- Tribunale di Padova, sent. 550/2019
- Tribunale di Padova, sent. 126/2023
- Tribunale di Modena, sent. 5 novembre 2020
- Tribunale di Modena, sent. 28 aprile 2022
- Tribunale di Modena, sent. 180/2024
1. Sono due le domande a cui ci si propone di rispondere in questo panel: a) si può affermare una rilevanza dell’impiego parassitario dell’appalto nella diffusione di condizioni retributive incompatibili con il precetto dell’art. 36 della Costituzione? b) vi sono spazi interpretativi per l’affermazione di un principio di parità di trattamento negli appalti, alla luce dei principi, non solo di sufficienza, ma anche di proporzionalità della retribuzione?
Rispondere alla prima domanda mantenendosi su di un accettabile livello di rigore scientifico, impone di andare oltre le mere suggestioni mediatiche. Ché, se bastassero quelle, la risposta sarebbe già data, atteso l’incalzare quotidiano di notizie che raccontano, ad esempio, di sfruttamento illecito e caporalato nei territori economicamente più floridi del paese, con un succedersi di sequestri penali ed amministrazioni giudiziarie di imprese di grandi o grandissime dimensioni in contesti di appalti e subappalti quasi sempre attinenti al core business dell’impresa. O se ci si arrestasse all’impressionante progressione geometrica di morti sul lavoro, di cui sono dolorosa epitome i 17 operai morti in quattro soli eventi infortunistici (vere e proprie stragi, dunque) nell’arco di appena nove mesi[1]. Sempre dipendenti di imprese appaltatrici o subappaltatrici impegnate in lavori endoaziendali, conferiti da imprese di primo o primissimo rango in ambito nazionale[2].
Persino l’imponente opera di ricostruzione sistematica dello stato dell’arte in tema di salario costituzionale, operata con le sei sentenze di ottobre della Cassazione, anch’esse originate da vicende lavorative collocate in contesti di appalto fra imprese può, al più, fornire una mappa, che starà poi a noi interpretare e seguire.
Partendo, magari, dalla concorrenza salariale al ribasso, volta a favorire «soggetti imprenditoriali sfuggenti ed effimeri» in grado di affermarsi sul mercato solo grazie al dumping negoziale (non casualmente sinonimo di dumping salariale), rilevata persino da quella parte del pensiero giuslavorista che più si è spesa, negli ultimi 30 anni, perché l’utilità macro-economica e sociale delle disaggregazioni ed esternalizzazioni di processi produttivi fosse recepita dal legislatore e dalla giurisprudenza.
E seguendo, poi, la pista che s’inoltra nella giungla contrattuale. Dove troviamo contratti emblematicamente definiti «pirata», per il deficit rappresentativo dei sindacati dei lavoratori stipulanti; contratti che potremmo dire «multitasking», perché contemporaneamente applicati a multiformi platee di clienti del relativo shopping; contratti riferibili ad un medesimo settore in numeri mai raggiunti prima. Una proliferazione[3] cui si collega causalmente quella delle organizzazioni sindacali e che rende il senso di quanto fosse necessaria, a fronte di questo proliferare di «massime autorità salariali», la precisazione sulla natura relativa della presunzione di adeguatezza della retribuzione conforme al contratto collettivo.
Fin qui siamo, in senso tecnico, nell’ambito del notorio, ma è da qui che si può partire per una prima analisi della giurisprudenza di merito, purché avvertiti che le risposte alle domande del panel non risulteranno appaganti, data la ristrettezza dei tempi di preparazione di quest’intervento e la poca dimestichezza del giurista con i metodi dell’indagine sociale. Non di meno, i connotati di omogeneità, univocità e precisione emergenti dalle sentenze che abbiamo esaminato sono tali da poterle, quanto meno, considerare una prima validazione fattuale alla fondatezza dei principi affermati dalla Cassazione ed un’utile indicazione per futuri approfondimenti.
2. Iniziando proprio dai giudizi esitati in quelle sei pronunce[4], nei quali convenute erano cooperative eroganti servizi di vigilanza e custodia in regime d’appalto e ricorrenti lavoratori inquadrati come «operatori del CCNL dei dipendenti delle imprese di vigilanza privata e servizi fiduciari» e svolgenti mansioni di addetti alla reception o di vigilanza non armata o di portierato, che lamentavano la violazione degli obblighi costituzionali di sufficienza e proporzionalità. Allegando, a raffronto, i diversi CCNL di «Proprietari di Fabbricati» o, in subordine, «Multiservizi» o, ancora, «Terziario». Particolare emblematico (e frequentissimo da riscontrare nella pratica): alcuni dei ricorrenti provavano di avere lavorato per diverse aziende, subentrate in appalti della stessa committente con cambio dei contratti, di volta in volta, applicati, cui corrispondeva una sensibile decurtazione retributiva pur nell’identità di mansioni. Fenomeno per il quale già si è coniata l’espressione «transumanza dei dipendenti»[5].
