Introduzione
Come era facile prevedere[1] il jobs act è infine annegato in un mare di incostituzionalità; tanto che si potrebbe considerare un record quello ottenuto - in negativo - dalla disciplina dei licenziamenti delineata con il d.lgs. n. 23/2015 per le ripetute dichiarazioni di incostituzionalità (cinque totali) a cui è stata assoggettata e che hanno avuto una recente impennata con le tre sentenze (nn. 22, 128 e n.129) pronunciate nel 2024 dalla Corte costituzionale: bisogna risalire alla legislazione del periodo fascista per trovare qualcosa di comparabile.
1. Le sentenze n. 194 del 2018 e n. 150 del 2020
Un primo fatale colpo alla filosofia su cui poggiava la stessa disciplina del c.d. contratto “a tutele crescenti” – il cuore del jobs act - lo ha subito inferto la sentenza n. 8 novembre 2018, n. 194, con cui è stata demolita la disposizione che calibrava in modo uniforme, rigido ed automatico il calcolo dell’indennità prevista per il licenziamento ingiustificato (carente di giusta causa, giustificato motivo soggettivo o oggettivo) in «una mensilità dell’ultima retribuzione per ogni anno di servizio», all’unico ed esclusivo scopo di far conoscere per legge ed in anticipo al datore di lavoro il costo del proprio atto illegittimo, senza alcuna considerazione della congruità del risarcimento rispetto al caso concreto e senza che si desse nessun rilievo alle variabili dipendenti dalla situazione di chi l’ingiustizia dell’atto l’aveva invece subita, alla diversa situazione di ogni prestatore e della di lui famiglia (anche ai sensi dell’art. 36 Cost.).
Si trattava di una regolamentazione dichiaratamente squilibrata ed inidonea a realizzare un ragionevole contemperamento degli interessi in conflitto. Sicché la stessa pronuncia è stata poi replicata con la sentenza della Corte cost. n. 150 del 2020 in relazione alla determinazione dell’indennità risarcitoria per i vizi formali (e procedurali) parimenti imperniata sulla sola anzianità di servizio.
2. La sentenza n. 22/2024
Nel 2024 le sentenze di contrarietà a Costituzione sono state invece tre.
Con la prima sentenza, la n. 22 del 2024, la Corte costituzionale ha sancito l’illegittimità dell’art. 2, comma 1, del d.lgs. 23/2015 (cosiddetto “Jobs Act”) con riferimento al termine «espressamente»; pertanto, come aveva ipotizzato la Corte di cassazione nell’ordinanza di rimessione n. 83/2023, la limitazione dell’applicabilità della tutela reintegratoria ai lavoratori assunti con contratti a tutele crescenti nelle sole ipotesi di nullità del licenziamento previste espressamente come tali è stata ritenuta non conforme alla Costituzione in ragione della violazione del criterio contenuto nella legge di delega (v. art. 1, comma 7, lett. c, legge n. 183/2014). Secondo la Consulta, il riferimento ai «licenziamenti nulli» contenuto nel criterio direttivo non prevedeva, e dunque non consentiva, alcuna distinzione tra nullità espresse e non espresse (altrimenti dette virtuali), contemplando una distinzione esclusivamente per i licenziamenti disciplinari ingiustificati.
Non solo: l’opera del legislatore delegato non è risultata conforme neppure in ragione del vuoto normativo che il metodo redazionale assunto ha determinato sulle fattispecie escluse, e cioè i licenziamenti nulli per violazione di norme imperative prive della espressa sanzione della nullità, rimaste senza specifica disciplina.
Pertanto, diversificando la tutela a seconda del carattere espresso o virtuale della nullità, il d.lgs. 23/2015 ha violato il criterio di delega fissato dall’art. 1, comma 7, lett. c della legge n. 183/2014 e dunque anche l’ineludibile principio fissato dall’art. 76 della Carta Costituzionale.
Si tratta di una decisione dai chiari effetti espansivi sulla tutela dei lavoratori ingiustamente licenziati che impatterà in maniera importante sui futuri giudizi di merito.
3. La sentenza n. 128 del 16.07.2024: reintegra per insussistenza del fatto nel jobs act
Con la sentenza n. 128 del 16.07.2024, la Corte costituzionale ha invece affermato che la tutela reintegratoria attenuata deve trovare applicazione anche nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del recesso da parte del datore.
Nella sentenza la Corte rileva che, seppure la ragione d’impresa posta a fondamento del giustificato motivo oggettivo di licenziamento non risulti sindacabile nel merito, il principio della necessaria causalità del recesso datoriale esige che il «fatto materiale» allegato dal datore di lavoro sia «sussistente», sicché la radicale irrilevanza dell’insussistenza del fatto materiale prevista dalla norma censurata determina un difetto di sistematicità che rende irragionevole la differenziazione rispetto alla parallela ipotesi del licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo soggettivo. Ed inoltre consentirebbe alla parte datoriale di scegliere arbitrariamente in caso di intimazione di un licenziamento fondato su un fatto insussistente, e di qualificarlo come licenziamento per giustificato motivo oggettivo piuttosto che come licenziamento disciplinare, al solo fine di non rischiare l’applicazione della tutela reintegratoria.
Precisa, infine, la Corte che il vizio di illegittimità costituzionale non si riproduce invece in mancanza di repêchage qualora il fatto materiale, allegato come ragione d’impresa, sussiste ma non giustifica il licenziamento perché risulta che il lavoratore potrebbe essere utilmente ricollocato in azienda.
Ne consegue che la dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione censurata deve tener fuori la possibilità di ricollocamento del lavoratore licenziato per ragioni di impresa, non diversamente da come la valutazione di proporzionalità del licenziamento rispetto al fatto realmente commesso è stata tenuta fuori dal licenziamento disciplinare fondato su un fatto insussistente, fatta salva però la «sproporzione convenzionale» prevista in modo tassativo dalla contrattazione collettiva (giusta la coeva sentenza n.129/2024 su cui ci soffermeremo in modo più esteso nelle note che seguono).
4. La sentenza n. 129/2024, il licenziamento disciplinare e la reintegra
La sentenza n. 129/2024 interviene quindi in materia di sanzione prevista dal d.lgs. n. 23 del 2015 per il licenziamento disciplinare. In questo caso la Corte ha adottato però la tecnica della sentenza interpretativa di rigetto ed ha affermato che l’art. 3, comma 2 - che prevede la reintegra solo in caso di «mancanza del fatto materiale con esclusione di qualsiasi rilevanza del giudizio di proporzionalità» - può essere ritenuto costituzionalmente legittimo solo se interpretato nel senso che includa anche l’ipotesi in cui la fattispecie disciplinare contestata sia tipizzata dalla contrattazione collettiva come punibile con sanzione conservativa
Ai fini dell’interpretazione di rigetto – che, va precisato, espunge comunque dalla lettura della norma una parte del suo apparente significato - è stato determinante il potenziale contrasto della disposizione di legge, prospettato dal tribunale di Catania, con l’art. 39 Cost.: ma sempre che l’art. 3, comma 2 del d.lgs. n. 23/2015 prevedesse veramente che la reintegrazione fosse da escludere anche in caso di licenziamento intimato per un fatto cui la contrattazione collettiva riserva una sanzione conservativa, come era avvenuta nel caso di specie. Ove la legge escludesse la reintegra per una fattispecie disciplinare punita dalla contrattazione collettiva con una sanzione conservativa secondo la Corte Cost. «comprimerebbe ingiustificatamente l’autonomia collettiva, il cui ruolo essenziale nella disciplina del rapporto di lavoro, privato e pubblico, è stato più volte riconosciuto da questa Corte (sentenze n. 53 del 2023, n. 153 del 2021, n. 257 del 2016 e n. 178 del 2015)» e sarebbe pertanto illegittima costituzionalmente.
