblica e la Procura della Repubblica di Palermo in ordine alle intercettazioni indirette del Capo dello Stato), ove se ne è esclusa la natura giurisdizionale, «non venendo in considerazione alcun provvedimento del giudice, ma solo attività giudiziarie poste in essere dall’organo inquirente».
Il conflitto di attribuzioni viene invece giudicato inammissibile nella parte in cui è rivolto avverso gli atti di contestazione e invito a dedurre, poiché tali atti, come già affermato in un precedente non troppo recente cui la Corte mostra di volersi sen’altro conformare, sono funzionalmente rivolti «all’acquisizione di ulteriori elementi, se del caso anche di carattere esimente, in vista delle conclusive determinazioni che non necessariamente dovranno essere nel senso dell’inizio dell’azione di responsabilità»(sentenza n. 163 del 1997):tali connotazioni degli atti oggetto di conflitto, e in particolare l’assenza di ogni univocità circa l’ulteriore seguito dell’iniziativa assunta dal Procuratore regionale, ne rivelerebbero la natura non lesiva.
Infine, il rilievo d’ufficio della contraddittorietà della censura di indebita valutazione del merito delle scelte di spesa dei gruppi, apparentemente non centrale nell’economia motivazionale della decisione (tanto d’affiancare, ad abundantiam, l’autonomo rilievo di genericità della stessa censura), assume invece, ad opinione di chi scrive, un ruolo fondamentale nel chiarire i confini dell’attività istruttoria della Procura contabile nei confronti dei capigruppo e dei consiglieri regionali.
La Corte sembra qui volere sgombrare il campo da un equivoco di fondo in cui appare essere incorsa la Regione ricorrente, quello cioè di restringere l’ambito del controllo giurisdizionale di accertamento della responsabilità erariale per mala gestio dei contributi pubblici alle ristrette maglie della verifica di inerenza delle spese al mandato istituzionale, secondo coordinate che invece sono proprie del controllo amministrativo/collaborativo sulla regolarità dei rendiconti.
Il controllo dell’inerenza, infatti, in sede di accertamento della responsabilità contabile viene sì in rilievo, ma come «verifica della violazione della normativa sulla contribuzione pubblica ai gruppi consiliari che integra una species di condotta contra ius, la quale, laddove causativa di danno erariale, costituisce l’oggetto dell’accertamento nel giudizio di responsabilità»: detto in altri termini, la violazione della normativa che impone l’utilizzo dei contributi pubblici per fini istituzionali è solo una delle ipotesi di condotta illecita causativa di danno perseguibile dalla Procura contabile.
Nel merito il ricorso viene giudicato parzialmente fondato con riferimento alla nota del Presidente della sezione regionale di controllo di trasmissione della deliberazione di irregolarità dei rendiconti e alla nota del Procuratore generale di invito del Presidente dell’assemblea legislativa regionale al recupero, in via di autotutela, di somme relative a spese ritenute irregolari.
La Regione ricorrente lamentava, con riferimento alla prima, che essa costituisse una indebita prosecuzione dell’attività di controllo censurata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 130 del 2014.
La Corte nell’esaminare la doglianza, chiarisce in primo luogo, con un’affermazione di principio[21] che trascende il singolo decisum, che il raccordo tra la funzione di controllo – di qualunque natura ̶ e quella giurisdizionale della Corte dei conti, nella forma della segnalazione della notitia damni[22] da parte degli organi deputati all’espletamento della prima, è legittimo, a condizione che vengano rispettate le regole del contraddittorio preprocessuale previste dall’art. 5 del d.l. n. 453 del 1993.
Nel caso specifico, tuttavia, la censura viene ritenuta fondata in ragione del rilievo che la segnalazione alla Procura contabile traeva origine da un’attività di controllo che, in quanto travolta dalla successiva sentenza n. 130 del 2014 della Corte costituzionale, è da considerarsi illegittima ex tunc.
Essendo la nota di trasmissione funzionalmente collegata[23] in maniera indissolubile alla deliberazione di controllo, l’annullamento della seconda non può che comportare la caducazione della prima (la stessa deliberazione di irregolarità annullata conteneva, del resto, l’ordine alla segreteria di trasmissione della deliberazione medesima alla Procura della Repubblica e a quella contabile, «ordine che è rimasto travolto unitamente all’atto che lo conteneva»).
