Il presente contributo ha l’obiettivo di discutere il quesito posto dalle organizzatrici della sessione, ovvero se l’esperienza osservata nei casi che arrivano nelle aule dei Tribunali (catene di appalti legate a retribuzioni costituzionalmente non sufficienti e a frequenti deficit di sicurezza) fosse solo aneddotica o se invece trovasse conferma in un razionale scientifico, in una regolarità rilevata dalle scienze sociali che studiano le trasformazioni delle imprese. Quello che la letteratura sociologica sul tema ha mostrato nel corso degli ultimi due decenni (dal mio punto di vista in maniera ormai non equivoca) è che la relazione fra appalti e salari (bassi) non è una relazione contingente, ma un elemento strutturale. Questo, in primis, per una regolarità empirica. Nei settori caratterizzati da una forte incidenza degli appalti, la quota di lavoratori a basso salario è, infatti, molto più elevata che in altri settori. Questo è stato reso evidente, ad esempio, nella relazione del Gruppo di lavoro sugli interventi e le misure di contrasto alla povertà lavorativa in Italia quando ha esaminato la distribuzione settoriale dell’incidenza del rischio di bassi salari (Garnero et al. 2021). Dopo il settore turismo e ristorazione (dove oltre il 60% dei lavoratori è a rischio di bassi salari – ossia di percepire una retribuzione annuale inferiore ai 2/3 della mediana della distribuzione salariale nazionale, ossia meno di 12.000 euro lordi annui), il raggruppamento settoriale che mostra una maggiore incidenza di tale rischio è, infatti, quello degli “altri servizi”, che raggruppa segmenti di attività economica (quali le attività di pulizia, di guardiania, di call centre) caratterizzati da una forte incidenza della forma appalto come forma di articolazione dell’attività economica. In questo “settore” oltre il 40% dei lavoratori è a rischio di basso salario (ossia, ricordiamolo, di guadagnare meno di 1000 euro lordi al mese).
Inoltre, moltissime ricerche quantitative hanno mostrato come esiste una “penalità” salariale per i lavoratori che operano negli appalti. Se confrontati con lavoratori che svolgono le stesse mansioni “direttamente”, ossia impiegati alle dirette dipendenze dalle imprese che utilizzano i loro servizi, i lavoratori impiegati da imprese appaltatrici guadagnano meno. In uno studio che ha esaminato i salari dei lavoratori delle pulizie e della guardiania negli Stati Uniti, Dube e Kaplan hanno mostrato come “penalità” salariale sofferta da questi lavoratori quando operano in outsourcing vari fra il 4 e il 24% (Dube e Kaplan 2010). In maniera simile, uno studio su dati tedeschi ha mostrato come, controllando per tutte le differenze non connesse alla natura dell’impresa (es. regime orario, inquadramento e mansione svolta, tipologia contrattuale), i salari dei lavoratori esternalizzati nei settori pulizia, sicurezza e logistica diminuiscono di circa il 10-15% rispetto a quelli di lavoratori impiegati direttamente (Goldschmidt e Schmieder 2017). Il gap identificato rappresenta, quindi, l’effetto netto dell’outsourcing, ossia quello legato esclusivamente a questo specifico processo e non ad altri elementi, che però, come sappiamo, sono diversamente distribuiti fra appaltatori e appaltanti.
È importante però evidenziare come queste regolarità empiriche dipendano in realtà da un elemento strutturale, che potremmo definire di natura teorica. Nonostante la letteratura mainstream abbia per lungo tempo spiegato le scelte di frammentazione dei processi produttivi come risultanti da ragioni di specializzazione, e quindi di efficienza economica, infatti, la letteratura sociologica ha ampiamente mostrato come i differenziali regolativi (e quindi anche le differenze nelle retribuzioni) sono la ragione principale dei fenomeni di frammentazione produttiva (Flecker 2009, Dorigatti e Mori 2016). La definizione dei confini organizzativi delle imprese è stata, infatti, crescentemente interpretata come un processo di arbitraggio regolativo (o di aggiramento istituzionale), cioè di utilizzo e di sfruttamento dei differenziali di regolazione che esistono fra diversi settori e diverse imprese. Detto altrimenti, la possibilità di accedere a condizioni di lavoro meno regolate è esattamente l’elemento trainante di queste architetture organizzative. Questo sotto tre profili: costi, flessibilità e rischi. L’esempio più evidente è, ovviamente, quello dei differenziali regolativi fra diversi contratti collettivi nazionali: proprio attraverso l’utilizzo dei confini organizzativi, infatti, le imprese possono accedere a forza lavoro regolata diversamente e anche mettere in competizione un contratto collettivo con un altro in innovative forme di dumping salariale. Non a caso, diversi studiosi hanno evidenziato come, proprio negli appalti, si mostri in tutta la sua portata il problema del dumping orizzontale, probabilmente uno dei problemi principali del sistema contrattuale italiano (Razzolini 2021).