La mancata previsione della reintegra nelle ipotesi in cui il fatto contestato sia punito con una sanzione conservativa dalle previsioni della contrattazione collettiva andrebbe ad incrinare il tradizionale ruolo delle parti sociali nella disciplina del rapporto e segnatamente nella predeterminazione dei canoni di gravità di specifiche condotte disciplinarmente rilevanti.
Ma per la Corte cost. questo non è l’inevitabile approdo a cui deve condurre l’interpretazione della normativa in oggetto. Al contrario di quanto ipotizzato dal giudice a quo la Corte ha invece osservato come nella norma di legge manchi qualsiasi riferimento alla contrattazione collettiva: l’art.3, comma 2, denunciato come costituzionalmente illegittimo non menziona infatti l’ipotesi in cui la contrattazione collettiva contempla una sanzione conservativa; e perciò non prevede espressamente che la reintegra debba essere negata anche nell’ipotesi suddetta. Ed ha affermato quindi che sia possibile una interpretazione diversa da quella prospettata, sulla scorta del collaudato principio secondo cui, «le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime solo perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (sentenza n. 42 del 2017), potendo questa Corte indicarne l’interpretazione adeguatrice, orientata alla conformità a Costituzione, sì da superare un dubbio di legittimità costituzionale (ex plurimis, sentenze n. 41 e n. 36 del 2024, n. 183, n. 105, n. 46 e n. 10 del 2023)».
Pertanto, secondo la Corte cost., è possibile ed anzi doverosa «un’interpretazione adeguatrice» della disposizione in parola che consente di escludere l’illegittimità costituzionale denunciata dal giudice a quo. Ed essa impone di «equiparare» l’ipotesi del fatto materiale insussistente a quella in cui il fatto è punito dalla contrattazione collettiva con una sanzione conservativa, posto che «in tali ipotesi, il fatto contestato è in radice inidoneo, per espressa pattuizione, a giustificare il licenziamento. Non vi è un ‟fatto materiale” che possa essere posto a fondamento del licenziamento, il quale, se intimato, risulta essere in violazione della prescrizione della contrattazione collettiva, sì che la fattispecie va equiparata a quella, prevista dalla disposizione censurata, dell’«insussistenza del fatto materiale», con conseguente applicabilità della tutela reintegratoria attenuata».
Pertanto quante volte la contrattazione collettiva preveda per quel comportamento una mera sanzione conservativa (ad es. un rimprovero, la multa, la sospensione) il giudice che dichiari l’illegittimità del licenziamento dovrà accordare la reintegra.
In tal modo l’abuso manifesto e consapevole nell’impiego dello strumento disciplinare non può dunque portare più allo scopo di estinguere il licenziamento; quello che veniva detto una volta il torto marcio per l’esplicita previsione di sanzione conservativa - magari richiamata nella procedura di contestazione – porta dunque ancora alla reintegra al contrario di quanto sembra affermato dal legislatore del jobs act posto che secondo la lettera della norma (art.3) del decreto legislativo, la mancanza di proporzionalità del licenziamento precluderebbe al giudice di accordare la tutela reintegratoria («resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento»).
Si può evidenziare che alla luce dell’art.39 Cost. la decisione della Corte si regge su un duplice ordine di considerazioni perché essa sostiene, sia che occorra «equiparare l’ipotesi del fatto materiale insussistente a quella in cui il fatto è punito dalla contrattazione collettiva con una sanzione conservativa» e, nel contempo, che occorra dare rilievo alla mancanza di «proporzionalità convenzionale».
Si tratta perciò, in sintesi, di una sentenza interpretativa di rigetto, adeguatrice ed inclusiva. Di rigetto, perché la Corte ha dichiarato la non fondatezza della questione in quanto dalla disposizione impugnata si deduce un’interpretazione normativa diversa da quella desunta dal giudice a quo, e comunque un’interpretazione che la Corte ha ritenuto conforme alla Costituzione; adeguatrice, perché non esistendo un diritto vivente da richiamare allo scopo la stessa Corte cost. ha elaborato direttamente (e per la prima volta a quanto risulta) una interpretazione della norma tale da renderla compatibile con i principi costituzionali richiamati dal giudice a quo e ritenuti diversamente fondati; inclusiva perché riconduce nell'articolo 3, comma 2 anche il riferimento alla contrattazione collettiva che la norma non prevede in alcun modo (come afferma testualmente la stessa pronuncia).
5. La giurisprudenza di legittimità e l’interpretazione abrogans del fatto materiale
La soluzione interpretativa accolta dalla Corte costituzionale si ricollega in maniera piuttosto evidente ai correttivi che erano stati già apportati alla categorica formula normativa dell’art. 3, comma 2, sul licenziamento disciplinare da parte della giurisprudenza di legittimità; la quale, nonostante l’intenzione del legislatore di limitare la previsione della reintegra alla sola mancanza degli elementi del «fatto materiale contestato», aveva subito affermato il contrario, adottando sostanzialmente una interpretazione abrogatrice del nuovo disposto normativo.
In particolare la Corte di cassazione ha affermato che, in tema di licenziamento disciplinare, l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, ai fini della pronuncia reintegratoria di cui all'art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, comprende non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare o risulti privo di illiceità, offensività o antigiuridicità (sentenza n. 12174 del 08/05/2019, Sez. L., Ordinanza n. 30469 del 02/11/2023).
In sostanza per i giudici di legittimità, nonostante la diversa formula adottata dal d.lgs. n. 23/2015 rispetto a quella dell’art. 18 novellato dalla legge n. 92 del 2012 (col passaggio dal «fatto contestato» al fatto «materiale» contestato), ai fini dell’esclusione della reintegra non sarebbe comunque sufficiente che la condotta si sia verificata in rerum natura; ed occorre invece che il fatto abbia assunto un compiuto carattere illecito (sotto il profilo della imputazione soggettiva e dell’antigiuridicità).
In tali pronunce la Corte di cassazione si confronta con le interpretazioni già adottate (in materia di fatto contestato) ai fini dell’art.18 novellato dalla l. n. 92/2012, si chiede «se le medesime conclusioni possano confermarsi anche in relazione alla disciplina dettata dal d.lgs. n. 23 del 2015» ed offre una risposta perentoria e senza equivoci: «Ritiene il Collegio che alla domanda debba darsi risposta affermativa».