Improponibile un esame dettagliato delle sei diverse pronunce di merito ed un raffronto a specchio con le corrispondenti della Cassazione, alcune utili considerazioni sono possibili sulla vicenda esitata nella prima e probabilmente più significativa di esse: la n. 27711/2023.
Il lavoratore originariamente percepiva una retribuzione mensile lorda di € 1.250,80 per 13 mensilità in base al contratto «Agenzie di Sicurezza Sussidiaria ed Istituti Investigativi e di Sicurezza»; al primo subentro d’appalto, pur passato al contratto dei «Dipendenti di Istituti di Vigilanza Privata e Servizi Fiduciari», la conservava grazie al riconoscimento di un superminimo ad personam; al secondo subentro, immutato il contratto, era però inquadrato nella famigerata «Sezione Servizi Fiduciari» e la retribuzione crollava ad € 945 lordi (-24,45%).
3. Nella “parte destruens” del percorso motivazionale, il giudice di merito rileva che il tasso di povertà assoluta, elaborato dall’Istat, per un adulto single di una grande area metropolitana, quell’anno era di € 839,75 mensili e che il ricorrente, con moglie e due figli a carico, ne percepiva appena € 687,38 netti.
Esclude anch’esso dal raffronto il compenso previsto per lo straordinario, in ciò anticipando la Cassazione allorché ricorderà il vero significato della spesso equivocata Corte Cost 470/2002, rimarcando l’incongruità della considerazione di un «emolumento eventuale», tanto più ove ne occorrano molte ore al mese per raggiungere la soglia minima costituzionale.
Significativo, ai fini che interessano, è il tentativo del Tribunale di cogliere le ragioni dell’esiguità delle retribuzioni previste in quella Sezione contrattuale partendo da verbali di informative sindacali in atti e rilevando che «dalle (…) affermazioni dei (…) partecipanti alle trattative -sindacati confederali, com’è noto- residua il dubbio se i trattamenti retributivi (…) siano stati determinati al ribasso (…) in relazione alle minori responsabilità ed alla limitata professionalità, ovvero siano stati adeguati alle esigenze economiche delle imprese in considerazione dell’andamento della domanda e dell’offerta».
Particolare determinante: a fronte della deduzione della convenuta di applicare il contratto stipulato dalle OO.SS. maggiormente rappresentative, il Tribunale sposta l’attenzione sulle mansioni svolte dal ricorrente e rimaste invariate ad ogni subentro di nuova appaltatrice: «vigilanza antitaccheggio, controllo in barriera casse e portierato presso l’Ipermercato».
Dopo di che, passa alla “parte construens” dell’indagine, comparando la retribuzione erogata con quella prevista, nei diversi contratti richiamati, per le «analoghe mansioni» di «portieri e custodi»; «personale addetto a mansioni di vigilanza e controllo accessi in stabili a prevalente utilizzo commerciale» e «guardiani, portieri e custodi». Il lavoratore, come poi ricorderà la Cassazione, avendo già adempiuto ai propri oneri di allegazione e prova con l’indicazione della retribuzione percepita e dei contratti di raffronto. Dal successivo, obbligato, vaglio di proporzionalità emergendo che, nei tre contratti di raffronto, la retribuzione base andava da € 1.183,50 ad € 1.407,94, sempre per 14 mensilità. Rispetto ai 945 euro per 13 sole mensilità corrisposti in base al contratto applicato al ricorrente.
4. Il giudice di merito procede poi ad accertamenti in fatto senza enucleare il vero tema in diritto ovvero non si chiede se, in presenza di norme di legge che impongono il riconoscimento dei «trattamenti minimi» dei contratti «del settore o della categoria affini» e per di più a fronte di un contratto stipulato dalle organizzazioni «comparativamente più rappresentative», gli fosse consentito cercare la retribuzione proporzionale in altri contratti. Lo farà la Cassazione, come sappiamo, affermando che, nel settore delle cooperative, la basica operazione di disapplicazione della clausola nulla per contrasto a norma imperativa, pur scandita dagli artt.3, L.142/2001 e 7, DL 248/2007, non esime il giudice da una lettura costituzionalmente orientata di quelle (e delle analoghe) norme. Un passaggio centrale dell’ampia motivazione, che ha fatto gridare alcuni allo scandalo forse perché non ben compreso.