Quanto alla nota del Procuratore generale, la Corte, dopo avere ritenuto che anch’essa sia un atto latamente riconducibile alla funzione giurisdizionale[24], ha buon gioco nello stigmatizzarne la natura extravagante richiamando la sentenza n. 100 del 1995[25], con cui aveva annullato una nota del Procuratore contabile (asseritamente fondata, come quella in esame, sull’art. 74 del R.d. n. 1214 del 1934) di richiesta all’amministrazione di indicazione della residenza dei responsabili di documenti istruttori e degli autori di alcune deliberazioni.
Ricorda la Corte di avere affermato in quell’occasione che, ai sensi del cennato art. 74, il Procuratore della Corte dei conti può chiedere in comunicazione atti e documenti “in possesso” di autorità amministrative, mentre non può esigere da quest’ultime una specifica e ulteriore attività di acquisizione di dati o di notizie, poiché essa «esula dalle facoltà della magistratura inquirente e per ciò solo incide sull’autonomia organizzativa della Regione».
Le medesime argomentazioni, secondo la Corte, non possono che valere, a fortiori, in relazione a una richiesta di svolgimento di un’attività di recupero amministrativo, in danno di soggetti terzi, di somme spese irregolarmente, senza che peraltro sia intervenuta alcuna pronuncia giurisdizionale che abbia accertato effettivamente tale irregolarità.
Il ricorso, invece, viene ritenuto non fondato con riferimento agli atti citazione, che probabilmente costituiscono gli atti vissuti come maggiormente invasivi dalla Regione ricorrente e dai suoi organi rappresentativi. Le censure avverso tali atti erano due: da un lato, se ne lamentava l’invalidità derivata dalla deliberazione di controllo, attesa, in concreto, la loro stretta connessione con quest’ultima, e, dell’altro, la violazione della guarentigia di insindacabilità delle opinioni espresse e dei voti dati dai consiglieri regionali.
La prima censura viene rigettata sulla base del rilievo, in punto di fatto, che la Procura contabile, già prima della segnalazione del Presidente della sezione regionale di controllo, aveva avviato delle indagini sulle spese dei gruppi consiliari sulla base di notizie provenienti dalla stampa, e, soprattutto, in considerazione del fatto che l’attività d’indagine della Procura regionale e le sue determinazioni finali si fondano non già sulla deliberazione annullata dalla Corte costituzionale ma sulla documentazione contabile autonomamente acquisita nel corso dell’istruttoria presso la sezione regionale di controllo[26] e poi sottoposta al contraddittorio preprocessuale.
Tali osservazioni dimostrano, in conclusione, che l’istruttoria contabile si è svolta secondo binari propri, indipendenti dalla fase di controllo, sì che gli atti di citazione adottati sono, secondo la Corte, indifferenti alle sorti delle deliberazioni annullate.
La seconda censura era invece incentrata dalla Regione Emilia-Romagna sui rilievi che il Consiglio regionale è dotato di autonomia contabile e organizzativa e che la disciplina delle spese dei gruppi e del relativo controllo era dettata, per l’esercizio 2012, dalla legge regionale n. 33 del 1997, in forza della quale legge il rendiconto annuale doveva essere oggetto di approvazione da parte di un comitato tecnico, rispetto al cui giudizio l’ufficio di presidenza poteva discostarsi solo con espressa motivazione. Gli atti di approvazione delle spese si sarebbero tradotti in «opinioni» e «voti» sia da parte dei gruppi che da parte dell’ufficio di presidenza, con la conseguenza che sarebbero presidiati dalla guarentigia invocata.
La Corte, nell’affrontare la censura, ricorda in primo luogo che con la recente sentenza n. 107 del 2015, proprio con riferimento alla gestione delle somme erogate a titolo di contributi pubblici ai gruppi consiliari regionali, ha affermato che i capigruppo, anche se sottratti alla giurisdizione di conto, «restano assoggettati alla responsabilità amministrativa e contabile (oltre che penale, ricorrendone i presupposti)» (sentenza n. 107 del 2015).
Precisa ora la Corte che questa affermazione, da estendersi anche ai consiglieri regionali, non è inficiata dalla guarentigia invocata, che, in quanto deroga alla regola generale della giurisdizione, «non mira ad assicurare una posizione di privilegio ai consiglieri regionali» e «non copre gli atti non riconducibili ragionevolmente all’autonomia ed alle esigenze ad essa sottese»: e infatti, come già evidenziato con la già citata sentenza n. 292 del 2001, la prerogativa d’insindacabilità non può riguardare l’attività materiale di gestione delle risorse finanziarie.