Questa assimilazione si giustificherebbe sul piano letterale «poiché la norma parla di fatto materiale contestato (comprensivo quindi anche di altri elementi non materiali)» ed inoltre perché la norma sarebbe altrimenti gravemente sospetta sul piano costituzionale[2].
Sarebbe stato in effetti ingiusto lasciare fuori dal fatto la rilevanza disciplinare, la responsabilità, l’imputabilità, l’antigiuridicità, la colpa, il caso fortuito, il difetto di proporzionalità, ecc. in quanto ciò avrebbe significato rimettere nelle mani del datore l’estinzione del rapporto di lavoro per qualsivoglia genere di ragione: sarebbe bastato appunto un mero fatto, anche di infima, se non di nessuna rilevanza disciplinare. Perciò anche nella nuova disciplina dei licenziamenti per i c.d. contratti a tutele crescenti la mancanza di elemento soggettivo, o di antigiuridicità, o di rilevanza disciplinare, o la presenza di forza maggiore, la mancanza di gravità già in astratto, conduce ancora alla tutela reintegratoria attenuata come per la precedente regolamentazione stabilita dalla legge Fornero.
E nella sentenza n. 12174 del 08/05/2019 la Corte di Cassazione fornice una ampia ed approfondita motivazione delle ragioni logiche, costituzionali e di concreta giustizia a sostegno della soluzione indicata sostenendo che la diversa formula di legge si spiega invece soltanto se interpretata in connessione con la disciplina della proporzionalità[3].
6. Ritorna la comparazione con la contrattazione collettiva e la proporzionalità convenzionale
Proprio in coerenza ed in connessione con queste premesse, la soluzione adottata dalla Corte cost. può sovrapporre la valutazione circa la sussistenza del fatto (che la norma vorrebbe limitata alla sua essenza materiale) alla sua regolamentazione giuridica all’interno del codice disciplinare; ed arrivare ad affermare che il fatto materiale contestato sia carente financo quando - benché esistente in tutti i suoi elementi costitutivi (materiali, soggettivi, antigiuridici) - sia diversamente regolato in termini di gravità dalla contrattazione collettiva, con comminazione di una sanzione conservativa.
L’essere il fatto contestato previsto come illecito disciplinare meno grave tipizzato esclude la sussistenza del fatto materiale contestato alla base del licenziamento. E nel fatto materiale è inclusa anche la proporzionalità convenzionale.
Se la lettura della disposizione censurata fosse stata invece diversa, nel senso che anche in questa particolare ipotesi rimane «estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento», allora le censure del giudice rimettente, riferite alla denunciata violazione dell’art. 39 Cost., avrebbero avuto fondamento.
Infatti «La mancata previsione della reintegra nelle ipotesi in cui il fatto contestato sia punito con una sanzione conservativa dalle previsioni della contrattazione collettiva andrebbe ad incrinare il tradizionale ruolo delle parti sociali nella disciplina del rapporto e segnatamente nella predeterminazione dei canoni di gravità di specifiche condotte disciplinarmente rilevanti. Le previsioni della contrattazione collettiva sono espressione dell’autonomia negoziale di entrambe le parti, sì che la predeterminazione della sanzione conservativa consente al datore di lavoro di conoscere in anticipo la gravità di specifiche inadempienze del lavoratore e quindi di adeguare ex ante il provvedimento disciplinare senza correre il rischio di dover subire l’alea di un successivo giudizio di proporzionalità; se la ratio del ridimensionamento della rilevanza del sindacato di proporzionalità, recato dal d.lgs. n. 23 del 2015, è anche quella di garantire maggiore certezza, tale finalità risulta ampiamente soddisfatta dalla puntuale tipizzazione operata della contrattazione collettiva. Non è quindi contraddetto il ridimensionamento della tutela reintegratoria in caso di licenziamento disciplinare, che rimane pur lasciando fuori dall’esclusione della valutazione di proporzionalità l’ipotesi dello specifico fatto, disciplinarmente rilevante, che la contrattazione collettiva preveda come suscettibile di una sanzione solo conservativa. Rimane altresì la simmetria tra licenziamento disciplinare e licenziamento per ragione di impresa, tracciata da questa Corte nella sentenza n. 128 del 2024 sulla linea del «fatto materiale insussistente», lungo la quale c’è il riallineamento delle due fattispecie di licenziamento, anche se il licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo per un fatto assai lieve, tipizzato dalla contrattazione collettiva con previsione specifica, si collochi al di qua di quella linea e ricada anch’esso nella tutela reintegratoria attenuata».
7. Effettività della sanzione ma anche ragionevolezza della disciplina
Quante volte si parla della sanzione e non della sola illegittimità dei licenziamenti si ricorda sempre che il legislatore non sia vincolato sul piano costituzionale ad adottare la reintegra. La Corte costituzionale lo ha ripetuto anche nella sentenza n. 129/2024 ribadendo che la reintegra non sia l’unica obbligatoria tutela che la legge può prevedere contro il licenziamento illegittimo. Ed è vero, perché si può modulare discrezionalmente la tutela a seconda della natura del vizio o delle dimensioni dell’impresa o della tipologia del rapporto di lavoro ed anche della qualità del prestatore. «Il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, può operare una diversa scelta della disciplina di contrasto dei licenziamenti illegittimi sempre che risulti una tutela adeguata e sufficientemente dissuasiva (sentenza n. 7 del 2024). Occorre però che la tutela sia comunque adeguata e sufficientemente dissuasiva».
Ma una disciplina di tutela contro il licenziamento illegittimo non pone soltanto un problema di effettività (adeguatezza e dissuasività) della sanzione. Pone anche un problema di razionalità e di eguaglianza ed in definitiva di giustizia sostanziale nella delineazione delle diverse ipotesi rientranti nell’una o nell’altra tipologia di sanzioni comunque mantenute presenti nell’ordinamento (si pensi ad es. ad una norma che non preveda alcuna reintegra in caso di licenziamento nullo per l’ipotesi di discriminazione e che invece la disponga per l’ipotesi di una mera irregolarità procedurale).
Ai fini della legittimità della sanzione contro i licenziamenti illegittimi non basta che essa sia dissuasiva ed effettiva. Ce lo dice la stessa sentenza n. 129/24 in cui, pur in presenza di sanzione ritenuta in generale rispettosa del canone della dissuasività, la contrarietà alla Costituzione viene ricavata dal contrasto del canone normativo con l’art.39 Cost. (per violazione dell’autonomia e della libertà sindacale, incoerenza rispetto alla ratio della disciplina). E lo stesso risulta dalla coeva sentenza n.128 del 2024 con cui l’insussistenza del «fatto materiale» relativo al gmo è stata parificata per identità di ratio (ex art. 3 Cost) alla mancanza del fatto materiale disciplinare e resa al pari di questo sanzionabile con la reintegra; pur in presenza di una sanzione che la medesima Corte cost. continua a giudicare in generale legittima sul piano costituzionale in quanto connotata da adeguatezza e dissuasività.