Ma elementi di differenziazione (e quindi altri potenziali ambiti di sfruttamento di questi differenziali) riguardano altri elementi della regolazione. Gli appalti consentono, infatti, l’estrema variabilizzazione dei costi per l’impresa e il trasferimento del rischio d’impresa sui lavoratori. L’outsourcing costituisce un grande strumento di esternalizzazione dei rischi, che consente alle imprese clienti di ridurre in maniera significativa i costi fissi e di adattarli in maniera molto più rispondente rispetto all’impiego diretto alle fluttuazioni del mercato e alle conseguenti variazioni nella domanda di lavoro. Ad esempio, poter ricorrere a personale impiegato da imprese esterne consente agli alberghi di ridurre il costo fisso di pulizia delle camere e di pagare i lavoratori solo quando i loro servizi sono effettivamente richiesti. In questo senso, si supera il principio, sancito nella Dichiarazione di Filadelfia (la carta costituzionale dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro) secondo cui «il lavoro non è una merce» (art. 1). L’outsourcing costituisce, infatti, un potentissimo strumento di ri-mercificazione del lavoro. Ovviamente, questo trasferimento del rischio si traduce in un’internalizzazione dei rischi da parte dei lavoratori, ad esempio tramite una diffusione molto più alta del normale di forme di impiego part-time, che consentono maggiore flessibilità nella gestione degli orari.
I differenziali regolativi, inoltre, sono spesso legati a forme di informalità e illegalità, anche queste estremamente diffuse nelle catene degli appalti. Le esternalizzazioni favoriscono, infatti, l’apertura di spazi grigi, in cui la violazione delle norme, contrattuali e legali, è più difficile da reprimere. Un esempio su tutti e quello del furto salariale, ossia la pratica per cui le imprese che operano in appalto, che com’è noto tendono ad avere un ciclo di vita piuttosto breve, caratterizzato da frequenti aperture e fallimenti, non pagano ai loro lavoratori le ultime spettanze. Spesso, queste pratiche illecite di compressione dei costi sono implicite nelle relazioni contrattuali con i committenti, che non di rado pagano tariffe inferiori a quelle che consentirebbero alle imprese appaltatrici di pagare correttamente i propri lavoratori.
Salari (più) bassi salari non sono, quindi, elementi accessori, conseguenze contingenti, di questi processi, ma una delle ragioni che spiegano l’esistenza stessa di queste articolazioni produttive. Mettere al centro dell’analisi il tema dei differenziali regolativi come elemento di spiegazione delle articolazioni organizzative delle imprese ci consente di comprendere perché un intervento di riduzione di tali differenziali, come quello della parità di trattamento possa avere effetti benefici non solamente dal punto di vista degli effetti “sociali”, di equità, ma anche di quelli “economici”, di efficienza.
Sul primo aspetto, quello dell’equità, è presto detto: la parità di trattamento può contribuire a ridurre le conseguenze negative degli appalti sulle condizioni di lavoro e, in particolare, sulla retribuzione. In primo luogo, la parità di trattamento metterebbe un argine ai bassi salari, riducendo la possibilità di utilizzare contratti collettivi con trattamenti salariali molto bassi (e che, come sappiamo, sono bassi anche a causa della debolezza dei lavoratori che compongono il settore e, di conseguenza, delle loro rappresentanze). La parità di trattamento consentirebbe, inoltre, di riaffermerebbe il principio “stesso lavoro, stesso salario”, andando ad agire sulle disuguaglianze e sulla segmentazione del mercato del lavoro: come abbiamo visto, uno degli elementi estremamente problematici di questi processi è che lavoratori che lavorano gomito a gomito facendo le stesse attività abbiano trattamenti economici e normativi differenti.