La Corte a questo punto aggiunge, replicando a una censura proposta in quasi tutti i ricorsi per conflitto di attribuzione, che la conclusione non muta in ragione dell’intervenuta approvazione dei rendiconti da parte del comitato tecnico (quand’anche composto da consiglieri regionali) o dall’ufficio di presidenza, «poiché il voto dato in tali sedi rappresenta una ratifica formale di spese già effettuate dai gruppi e non già un atto deliberativo che ne costituisce ex ante il titolo giustificativo»; né muta in ragione dell’approvazione del rendiconto generale della Regione nel quale confluiscono quelli dei gruppi consiliari, «poiché anche esso costituisce un mero documento di sintesi ex post delle risultanze contabili della gestione finanziaria e patrimoniale dell’ente, e non il titolo legittimante le spese».
Secondo la Corte, infine, dal momento che il rendiconto generale riguarda ogni attività dell’ente regionale, «opinare diversamente condurrebbe, come correttamente osservato dalla giurisprudenza di legittimità[27] e della Corte dei conti[28], al risultato abnorme, e senza dubbio contrario alla natura eccezionale della guarentigia di cui all’art. 122, quarto comma, Cost., di delineare un’area di totale irresponsabilità civile, contabile e penale in favore dei consiglieri regionali».
Con la sentenza in esame la Corte ha dunque posto un ultimo importante tassello nella complessa ricostruzione interpretativa dei confini dell’attività della Corte dei conti - tanto giurisdizionale quanto di controllo - che ruota attorno ai rendiconti dei gruppi consiliari regionali, sicché i prossimi interventi del Giudice delle leggi sembrerebbero essere destinati a muoversi su binari già tracciati, il che alimenta la speranza che, di fronte ad un panorama di maggiore certezza del diritto, la stagione dei conflitti tra gruppi consiliari e magistratura contabile ceda il passo ad una nuova fase di collaborazione istituzionale e di leale cooperazione.
[1] Sul controllo in questione si vedano U. ALLEGRETTI, Controllo finanziario e Corte dei conti: dall’unificazione nazionale alle attuali prospettive, in Rivista dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti, www.rivistaaic.it, n. 1/2013; A. BRANCASI, La fine della legislatura nel segno di nuove regole e controlli per le autonomie, in Giornale di diritto amministrativo, n. 4/2013, pp. 385-393; L. D’ANGELO, Rendiconti dei gruppi consiliari regionali e controllo della Corte dei conti: profili problematici, in www.responsabilità amministrativa.it, 10.6.2013; D. MORGANTE, I nuovi presidi della finanza regionale e il ruolo della Corte dei conti nel d.l. n. 174 del 2012, in www.federalismi.it, n. 1/2013; D. MORGANTE, Controlli della Corte dei conti e controlli regionali: autonomia e distinzione nella sentenza della Corte costituzionale n. 60/2013, in www.federalismi.it, n. 9/2013; R. SCALIA, Il controllo della Corte dei conti sui rendiconti dei Gruppi consiliari, prima e dopo le sentenze della Corte Costituzionale, nel 2014, in Resp. Amm., 6/11/2014;
[2] «Ciascun gruppo consiliare dei consigli regionali approva un rendiconto di esercizio annuale, strutturato secondo linee guida deliberate dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano e recepite con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, per assicurare la corretta rilevazione dei fatti di gestione e la regolare tenuta della contabilità, nonché per definire la documentazione necessaria a corredo del rendiconto. In ogni caso il rendiconto evidenzia, in apposite voci, le risorse trasferite al gruppo dal consiglio regionale, con indicazione del titolo del trasferimento, nonché le misure adottate per consentire la tracciabilità dei pagamenti effettuati».
[3] «Il rendiconto è trasmesso da ciascun gruppo consiliare al presidente del consiglio regionale, che lo trasmette al presidente della regione. Entro sessanta giorni dalla chiusura dell'esercizio, il presidente della regione trasmette il rendiconto di ciascun gruppo alla competente sezione regionale di controllo della Corte dei conti perché si pronunci, nel termine di trenta giorni dal ricevimento, sulla regolarità dello stesso con apposita delibera, che è trasmessa al presidente della regione per il successivo inoltro al presidente del consiglio regionale, che ne cura la pubblicazione. In caso di mancata pronuncia nei successivi trenta giorni, il rendiconto di esercizio si intende comunque approvato. Il rendiconto è, altresì, pubblicato in allegato al conto consuntivo del consiglio regionale e nel sito istituzionale della regione».