Per analoghe esigenze di razionalità e giustizia sostanziale, come si è visto, la Corte di cassazione (n. 12174 del 08/05/2019) ha d’altra parte affermato, in sede di interpretazione della stessa normativa del jobs act, che il legislatore non possa accordare la reintegra solo per la mancanza degli elementi materiali del fatto contestato (la condotta, l’evento, il nesso di causa) e non accordarla (arbitrariamente) per la mancanza dell’elemento soggettivo, dell’antigiuridicità e della rilevanza disciplinare della condotta esistente sul piano materiale.
8. L’esigenza di un nuovo inquadramento sistematico
Una volta mantenuta nell’ordinamento la diversità di tutele (reintegratoria e indennitaria) la distinzione tra l’una e l’altra sanzione deve essere definita attraverso un criterio giusto, equo e razionale.
Ora, a seguito dell’addizione normativa operata in via interpretativa dalla Corte cost. con la sentenza n. 129/24, la formula dell’art.3, comma 2, del d.lgs. n. 23/2015 (mancanza del fatto materiale contestato, ivi compresa l’espressa tipizzazione del fatto ad opera della contrattazione collettiva con comminazione di corrispondente sanzione conservativa) deve tornare a fare i conti con gli interpreti, sotto diversi aspetti, essendo necessaria una sua più compiuta sistematizzazione.
La prima e più importante questione che ora si ripropone è come sia possibile - una volta introdotta la reintegra per la fattispecie disciplinare tipica prevista con sanzione conservativa dalla contrattazione collettiva - non riconoscere l’applicazione della medesima tutela reintegratoria anche per la fattispecie disciplinare lieve, ma prevista dalla contrattazione collettiva con formula elastica.
Anzitutto non si può affermare che questa opzione interpretativa sia stata esclusa come plausibile dalla Corte Cost. nella sentenza n. 129/2024 posto che nel caso concreto, come risulta in più punti dalla stessa pronuncia, la questione di costituzionalità sollevata con l’ordinanza dal giudice a quo di Catania era fondata sulla premessa che il «fatto contestato, in base alle previsioni della contrattazione collettiva applicabile al rapporto, fosse punibile esclusivamente con sanzioni di natura conservativa».
Scrive in proposito la Corte Cost: «6.– Il giudice rimettente censura il mancato riconoscimento della tutela reintegratoria quando, per l’inadempienza del lavoratore contestata dal datore di lavoro, che si riveli “sussistente”, sia la stessa contrattazione collettiva a prevedere una sanzione conservativa. Si verte in questi casi non già in ipotesi di "insussistenza del fatto", perché è pacifico che la ragione di inadempimento esista, bensì di un radicale difetto di proporzionalità della sanzione del licenziamento rispetto alla violazione disciplinare allegata dal datore di lavoro, per la quale la contrattazione collettiva prevede solo una sanzione conservativa».
La sentenza della Corte Cost. non aveva quindi motivo di esaminare anche la specifica ipotesi che qui si discute in cui il fatto contestato rientri in una previsione collettiva elastica o indeterminata (furto di lieve entità, insubordinazione grave, ecc.).
E se pure nella sua disamina la Corte Cost. parrebbe escludere che in tale ipotesi si possa pronunciare un giudizio di contrarietà della disposizione ai precetti costituzionali, pur tuttavia ora che l’art. 3 (ed il fatto materiale) è stato esteso alla valutazione di proporzionalità ex art 39 Cost. è lecito porre il dubbio di una lettura più congrua e coerente della norma, che includa - a livello della ordinaria interpretazione normativa - anche l’ipotesi in cui la stessa contrattazione richieda all’interprete di applicare una sanzione lieve in relazione ad una fattispecie indeterminata.
a. Anzitutto, perché come si è visto la Corte cost. non aveva motivo di occuparsi di questa questione perché il caso in concreto rilevante era diverso.
b. In secondo luogo, perché le argomentazioni esposte dalla Corte cost. in una sentenza interpretativa di rigetto non possono essere vincolanti per l’interprete in relazione a questioni differenti da quelle oggetto del giudizio di costituzionalità (come è appunto quello della riconducibilità del fatto contestato alle clausole elastiche stabilite dalla contrattazione attraverso un giudizio di sussunzione rimesso all’interprete). Come è noto le sentenze interpretative di rigetto vincolano in negativo l’interprete (il giudice a quo e tutti gli altri giudici comuni) che non può applicare la norma nell’interpretazione ritenuta non conforme alla Costituzione dalla Corte costituzionale; ma non possono impedire di adottare terze interpretazioni anche sullo stesso oggetto; né tanto meno vincolare il giudice in relazione ad aspetti della norma ed a casi differenti da quelli oggetto dell’interpretazione della norma su cui ha pronunciato la Corte Cost.[4].
c. Inoltre va ricordato che non tutto quello che non sia ritenuto in contrasto con la Costituzione deve essere per ciò solo ritenuto valido sul piano normativo e deve essere confermato dall’interprete anche quando non risulti compatibile altrimenti con l’ordinamento in base ad una verifica condotta con l’impiego dei normali canoni esegetici. Inoltre, a parità di conformità a Costituzione, l’interprete deve sempre preferire la tesi che risulti meglio armonizzabile con il piano logico e sistematico desumibile dall’ordinamento.
Le sentenze interpretative di rigetto della Corte cost. non possono quindi ledere la libertà del giudice di interpretare ed applicare la legge (art. 101, 2 c. Cost.); e conseguentemente l’operazione interpretativa di cui si discute è demandata al giudice comune ed alla Corte di cassazione in primis la quale deve ricondurre a sistema le norme, assicurare l'uniforme interpretazione della legge a parità di dati normativi e la coerenza generale dell'ordinamento, attraverso l’esercizio della funzione di nomofilachia attribuitale dall’art.65 dell’Ordinamento giudiziario.
Il tema è stato individuato: se le parti sociali – nell’esercizio della loro autonomia e libertà sindacale- hanno stabilito che in casi di infrazioni lievi deve essere garantita la continuità del rapporto di lavoro ed irrogata una sanzione conservativa non si capisce perché, in mancanza di una contraria ed espressa formula di legge, pure evidenziata dalla stessa sentenza 129/24 della Corte cost. («l’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015 non contiene, in realtà, alcun riferimento testuale alle "previsioni dei contratti collettivi”»), al momento della scelta della sanzione l’ordinamento dovrebbe prescinderne, solo perché il risultato voluto dalle parti collettive richiede per sua natura un accertamento del giudice a cui esse fanno evidentemente rinvio.