Secondo la Corte, ritenere che il riferimento, contenuto in queste norme (e in quelle analoghe del terzo settore, del trasporto aereo e degli appalti pubblici), al trattamento economico del contratto leader «si sottragga al sindacato del giudice e si imponga sempre e comunque, anche senza il vaglio di conformità all’art. 36 Cost (…) esporrebbe tale tesi e le stesse leggi sopra indicate ad una duplice censura di incostituzionalità: sia sotto il profilo della violazione dell’art. 36 Cost., sia sotto il profilo dell’art. 39». Per poi affermare lo specifico principio di diritto secondo cui il giudice, coerentemente alla stessa lettera dell’art.3, L.142, potrà fare riferimento «anche a contratti di (…) categorie affini relativamente alle analoghe mansioni in concreto svolte».
5. Alle sei sentenze di merito che hanno portato alle pronunce di ottobre, ne abbiamo poi affiancate altre nove, divise in due gruppi. Nelle prime quattro si contesta la sufficienza e proporzionalità della retribuzione e le committenti sono convenute in qualità di responsabili solidali. Le altre cinque sentenze oggetto di analisi accertano, invece, l’interposizione fittizia di mano d’opera. Diversi petitum e causa petendi dei due gruppi di sentenze, le sottostanti vicende fattuali, come vedremo, seguono tutte un identico copione.
In quelle del primo gruppo, dei tribunali di Genova[6], Bologna[7], Modena[8] e Milano[9], i ricorrenti sono ancora lavoratori immigrati (per lo più extracomunitari) alle dipendenze di cooperative aggiudicatrici di appalti ad alta intensità di mano d’opera, endoaziendali ed inerenti al core-business di committenti di grandi o grandissime dimensioni che vanno dalle multinazionali della logistica ad imprese leader nella produzione di prosciutti o nella vendita e montaggio di mobili a domicilio. Tre delle appaltatrici applicavano il famigerato CCNL Multiservizi, notoriamente connotato dalla netta prevalenza dei servizi di pulizia, già nella denominazione («imprese esercenti servizi di pulizia e servizi integrati/multiservizi»), stipulato da un solo sindacato autonomo dei lavoratori e per questo spesso disapplicato tanto in accertamenti contributivi dell’INPS, che in giudizi del lavoro ai sensi art.7, DL 248/2007.
In due giudizi i lavoratori, inquadrati come conducenti di furgone, svolgevano mansioni collocate nel cuore dell’attività imprenditoriale della committente, non limitandosi al mero trasporto dei mobili prodotti presso il domicilio dei clienti, ma provvedendo anche al loro montaggio, ad eventuali modifiche, adattamenti e collocazione oltre che ad incassare i pagamenti. Altri, inquadrati come semplici facchini nel CCNL Logistica, svolgevano le mansioni di segatura, salatura, sugnatura e stagionatura dei prosciutti, proprie di operai alimentaristi ed invocavano la corrispondente qualifica del più vantaggioso CCNL Alimentari.
Una di esse pronuncia in continuità con un precedente che aveva ritenuto l’obbligo del rispetto della parità contributiva ex L.338/8, le altre, nella ricerca della retribuzione costituzionale seguono percorsi che, se pur più brevi, risultano pienamente sovrapponibili a quello tracciato dalla Cassazione: l’invocazione della retribuzione prevista in un diverso contratto ha in sé, implicita, quella della retribuzione costituzionale; non vi è violazione dell’art.39, il diverso contratto valendo quale mero parametro di riferimento nella ricerca della retribuzione costituzionale; la clausola contrattuale nulla è disapplicata ai sensi degli artt.2099 e 1419 c.c.; la ricerca del contratto di settore o categoria affine è condotto alla luce della reale attività della coop appaltatrice quale desumibile da Statuto, regolamento e codice ATECO e soprattutto dall’oggetto dell’appalto in cui è impegnata, quasi sempre in regime di mono committenza.
Le sottostanti vicende fattuali seguono tutte un identico copione: appaltatrici che si succedono con impercettibili cambi di denominazione (la coop TLS succede alla coop TSL; la coop NMC subentra alla MC, ecc.), applicando diversi contratti che prevedono retribuzioni sempre più basse; anche qui, appalti labour intensive ed inerenti il core business della committente; mansioni non incasellabili nel profilo professionale attribuito né in nessun altro di quelli previsti dal contratto applicato; però sovrapponibili a quelle dei dipendenti della committente e collocabili nelle declaratorie del contratto da questa applicato.