[4] «Qualora la competente sezione regionale di controllo della Corte dei conti riscontri che il rendiconto di esercizio del gruppo consiliare o la documentazione trasmessa a corredo dello stesso non sia conforme alle prescrizioni stabilite a norma del presente articolo, trasmette, entro trenta giorni dal ricevimento del rendiconto, al presidente della regione una comunicazione affinché si provveda alla relativa regolarizzazione, fissando un termine non superiore a trenta giorni. La comunicazione è trasmessa al presidente del consiglio regionale per i successivi adempimenti da parte del gruppo consiliare interessato e sospende il decorso del termine per la pronuncia della sezione. Nel caso in cui il gruppo non provveda alla regolarizzazione entro il termine fissato, decade, per l’anno in corso, dal diritto all’erogazione di risorse da parte del consiglio regionale. La decadenza di cui al presente comma comporta l’obbligo di restituire le somme ricevute a carico del bilancio del consiglio regionale e non rendicontate».
[5] «La decadenza e l’obbligo di restituzione di cui al comma 11 conseguono alla mancata trasmissione del rendiconto entro il termine individuato ai sensi del comma 10, ovvero alla delibera di non regolarità del rendiconto da parte della sezione regionale di controllo della Corte dei conti. Avverso le delibera della Sezione regionale di controllo della Corte dei conti, di cui al presente comma, è ammessa l’impugnazione alle Sezioni riunite della Corte dei conti in speciale composizione, con le forme e i termini di cui all' articolo 243-quater, comma 5, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267».
[6] Entrambi promossi dalla Regione Veneto contro le deliberazioni della sezione regionale di controllo della Corte dei conti per gli esercizi finanziari 2013 e 2014, il primo calendarizzato per l’udienza pubblica del 22 marzo 2016 e il secondo ancora non fissato.
[7] E ciò «in coerenza, dunque, con la giurisprudenza della Corte secondo cui le “esigenze di armonizzazione nella redazione dei documenti contabili sono strumentali a consentire la corretta raffrontabilità dei conti (tra le tante, sentenza n. 138 del 2013)”; ciò in quanto “la codificazione di parametri standardizzati” è funzionale a consolidare, sotto il profilo contabile, “le risultanze di tutti i conti regionali in modo uniforme e trasparente così da assicurare non solo dati finanziari complessivi e comparativi attendibili, bensì anche strumenti conoscitivi per un efficace coordinamento della finanza pubblica”, inscindibilmente connessa alla “disciplina delle regole di natura contabile che nell’ambito della finanza pubblica allargata sono serventi alla funzione statale di monitoraggio e vigilanza sul rispetto dei complessivi obiettivi” (ex plurimis, sentenze n. 309 e n. 176 del 2012; n. 52 del 2010)» (punto 6.3.9.3 del Considerato in diritto).
[8] «Introducendo una sanzione che, precludendo qualsiasi finanziamento, rischia potenzialmente di compromettere le funzioni pubbliche affidate ai gruppi consiliari, la norma impugnata rischia di pregiudicare il fisiologico funzionamento dell’assemblea regionale stessa, anche in ragione di marginali irregolarità contabili, pur in assenza di un utilizzo scorretto dei contributi assegnati, dal che consegue la lesione degli evocati parametri costituzionali posti a presidio dell’autonomia legislativa e finanziaria delle Regioni ricorrenti (artt. 117 e 119 Cost.)» (punto 6.3.9.7 del Considerato in diritto).
[9] Resa sul ricorso per conflitto di attribuzione sollevato dalla Regione Basilicata in relazione alle deliberazioni della sezione regionale della Corte dei conti aventi ad oggetto il controllo sui rendiconti per l’anno 2013.
[10] La prima reca una pronuncia di inammissibilità per mancanza di una previa delibera di giunta che autorizzasse la presentazione del ricorso e la seconda, invece, affronta la medesima questione di diritto intertemporale già analizzata con la sentenza n. 130 del 2014, della quale ripercorre pedissequamente la motivazione, giungendo alla scontata conclusione dell’annullamento della delibera di controllo della sezione regionale relativa all’anno 2012.
[11] Resa su ricorsi per conflitto di attribuzione promossi dalle Regioni Toscana e Piemonte nei confronti dello Stato, in relazione, rispettivamente, ai decreti della sezione regionale e della sezione giurisdizionale centrale d’appello della Corte dei conti, con cui si era ordinato ai presidenti dei gruppi consiliari di depositare i conti giudiziali relativi alla gestione dei contributi pubblici per gli anni 2010, 2011 e 2012, quanto alla Regione Toscana, e per il quinquennio 2003-2008, quanto alla Regione Piemonte.