6. La presunta ratio di protezione del datore di lavoro
Davvero non si intuisce perché la violazione comunque accertata della fattispecie contenuta nella contrattazione collettiva debba produrre risultati differenti, solo perché c’è necessità della mediazione del giudice. Solo perché in un caso le parti hanno previsto tassativamente la fattispecie e nel secondo caso l’hanno descritta attraverso una formula generica. Ma il voluto delle parti collettive è comunque sempre quello, proviene dalle stesse parti collettive e non si capisce in nome di quale principio superiore dovrebbe essere sterilizzato.
Che differenza esiste tra l’una e l’altra ipotesi? Evidentemente nessuna dal punto di vista della tutela della autonomia e della libertà sindacale o dal punto di vista della tutela del lavoratore.
La differenza c’è, si dice, dal punto di vista del datore, perché il datore deve sapere prima. L’interesse a sapere prima prevarrebbe quindi su qualsiasi altro interesse. Anche rispetto a quello della giustizia del caso concreto e dell’accertamento (della rispondenza di un fatto ad una previsione generale). Anche sull’interesse sindacale farebbe aggio l’interesse del datore di lavoro a sapere prima che il licenziamento, pur intimato in un caso in cui è prevista dalla contrattazione collettiva la sanzione conservativa (per un fatto lieve non tipizzato), deve comunque condurre necessariamente all’estinzione del rapporto.
Ora tale asserita ratio - secondo cui il datore di lavoro deve essere protetto e conoscere ex ante che il suo atto di licenziamento sia in grado di produrre l'effetto risolutivo anche in caso di illegittimità, e che debba essere protetto anche dall'alea del giudizio di proporzionalità - è una tesi contraddittoria che contrasta radicalmente con l'ordinamento.
Sia perché la contrattazione collettiva affida al giudizio di proporzionalità addirittura la valutazione di legittimità dell'atto di risoluzione, e non solo la scelta della sanzione. E sia perché la contrattazione collettiva (garantita dalla Costituzione ed a cui sempre rinvia la legge in materia di lavoro) normalmente prevede clausole generali, norme indeterminate, espressioni elastiche che devono essere riempite di contenuto proprio dal giudice (art.101 Cost.).
In specifico la legge (art. 30, comma 3, della legge 4 novembre 2010, n. 183), da una parte si è preoccupata di prescrivere che il giudice deve tener conto delle clausole collettive in materia di licenziamento; e non solo ai fini del controllo della causale ma anche quanto al giudizio sulle sanzioni (sia pure nelle piccole imprese ex art 8 l. n. 604/1966)[5].
Inoltre il legislatore (il terzo comma dell’art.30, comma 3 l. n. 183/2010) ha anche regolamentato il potere interpretativo del giudice rispetto alle clausole generali relative tra l’altro al recesso contenendolo nei limiti del controllo dei presupposti di legittimità, e tale indicazione dettata per le disposizioni di legge non può non valere anche per le norme contrattuali collettive[6].
Sicché si tratta di un giudizio ben delimitato; e non si intuisce quindi su che cosa si fondi questa diffidenza nei confronti della valutazione giudiziale - pur richiesta dalle parti collettive e dalla legge - quando si tratta di prevedere se il licenziamento comunque illegittimo riconducibile ad una sanzione conservativa debba comunque mantenere fermo il proprio effetto estintivo; quella stessa valutazione in materia di rispetto della contrattazione collettiva pregiudizialmente necessaria ai fini della legittimità dell'atto non dovrebbe contare ai fini della individuazione della sanzione.
Con lo stesso metodo si potrebbe arrivare a sostenere persino che il datore di lavoro dovrebbe essere protetto dall’alea del giudizio tout court e non debba essere assoggettato ad alcun controllo di legalità neppure quando la causale sia delimitata dalla contrattazione collettiva!
7. Il datore di lavoro non può sopportare l’alea del giudizio come gli altri soggetti?
Questa soluzione si rivela ancor più incoerente e squilibrata con specifico riferimento al licenziamento disciplinare; perché in questo ambito il posto di lavoro esiste e non si capisce perché debba essere sottratto proprio a quel lavoratore che si sia difeso in giudizio riuscendo ad ottenere l’accertamento che le previsioni stabilite dalle parti sociali per estinguere il rapporto siano inesistenti e siano presenti invece quelle stabilite sempre dalle parti sociali per la conservazione del rapporto con irrogazione di una sanzione conservativa.
Nel licenziamento disciplinare non c’è soppressione di posto, che non è interessato da modificazioni organizzative ed esso deve essere di conseguenza attribuito ad un lavoratore. Non viene in gioco alcuna facoltà discrezionale di organizzazione dell’attività aziendale. Dunque per esso la giustificazione organizzativa sempre invocata per facilitare i licenziamenti, non potrebbe trovare coerente applicazione. Per i licenziamenti disciplinari anzi si è sempre detto, fin dagli anni 70, il contrario, ovvero che essi attengano a profili e questioni che coinvolgono veri e propri principi di civiltà (v. sentenza n. 427/1989 Corte Cost.).
Ed in effetti, siamo nel campo delle sanzioni private, che una parte di un rapporto contrattuale ha il potere di irrogare nei confronti dell’altra; un potere anomalo per ogni altro rapporto contrattuale, ma non nel nostro, di cui costituisce anzi elemento costitutivo fondamentale, integrando la stessa nozione di lavoro subordinato. Si parla perciò di sanzioni (conservative ed estintive) che possono incidere sulla persona e sulla dignità, per tutto quello che sappiamo essere insito nel lavoro. Sicché l’aver stabilito in un giudizio che il lavoratore meriti solo una sospensione dal lavoro (o una multa) e non un licenziamento non dovrebbe comportare contraddittoriamente alcun effetto sulla conservazione del suo posto di lavoro, per il cui accertamento ha agito il medesimo lavoratore.
8. La valutazione circa la sproporzione del licenziamento
Ma si potrebbe obiettare che in realtà nell’art. 3, comma 2, bisogna fare i conti anche con l’ulteriore formula ivi presente che (oltre a restringere la rilevanza del fatto a quello materiale contestato) esclude qualsiasi rilievo alla mancanza di proporzionalità. Infatti, secondo la lettera della norma la mancanza di proporzionalità del licenziamento preclude al giudice di accordare la tutela reintegratoria («resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento»).
La formula normativa è stata però già incisa e spacchettata dalla sentenza n.129/24 con cui la Corte Cost. ha affermato che la «proporzionalità convenzionale» (ed anche a fortiori, come si dirà, quella unilaterale) debbono condurre alla reintegra.
Pertanto, quante volte il codice disciplinare preveda per il comportamento contestato una mera sanzione conservativa (ad es. un rimprovero), il giudice che dichiari l’illegittimità del licenziamento deve accordare la reintegra grazie alla sentenza n. 129/2024 della Corte Cost., la cui pronuncia è nella sostanza di illegittimità costituzionale, e comunque dotata di un elevato tasso di creatività, tipico del legislatore, perché non era agevole giungere per via interpretativa allo stesso risultato da parte di un giudice comune.