Persino l’iter processuale segue identiche scansioni: convenute in giudizio committente ed appaltatrice, la seconda ne esce per interruzione dovuta alla sopravvenuta cancellazione e la condanna è pronunciata nei confronti della sola obbligata in solido.
6. Le altre cinque sentenze analizzate, dei Tribunali di Modena[10] e Padova[11], accertano invece che l’appalto dissimulava un’interposizione fittizia di mano d’opera. Certamente rilevanti ai fini della risposta alla prima domanda, risultano esserlo, a ben vedere, anche rispetto alla seconda.
Anche qui: si tratta quasi sempre di lavoratori migranti; le simulate appaltanti operano nei settori economici trainanti della logistica, lavorazione carni e metalmeccanica; gli appalti attengono al core business delle committenti, tutte imprese di considerevole statura economica. Partendo, nella valutazione della genuinità dell’appalto, dalla collocazione in capo alle parti datoriali convenute (appaltante ed appaltatore) dell’onere probatorio relativo agli indici rivelatori di cui all’art.29 (organizzazione dei mezzi necessari e del rischio di impresa), si è accertato che i beni strumentali utilizzati erano di proprietà e forniti dalla committente ed utilizzati nel proprio ciclo produttivo: dal montaggio ed assemblaggio di pezzi meccanici, alla produzione di bulloni e pistoni; dalla preparazione dei “quartini” di manzo destinati a diventare prosciutti alle fondamentali mansioni di picker nei magazzini della logistica. Si è accertata l’inesistenza del rischio di impresa in capo alle appaltatrici, il prezzo dell’appalto coincidendo con quello delle ore lavorate (per di più sotto retribuite rispetto alle medie di settore) e soprattutto la piena fungibilità fra i dipendenti delle appaltatrici e quelli delle committenti operanti tutti in un identico contesto spaziale ed organizzativo.
Tranne che in una, in cui si è posto un problema di diritto intertemporale rispetto all’art.27, d.lgs.276/2003, in tutte le altre l’inquadramento nelle qualifiche previste dal CCNL applicato dalla committente e il riconoscimento delle corrispondenti retribuzioni è l’ovvia conseguenza della natura simulata dell’appalto. Solo in una affermandosi anche che quel diverso contratto costituiva il parametro della retribuzione costituzionale.
Rappresentano, dunque, un ulteriore tassello della risposta positiva che si va delineando alla domanda sul nesso causale fra appalti e lavoro povero, ma forse è ancora più interessante la conferma che forniscono circa l’esistenza di un intimo nesso che lega insieme core-business delle committenti, oggetto dell’appalto nonché natura e contenuto delle mansioni dei lavoratori.
7. Nei due gruppi di sentenze l’esame delle mansioni svolte, pur essendo condotto dai diversi punti di vista della ricerca della giusta retribuzione e della verifica della genuinità dell’appalto, ha in comune l’accertamento della loro piena sovrapponibilità a quelle dei dipendenti della committente. Solo in quelle del primo procedendosi poi anche ad un doppio giudizio trifasico, sulla base prima del CCNL applicato e poi di quello invocato.
E’ illuminante il catalogo di tali mansioni e, nel primo gruppo, il raffronto con le formali qualifiche rivestite dai ricorrenti: meri «conducenti di furgone» addetti al montaggio, modifiche, adattamenti e collocazione, oltre che al trasporto, dei mobili prodotti dalla committente; «facchini» impegnati in attività di segatura, salatura, sugnatura e stagionatura dei prosciutti; addetti al montaggio e assemblaggio di pezzi meccanici ed alla produzione di bulloni e pistoni sempre prodotti dalla committente e, forse più esplicative di tutte, le mansioni di picker svolte dai dipendenti dell’appaltatrice nei magazzini della committente.
Un’attività, Il picking, nel trainante settore della logistica considerata «fondamentale per il magazzino» e normalmente descritta come: «raggruppare pacchi, componenti, prodotti o materiali che, una volta riuniti, verranno elaborati e spediti». Nelle due sentenze del Tribunale di Padova esaminate, era svolta nella sofisticata modalità di voice picking: ai dipendenti delle appaltatrici vengono indicati i colli di merce da caricare sui transpallett, lo stallo dove devono essere ritirati e il posto dove portarli per essere spediti attraverso lettori ottici, auricolari e cuffie forniti dalla committente e muniti di un software di riconoscimento vocale che ne guida i movimenti di spostamento, prelievo, caricamento e conferma dell’operazione eseguita. Un sistema, rileva il Tribunale, «altamente informatizzato», privo di «mediazione umana» e che, «eliminando mentalmente i responsabili della cooperativa», continuerebbe a «svolgersi con le medesime modalità».