[12] Si tratta della sentenza n. 30 del 2014 depositata il 4 agosto 2014, che ha deciso la questione di massima rimessa dal Presidente della Corte dei conti il 18 giugno 2013.
[13] Si veda l’ordinanza n. 27146 del 22 dicembre 2014, ove si legge: «il collegio ritiene opportuno rinviare la causa a nuovo ruolo in attesa della pronunzia della Corte costituzionale, in ragione della sostanziale identità di oggetto del presente giudizio e di quello per conflitto di attribuzione […], basati entrambi essenzialmente sulla violazione dei medesimi parametri costituzionali, e tenuto conto anche della generale problematica concernente il coordinamento tra gli anzidetti rimedi in considerazione degli effetti che la decisione concernente l’uno è in grado di produrre su quella relativa all’altro».
[14] Cass. civ., sez. un., 21 giugno 2010, n. 14891; 1 maggio 2010, n. 13330; 28 marzo 1974, n. 846. In dottrina, per l’espressa affermazione della sottoponibilità a giurisdizione di conto anche dei membri elettivi che svolgano maneggio di denaro, si veda A. BUSCEMA, Il giudizio della Corte di conti sulla gestione degli organi contabili, Rivista della Corte dei conti, 2008, 3, pp. 287 e ss.
[15] Si legge nella sentenza in parola, al punto 5 del Considerato in diritto: «Dal punto di vista oggettivo, poi, l’obbligo di resa del conto e le eventuali responsabilità per mancata o irregolare resa del conto non concernono necessariamente attività deliberative, come talune di quelle compiute dagli organi cui sono attribuite funzioni di ordinatori della spesa, ma semplici operazioni finanziarie e contabili che non si sostanziano nell’espressione di voti e di opinioni, e quindi, anche se facessero capo a componenti del Consiglio, non ricadrebbero nell’ambito della prerogativa di insindacabilità».
[16] In dottrina, si schiera per la concorrenza degli strumenti di controllo A. VETRO, Problematica sui finanziamenti dei gruppi politici presenti nei Consigli regionali, con particolare riguardo alla giurisdizione del giudice contabile per le ipotesi di danno erariale, in www.Resp.Amm.it, 10.11.2014.
[17] Per una ricognizione delle diverse modalità in cui la prassi viene in rilievo nella giurisprudenza costituzionale si veda l’interessante scritto di P. CARNEVALE, A Corte…così fan tutti? Contributo ad uno studio su consuetudine, convenzioni e prassi costituzionali nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in Rivista AIC, 4/2014.
[18] La Corte cita i suoi precedenti nn. 252 del 2013, 150 del 2007 e 326 del 2003. Per l’ammissibilità dei conflitti di attribuzione innescati da atti giurisdizionali non basterebbe la prospettazione della violazione di competenze costituzionali (il c.d. tono costituzionale), ma sarebbe altresì necessario che si contesti la riconducibilità dell’atto impugnato alla giurisdizione ovvero che esso sia espressione di un suo uso abnorme. Meriterebbe, tuttavia, un maggiore approfondimento, non possibile in questa sede, la verifica dell’effettiva sussistenza di una differenza tra il filtro di ammissibilità specificamente riferito agli atti giurisdizionali e quello generale rappresentato dalla presenza del c.d. tono costituzionale, posto che in alcuni arresti relativi agli atti giurisdizionali, questa differenza sembrerebbe attenuata, se non addirittura elisa, laddove, oltre alle ipotesi di lamentata assenza della giurisdizione e suo uso abnorme, si fa riferimento anche al superamento dei limiti posti a garanzia di altre attribuzioni costituzionali (così, ad esempio, la sentenza n. 1 del 2013 e le ordinanze nn. 334 del 2008 e 359 del 1999) o all’illegittimo esercizio del potere che determini una menomazione delle altrui sfere costituzionali (sentenza n. 195 del 2007). In ogni caso, può brevemente notarsi che, anche nelle ipotesi in cui la Corte ha utilizzato esclusivamente le categorie dell’assenza della giurisdizione o del suo uso abnorme, esse sono state in concreto “maneggiate” con una certa larghezza, il che sembrerebbe avere aperto le porte dell’ammissibilità a qualsiasi prospettazione di invasione delle altrui competenze costituzionali; e ciò sulla base del ragionamento implicito che, laddove l’esercizio della funzione giurisdizionale incida sull’altrui sfera di attribuzione, si assiste, in realtà, ad uno sconfinamento dalla giurisdizione (sentenze n. 1 del 2013, nn. 87 e 88 del 2012).