Ma un intervento sulla parità di trattamento ha potenzialmente un effetto ancora più strutturale, che agisce sulla dimensione pre-distributiva delle strategie organizzative delle imprese e dei loro modelli di competizione. Potrebbe avere, quindi, anche un obiettivo di efficienza. Se, infatti, gli appalti sono, come abbiamo visto nella breve rassegna della letteratura proposta in questo contributo, un meccanismo attraverso cui le imprese sfruttano i differenziali regolativi, ridurre tali differenziali regolativi riduce anche gli incentivi alle esternalizzazioni, in particolare di quelle che hanno il solo scopo di abbassare i costi e aggirare le responsabilità. Una regola come quella della parità di trattamento potrebbe, quindi, avere l’obiettivo di influenzare le scelte organizzative delle imprese, riducendo i fenomeni di abuso. Era, del resto, anche l’obiettivo della legge che aveva istituito il principio di parità di trattamento, la (mai abbastanza) compianta l. 1369/1970.
Ma se questo è vero, allora la regolazione può costituire una spinta verso un tessuto produttivo più avanzato nelle sue strategie di competizione, che non guardi più solo ai costi, ma alla qualità e all’innovazione. Come evidenziato da molta letteratura sociologica (Streeck 1994), infatti, la regolazione può costituire un vincolo benefico che sposta le traiettorie di sviluppo verso direzioni più avanzate. In linea con questo approccio, diversi studiosi hanno, ad esempio, sostenuto che la specializzazione produttiva italiana (basata su attività a scarso valore aggiunto, in cui la competizione si basa principalmente sul costo) sia strettamente legata a un’eccessiva liberalizzazione della regolazione del lavoro, fra cui anche quella che vincola la frammentazione dei processi produttivi (Burroni et al. 2022). La possibilità di ricorrere a lavoro a basso costo tramite gli appalti (come, più in generale, la possibilità di ricorrere a lavoro a basso costo grazie ai processi di de-regolazione del mercato del lavoro) è, infatti, una delle ragioni addotte per spiegare la scarsa produttività e la scarsa propensione all’innovazione delle imprese italiane. Ridurre eccessivamente i vincoli regolativi può, di conseguenza, avere effetti negativi sulla produttività e l’innovatività delle imprese, perché favorisce il perseguimento di una via bassa alla competizione e non incentiva invece il perseguimento di investimenti. Di converso, quindi, il ripristino di un assetto normativo protettivo e inclusivo, che riduca i differenziali regolativi fra settori e fra imprese e che renda quindi meno conveniente perseguire queste trasformazioni organizzative, non è soltanto benefico per i lavoratori, ma costituisce probabilmente anche un forte stimolo per processi di innovazione e di upgrading.
Riferimenti
Burroni, L., Pavolini, E., & Regini, M. (2022). Mediterranean Capitalism Revisited. One model, different trajectories. Ithaca (NY): Cornell University Press.
Dorigatti, L., & Mori, A. (2016). L'impatto delle scelte datoriali sulle condizioni di lavoro e sulle diseguaglianze: disintegrazione verticale, esternalizzazioni e appalti. Sociologia del lavoro, 144(4): 190-204.
Dube, A., & Kaplan, E. (2010). Does outsourcing reduce wages in the low-wage service occupations? Evidence from janitors and guards. ILR Review, 63(2), 287-306.
Flecker, J. (2009). Outsourcing, spatial relocation and the fragmentation of employment. Competition & Change, 13(3), 251-266.
Garnero, A., Ciucciovino, S., Magnani, M., Naticchioni, P., Raitano, M., Scherer, S., & Struffolino, E. (2021). Relazione del gruppo di lavoro sugli interventi e le misure di contrasto alla povertà lavorativa in Italia. https://air.unimi.it/bitstream/2434/931222/2/_final_Relazione-del-Gruppo-di-lavoro-sugli-Interventi-e-misure-di-contrasto-alla-poverta-lavorativa-in-Italia.pdf
Goldschmidt, D., & Schmieder, J. F. (2017). The rise of domestic outsourcing and the evolution of the German wage structure. The Quarterly Journal of Economics, 132(3), 1165-1217.
Streeck, W. (1994). Vincoli benefici: sui limiti economici dell’attore razionale. Stato e mercato, 41.
Intervento al IV convegno annuale della Labour Law Community, tenutosi a Bari il 15 e 16 novembre 2024