Ma se la proporzionalità è ritornata nel fatto materiale in presenza di tipizzazione convenzionale, perché escludere la sua rilevanza quante volte - in presenza di previsione collettiva elastica- sia invece necessaria la mediazione del giudice? Tutti o quasi i codici disciplinari contengono clausole di gradualità delle sanzioni («nei casi più gravi»), e comunque previsioni generiche ed elastiche, che modulano le condotte previste in vari stadi di gravità attraverso la mediazione dell’interprete; al quale rimettono quindi il giudizio circa la ricorrenza della fattispecie disciplinare.
9. Il ritorno al passato
Con la sentenza n.129/2024 ci troviamo nella situazione secondo cui l’accesso alla tutela reale sarebbe limitato - per dirla con stesse parole della Corte Cost. - ai soli casi in cui «la valutazione di proporzionalità, fra sanzione conservativa e fatto contestato, sia tipizzata dalla contrattazione collettiva».
A ben vedere, una situazione che corrisponde in pratica all’interpretazione dell’art. 18 (novellato dalla legge 92/2012) che era ritenuta corretta da una parte della giurisprudenza[7] prima della successiva rimeditazione della medesima formula normativa operata dalla Corte di cassazione (sentenza 11 aprile 2022, n. 11665) sul terreno dell’interpretazione della legge ordinaria e la cui vicenda risulta pure rievocata nella sentenza n.129/24.
In proposito, la Corte Cost. rammenta opportunamente la querelle interpretativa che si era innescata nella Corte di legittimità rilevando che anche nel regime dell’art.18 riformato dalla legge n.92 del 2012 vi furono delle dispute interpretative, superate, da una parte, valorizzando il richiamo alla contestazione («fatto materiale contestato»), e, quindi, alla rilevanza disciplinare della condotta (che finisce per attrarre nella tutela reintegratoria tutte le ipotesi in cui sia da escludere in radice un inadempimento, anche sotto il profilo soggettivo, perché la condotta non è accompagnata dalla necessaria coscienza e volontà oppure è stata tenuta in un contesto in relazione al quale nessun addebito può essere mosso al lavoratore).
Inoltre la Corte menziona che l’altra difficoltà di ricondurre al fatto anche il giudizio di proporzionalità fondato sull’art. 2106 cod. civ., è stata stemperata con il consolidarsi di altro orientamento favorevole all’apertura alle clausole generali in merito all’ampiezza del rinvio operato dall’art. 18, quarto comma, Statuto lavoratori, alle previsioni della contrattazione collettiva e dei codici disciplinari.
E ricorda quindi che la stessa Corte di cassazione pronunciando in merito al contenuto dell’art 18 novellato (e sulla stessa formula ora presente nell’art. 3 del d.lgs. 2015 dopo la sentenza n. 129/24), ha già affermato che (sentenza 11 aprile 2022, n. 11665) in caso di licenziamento disciplinare, al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dal novellato art. 18, quarto e quinto comma, Statuto lavoratori, il giudice può sussumere la condotta addebitata al lavoratore, e in concreto accertata giudizialmente, nella previsione contrattuale che, con clausola generale ed elastica, punisca l’illecito con sanzione conservativa; «né detta operazione di interpretazione e sussunzione trasmoda nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato, restando nei limiti dell'attuazione del principio di proporzionalità, come eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo» (successivamente, ex plurimis, Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 3 gennaio 2024, n. 107; 28 giugno 2022, n. 20780 e 26 aprile 2022, n. 13063)».
Quello di cui si sta discutendo quindi è stato già risolto espressamente e per intero dalla Corte di cassazione - richiamata anche dalla Corte cost. come “diritto vivente” con riferimento all’analoga disciplina da ritenersi oggi presente nell’art. 3.
Perciò, dopo la sentenza n. 129/24 della Corte cost. ci troviamo esattamente al punto in cui ci trovavamo con l’art.18 novellato con la legge n. 92/2012 (con la reintegra che sarebbe disposta quando la fattispecie contestata sia punita con sanzione conservativa espressamente prevista dalla contrattazione); anche a tale proposito era stato detto che la proporzionalità fosse fuori dal fatto inteso in senso materiale e che si potesse applicare la reintegra esclusivamente in presenza di fattispecie lieve tipizzata e non attraverso l’interpretazione del giudice (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 19 luglio 2019, n. 19578; 20 maggio 2019, n. 13533 e 9 maggio 2019, n. 12365)). Ma la Cassazione a partire dalla sentenza n. 11665/2022 ha detto il contrario con una interpretazione che non è stata più superata. Ed il contrario dovrà continuarsi a dirsi anche oggi, se non si vuole apparire incoerenti.
Né può rilevare in contrario che nell’art.3 sia previsto che ai fini della tutela reintegratoria «resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento».
Sul punto la stessa Cassazione (sentenza n. 11665/2022) a proposito dell’interpretazione della fattispecie disciplinare elastica si è pronunciata (in relazione all’art.18) in termini da ritenere risolutivi e definitivi: «L'attività di sussunzione della condotta contestata al lavoratore nella previsione contrattuale espressa attraverso clausole generali o elastiche non trasmoda nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato, ma si arresta alla interpretazione ed applicazione della norma contrattuale, rimanendo nei limiti di attuazione del principio di proporzionalità come già eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo. Non si tratta di una autonoma valutazione di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto, ma di una interpretazione del contratto collettivo e della sua applicazione alla fattispecie concreta. In definitiva, ed in via esemplificativa, ciò che si deve accertare è se una determinata condotta sia o meno riconducibile alla nozione di negligenza lieve indicata nella norma collettiva come sanzionabile con una misura conservativa e non decidere se per la condotta di negligenza lieve sia proporzionata la sanzione conservativa o quella espulsiva».
Si tratta quindi soltanto di ricostruire ed applicare ad una fattispecie concreta una previsione generale ed astratta stabilita dalla contrattazione. Non si configura una autonoma valutazione di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto, ma una interpretazione del contratto collettivo e della sua applicazione alla fattispecie concreta. L'attività di sussunzione della condotta contestata al lavoratore nella previsione contrattuale espressa attraverso clausole generali o elastiche non trasmoda nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato, ma si arresta alla interpretazione ed applicazione della norma contrattuale.
Anche sotto il profilo del rapporto con la volontà delle parti contrattuali, che rappresenta l’elemento fondante della interpretazione di rigetto della Corte cost., quelle spese dalla giurisprudenza della Cassazione sono considerazioni chiare e definitive. E non poteva essere detto di meglio: «quella della classificazione e catalogazione delle condotte è evenienza legata a fattori non prevedibili tanto che il dato oggettivo e razionalizzante che emerge è quello della previsione di clausole di chiusura generali che ovviano all'impossibilità o comunque estrema difficoltà di procedere ad una catalogazione dettagliata ed esaustiva. In tale prospettiva la tipizzazione operata dalla disciplina collettiva non può essere di per sé decisiva e utilizzabile come elemento dirimente per tracciare i contorni ed i limiti delle diverse tutele da applicare qualora si accerti l'illegittimità del recesso. Nel caso in cui nel contratto collettivo siano presenti formule generali, norme elastiche, norme di chiusura, la mancata tipizzazione di alcune condotte tra quelle suscettibili di essere punite con una sanzione conservativa non è di per sé significativa della volontà delle parti sociali di escluderle da quelle meritevoli di una sanzione più lieve rispetto al licenziamento.