[19] In dottrina sul tema dell’esercizio di funzioni giurisdizionali del pubblico ministero si vedano V. PACILEO, Pubblico ministero. Ruolo e funzioni nel processo penale e civile, Utet 2011, pp. 152-165;M. MANETTI Funzioni e statuto del pubblico ministero, in Annuario AIC 2004, CEDAM 2008, pp. 175-198; P. GAETA (a cura di), il Pubblico ministero e l’obbligatorietà dell’azione, in Quaderno predisposto in occasione dell’incontro trilaterale delle Corti costituzionali italiana, spagnola e portoghese, ottobre 2011, STU 226/B,pp. 66-83.
[20] Sentenze nn. 252 del 2013 e 70 del 1985.
[21] La Corte porta a ulteriori sviluppo i principi affermati nella sentenza n. 29 del 1995, espressamente riferiti al solo controllo di gestione ma in realtà già chiaramente formulati in termini così generali da non fare dubitare della loro applicabilità a tutte le forme di controllo.
[22] Sull’obbligo di segnalazione della notitia damni gravante in capo ai magistrati della Corte dei conti investiti della funzione di controllo, si veda S. ANTONIAZZI, Federalismo e funzione di controllo della Corte dei conti sulla gestione negli enti locali, in Centro studi sul federalismo, 2009; CIMINI, La responsabilità amministrativa e contabile, pp. 159 e ss.; G. GINESTRA Le sezioni regionali di controllo della Corte dei conti dopo la legge 5 giugno 2003, n. 131, in Funzione pubblica, 2004, pp. 32 e ss.; M. RISTUCCIA, I controlli sulle autonomie nel nuovo quadro istituzionale. “I rapporti tra funzioni di controllo e le funzioni giurisdizionali della Corte dei conti”, in Rivista della Corte dei conti, 2006, IV, pp. 188 e ss.; A.L. TARASCO, Corte dei Conti ed effetti dei controlli amministrativi, pp. 280 e ss.
[23] Nel respingere l’eccezione d’inammissibilità della censura rivolta avverso tale nota per inidoneità lesiva della stessa, la Corte, al punto 7.2. del Considerato in diritto, la definisce «tratto terminale e accessorio della funzione di controllo espletata dalla sezione regionale», «naturaliter rivolta all’esterno, essendo indirizzata all’organo inquirente della magistratura contabile», e «di per sé idonea a innescare il compimento di un’attività di indagine della Procura».
[24] Si veda il punto n. 6.2 del Considerato in diritto.
[25] Resa nell’ambito di un giudizio per conflitto di attribuzione tra la Regione Umbria e la Procura regionale della Corte dei conti.
[26] Documentazione che, ricorda la Corte costituzionale, era stata trasmessa alla sezione dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Bologna, che, a sua volta, l’aveva acquisita nell’ambito delle indagini avviate già nel corso del 2012.
[27] Il riferimento della Corte sembra essere a Cass. civ., sez. un., ordinanza n. 23257 del 31 ottobre 2014, ove si legge: «Né, per la diversità dei piani di rispettiva operatività, la giurisdizione del giudice contabile sulla gestione dei contributi in rassegna potrebbe risolversi in inammissibile interferenza sul voto consiliare in tema di approvazione del bilancio consuntivo, quale sintesi documentale delle risultanze contabili afferenti alle attività e alle passività finanziarie e patrimoniali dell’ente. Del resto, proprio nell’ottica suindicata, Corte cost. 292/2001 – ritenuta la piena applicazione della giurisdizione contabile agli apparati regionali – ha affermato che l’autonomia organizzativa e contabile di cui gode il consiglio regionale non implica che l’amministrazione sia sottratta al controllo giurisdizionale stabilito dalle leggi statali sull’attività di maneggio del denaro pubblico, giacché questo non comporta di per sé interferenza con attività deliberative né implicazioni di “opinioni” e “voti” in capo ai componenti del consiglio regionale».
[28] In questo senso Corte dei conti, sezione giurisdizionale Friuli Venezia Giulia, ordinanza n. 38 del 10 ottobre 2013; Corte dei conti, sezione giurisdizionale Friuli-Venezia Giulia, sentenza n. 11 del 3 febbraio 2014.