18.8. Ove si valorizzasse esclusivamente la tipizzazione delle fattispecie a scapito dell'utilizzo delle clausole generali o elastiche - evidentemente laddove la norma collettiva si articoli attraverso una previsione generale di apertura o di chiusura esemplificandone il contenuto in fattispecie specificatamente individuate - si finirebbe per andare in contrasto con la stessa volontà delle parti sociali che nell' aprire o chiudere la norma collettiva con una disposizione di contenuto generale hanno comunque inteso demandare all'interprete la sussunzione della condotta accertata nella nozione generale indicata dalla disposizione collettiva. Si escluderebbe quella parificazione, demandata al prudente apprezzamento del giudice che vi provvede utilizzando giudizi di valore condivisi, "standards" conformi ai valori dell'ordinamento e che trovino conferma nella realtà sociale».
Pertanto, sul terreno della ordinaria interpretazione della normativa di cui all’art.3, comma 2, del d.lgs. n. 23/2015 occorre propendere per una applicazione coerente della stessa normativa sanzionatoria del licenziamento disciplinare illegittimo estendendo la reintegra dalla fattispecie di tipizzazione della condotta punita con sanzione conservativa alla fattispecie di condotta lieve individuata con previsione di carattere generale.
10. La mancanza di una norma?
Ai fini della operazione interpretativa qui sollecitata non è di ostacolo né la mancanza nell’art. 3 di una previsione espressa circa i limiti del fatto materiale nel rapporto con la contrattazione; né la previsione secondo cui il giudice non debba tenere conto del giudizio di proporzionalità.
Quanto alla prima obiezione (mancanza della norma) va affermato che dopo la sentenza interpretativa di rigetto n. 129/24 la previsione normativa invece c'è perché l'articolo 3, comma 2, sarebbe incostituzionale ove escludesse che nel fatto materiale non sia riconducibile anche l'ipotesi della previsione disciplinare tipica punita espressamente con sanzione conservativa. È quindi possibile, sulla base della regola in concreto vigente, estendere il medesimo trattamento alle ipotesi non tipizzate di fattispecie disciplinari punite con sanzioni conservative in virtù previsioni generali.
D’altra parte è la stessa Corte cost. ad affermare che nell’art.3, comma 2, non c’è alcun riferimento alla contrattazione collettiva e che proprio per questo è praticabile l’interpretazione adeguatrice e non la dichiarazione di incostituzionalità; sicché sarebbe contraddittorio ed incoerente sostenere che invece il riferimento alla contrattazione collettiva esista, in negativo, in relazione alle ipotesi di fattispecie disciplinare non tassative.
Quanto alla seconda questione occorre ribadire che secondo l'interpretazione che costituisce diritto vivente l’interpretazione del contratto collettivo non ridonda sul giudizio di proporzionalità.
Può allora considerarsi di nuovo, anche in relazione all’ipotesi in discorso, che l’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015 non contiene, in realtà, alcun riferimento testuale alle «previsioni dei contratti collettivi» e che occorra dare rilievo alla mancanza di «proporzionalità convenzionale», anche nell’ipotesi in cui la contestazione disciplinare non si fondi su una fattispecie contrattuale tassativa.
11. Nessuna efficacia al di fuori della sedes materiae
Infine in alcun modo, e per gli stessi motivi sopra esposti, essendo la sentenza della Corte costituzionale n. 129/24 limitata alla interpretazione dell'articolo 3, comma 2, d.lgs. n. 23/2015, potrebbe mai sostenersi che essa sia destinata ad incidere sull’interpretazione dell'art. 18 dello statuto dei lavoratori come modificato dalla legge n. 92/2012.
Vale in proposito quanto affermato dalla Corte di cassazione, che la Corte cost. n. 129 del 2024 ha richiamato come diritto vivente: l’interpretazione più restrittiva – che limitava l’accesso alla tutela reale ai casi in cui la valutazione di proporzionalità, fra sanzione conservativa e fatto contestato, fosse tipizzata dalla contrattazione collettiva (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 19 luglio 2019, n. 19578; 20 maggio 2019, n. 13533 e 9 maggio 2019, n. 12365) – è stata oggetto di una successiva rimeditazione, oggi consolidata sino ad assurgere al rango di diritto vivente.
In nessun modo la Corte costituzionale si è occupata della interpretazione della normativa di cui all'articolo 18. D'altra parte non spettava alla Corte costituzionale dare interpretazioni su norme che non erano oggetto del giudizio di costituzionalità.
Va perciò escluso che quanto affermato dalla Corte Cost. n. 129/24 con riferimento alla fattispecie della previsione disciplinare espressa con riferimento al d.lgs. n. 23 del 2015 possa rifluire con riferimento alla interpretazione della disciplina dell’art.18 novellato con la l. 92/2012 e mettere in crisi “il diritto vivente” ricordato nella stessa pronuncia.
12. La proporzionalità unilaterale
Quid iuris invece in ipotesi di «proporzionalità unilaterale»? Una volta sdoganata la proporzionalità ai fini dell’accesso alla reintegra, la stessa soluzione si imporrebbe in via interpretativa quando la previsione di una sanzione conservativa sia stabilita in un codice disciplinare aziendale predisposto in via unilaterale dal datore di lavoro. In questo caso non sarà l’art. 39 della Cost. il parametro che dovrà condurre al risultato, ma l’art. 3 (principio di ragionevolezza) e gli artt. 4 e 35 (tutela della dignità del lavoro), perché non vi è ragione plausibile per differenziare l’ipotesi in cui l’espressa previsione di lievità del fatto discenda da un codice predisposto dallo stesso datore di lavoro da quella in cui sia stabilita dalla contrattazione collettiva.
Sul piano della ragionevolezza, anzi, il primo caso sembra ancora più grave posto che, essendo il codice disciplinare predisposto in via unilaterale dal datore di lavoro, sembra ancora più evidente che egli possa avvedersi della specifica regolamentazione, sicché cadrebbe anche in questo caso - ed in modo ancora più clamoroso – l’asserita ratio della c.d. certezza ovvero il fatto che in base alla normativa il datore dovrebbe sapere con anticipo quale debba essere la sanzione in caso di licenziamento illegittimo
Anche nel primo caso infatti «la predeterminazione della sanzione conservativa consente al datore di lavoro di conoscere in anticipo la gravità di specifiche inadempienze del lavoratore e quindi di adeguare ex ante il provvedimento disciplinare senza correre il rischio di dover subire l’alea di un successivo giudizio di proporzionalità; se la ratio del ridimensionamento della rilevanza del sindacato di proporzionalità, recato dal d.lgs. n. 23 del 2015, è anche quella di garantire maggiore certezza, tale finalità risulta ampiamente soddisfatta” non solo dalla puntuale tipizzazione operata della contrattazione collettiva, ma anche, a maggior ragione, dalla disciplina stabilita in via unilaterale dal medesimo datore di lavoro».
Ed anche in questo caso non potrebbe dirsi «contraddetto il ridimensionamento della tutela reintegratoria in caso di licenziamento disciplinare, che rimane pur lasciando fuori dall’esclusione della valutazione di proporzionalità l’ipotesi dello specifico fatto, disciplinarmente rilevante che la contrattazione collettiva o il codice disciplinare unilaterale prevedano come suscettibile di una sanzione solo conservativa».
13. Conclusione
Grazie alla giurisprudenza costituzionale, ma anche di legittimità, è stato disinnescato il potere conferito dal jobs act al datore di lavoro di privare il lavoratore del posto di lavoro semplicemente accusandolo di un illecito personale grave e gravissimo (di questo si parla), di cui quest’ultimo poteva non essere minimamente responsabile o anche di accusarlo di un illecito lieve punito con sanzione conservativa; e nondimeno pagare per questo soltanto un piccolo costo fisso, già preventivato; nel cui calcolo non doveva avere nessun rilievo l’entità dell’accusa rivolta, gli effetti prodotti, la mancanza di colpevolezza, ma solo l’anzianità di servizio dell’accusato. Un potere che costituiva una potente arma di pressione di massa e che avrebbe potuto esercitare un influsso moderatore su tutti i rapporti di lavoro ed uno scadimento totale del livello di legalità nel nostro Paese (sotto il profilo delle tutele sindacali, o della sicurezza sul lavoro o della tutela della professionalità).
Come insegna la storia della giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 63/1966 della Corte costituzionale), gli effetti di una normativa sui licenziamenti non vanno guardati solamente in relazione alla specifica tutela introdotta nell’ordinamento a proposito dei licenziamenti medesimi (con il jobs act in alcuni casi irrisoria, e persino offensiva); ma in relazione agli effetti perniciosi che essa può generare su tutto il sistema di legalità del lavoro, anche con riferimento alla nuova ed ulteriore potenziale marginalizzazione del giudice del lavoro.
[1] R. Riverso, La nuova disciplina dei licenziamenti disciplinari nel cd. Jobs Act, in Questione Giustizia trimestrale, fascicolo 3/2015, https://www.questionegiustizia.it/rivista/articolo/la-nuova-disciplina-dei-licenziamenti-disciplinari-nel-cd-jobs-act_250.php
[2] La Cassazione ha richiamato a sostegno alcune sentenze della stessa Corte Cost. in cui il Giudice delle leggi affermato il «diritto [garantito dall'art. 4 Cost.] a non essere estromesso dal lavoro ingiustamente o irragionevolmente» (sentenza nr. 60 del 1991, punto 9. del Considerato in diritto) e ha poi ribadito la «garanzia costituzionale [del] diritto di non subire un licenziamento arbitrario» (sentenza nr. 541 del 2000, punto 2. del Considerato in diritto e ordinanza nr. 56 del 2006); in altra pronuncia, la Corte Costituzionale ha richiamato la «legge 9 febbraio 1999, nr. 30, recante "Ratifica ed esecuzione della Carta sociale europea, riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996» per contenere « detta Carta, entrata in vigore il 10 settembre 1999, [...] disposizioni volte a circondare di specifiche garanzie la posizione dei prestatori di lavoro contro i licenziamenti, prevedendo, in particolare (art. 24), l'impegno delle parti contraenti a riconoscere il diritto dei lavoratori a non essere licenziati senza un valido motivo» ( sentenza nr 46 del 2000, punto 3., ultima parte, del Considerando in diritto) ed ha, inoltre, affermato che «la materia dei licenziamenti individuali è oggi regolata, in presenza degli artt. 4 e 35 della Costituzione, in base al principio della necessaria giustificazione del recesso» (sentenza nr. 41 del 2003, punto 2.1. del Considerato in diritto).
[3] «Infine non può tacersi che la diversa soluzione lessicale adottata dal legislatore del 2015 - che ha implementato la formula che limita i casi di reintegrazione con l'aggiunta dell'aggettivo “materiale” in stretta connessione con l'esplicita estraneità di “ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento” - si spiega agevolmente con l'esigenza di dissipare per la nuova disciplina dubbi interpretativi che all'epoca erano ancora ben presenti nel dibattito giurisprudenziale e dottrinale a proposito del comma 4 dell'art. 18 novellato».
[4] Sez. Un., sentenza n. 27986 del 16/12/2013, Il vincolo che deriva, sia per il giudice "a quo" sia per tutti gli altri giudici comuni, da una sentenza interpretativa di rigetto, resa dalla Corte costituzionale, è soltanto negativo, consistente cioè nell'imperativo di non applicare la norma ritenuta non conforme al parametro costituzionale evocato e scrutinato dalla Corte costituzionale, così da non ledere la libertà dei giudici di interpretare ed applicare la legge (ai sensi dell'art. 101, secondo comma, Cost.) e, conseguentemente, neppure la funzione di nomofilachia attribuita alla Corte di cassazione dall'art. 65 dell'ordinamento giudiziario, non essendo preclusa la possibilità di seguire, nel processo "a quo" o in altri processi, "terze interpretazioni" ritenute compatibili con la Costituzione, oppure di sollevare nuovamente, in gradi diversi dello stesso processo "a quo" o in un diverso processo, la questione di legittimità costituzionale della medesima disposizione, sulla base della interpretazione rifiutata dalla Corte costituzionale, eventualmente evocando anche parametri costituzionali diversi da quello precedentemente indicato e scrutinato (idem Cass. Sez Lav. 14362/2020; 20442/2020 Sez. Unite).
[5] L’art. 30, comma 3, della legge 4 novembre 2010, n. 183 prevede che «Nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi ovvero nei contratti individuali di lavoro ove stipulati con l'assistenza e la consulenza delle commissioni di certificazione di cui al titolo VIII del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni. Nel definire le conseguenze da riconnettere al licenziamento ai sensi dell'articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni, il giudice tiene egualmente conto di elementi e di parametri fissati dai predetti contratti e comunque considera le dimensioni e le condizioni dell'attività esercitata dal datore di lavoro, la situazione del mercato del lavoro locale, l'anzianità e le condizioni del lavoratore, nonché il comportamento delle parti anche prima del licenziamento».
[6] Il primo comma dell’art.30, comma 3 l.183/2010 stabilisce che «In tutti i casi nei quali le disposizioni di legge nelle materie di cui all'articolo 409 del codice di procedura civile e all'articolo 63, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, contengano clausole generali, ivi comprese le norme in tema di instaurazione di un rapporto di lavoro, esercizio dei poteri datoriali, trasferimento di azienda e recesso, il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai principi generali dell'ordinamento, all'accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al committente».
[7] Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 19 luglio 2019, n. 19578; 20 maggio 2019, n. 13533 e 9 maggio 2019, n. 12365.