8. Le numerose e significative costanti che emergono dalle sentenze esaminate conducono a una duplice domanda non più eludibile: quando l’appalto non attenga a frazioni marginali del processo produttivo o non sia giustificato dall’elevato know-how dell’appaltatrice, quale categoria è più affine di quella in cui opera l’appaltante? E che senso ha cercare sul mercato contratti che disciplinino analoghe mansioni, quando le mansioni sono del tutto identiche a quelle svolte dai dipendenti di questa?
E che sia questa la pista giusta si evince anche da atti d’insospettabile provenienza.
Quale il rapporto «Appalti e Conflitto Collettivo. Tendenze e Prospettive», redatto dalla Commissione di garanzia sullo sciopero nei servizi essenziali. Nel quale è testualmente affermato essere «…da tempo dimostrato che il contratto commerciale (in particolare l’appalto, il subappalto, la subfornitura) è uno strumento a mezzo del quale un’impresa può nei fatti esercitare un’influenza decisiva sull’altra e, in particolare, sulle condizioni di lavoro e sui livelli salariali dei dipendenti di quest’ultima. Studi economici e sociologici anche recenti hanno bene evidenziato come sono spesso i soggetti terzi, committenti a vario titolo di rapporti commerciali con le imprese che assumono le vesti di datore di lavoro, a determinare le condizioni lavorative dei dipendenti di queste ultime e che considerare questi rapporti è fondamentale al fine di aumentare i livelli salariali, stagnanti, e ridurre le diseguaglianze».
O quello intitolato «Elementi di riflessione sul salario minimo in Italia» redatto dal CNEL il 12.10.2023, in cui via della mera correzione delle disfunzioni della contrattazione collettiva, indicata come preferibile a quella del salario minimo legale, è corredata dall’esplicito invito a «valutare, per contrastare il fenomeno del dumping contrattuale nel sistema degli appalti di servizi e delle catene di franchising … anche il ripristino della regola di parità di trattamento retributivo». Quella regola abbandonata 20 anni or sono e di recente definita «una delle discipline di tutela con lo sguardo più lungo che l’ordinamento italiano abbia mai avuto»[12].
E’, infine, una fonte davvero insospettabile a confermarci di essere su di una buona pista ovvero l’attuale governo, che, nel presentare alle Camere la legge di conversione del D.L. 19/2024 contenente la modifica dell’art.29 del d.lgs.276/2003, ne sostiene la necessità allo scopo di «fronteggiare la prassi di esternalizzare talune attività al solo scopo di abbattere il costo del lavoro a danno dei lavoratori».
9. Crediamo, dunque, si possa affermare con sufficiente sicurezza che già esistano prove, tutt’altro che labili, di un nesso causale fra catene degli appalti e lavoro povero, prove probabilmente non risolutive e che certamente meritano approfondimenti ulteriori, ma che non è più possibile negare in modo sbrigativo ed aprioristico.
Rivelandosi oramai appieno la fragilità dell’ostinazione con cui i sostenitori di un assetto dei rapporti di lavoro già franato si attestano oggi sulla linea del Piave dei «contratti innaturali», a fronte del dilagare di «contratti naturali» disponibili sul mercato con retribuzioni prossime alla soglia di povertà, quando non inferiori.
Crediamo, insomma, che la retribuzione proporzionale alle mansioni svolte dai tanti pickers, alimentaristi, autisti di furgone e metalmeccanici, che lavorano negli stessi luoghi, con gli stessi beni strumentali e fianco a fianco dei dipendenti delle committenti sia proprio quella che questi ultimi percepiscono. Anche perché prevista dal contratto che, per antonomasia, è quello «applicato nel settore e per la zona strettamente connessi con l'attività oggetto dell'appalto e del subappalto», come testualmente richiede il nuovo comma 1 bis dell’art.29 del d.lgs.276/2003.
Ne sortirebbe un raro esempio di equivalenza di senso fra interpretazione letterale e sistematica (persino secondo l’intenzione del legislatore storico) e la massima garanzia di certezza per i rapporti contrattuali.
[1] 5 morti a Brandizzo il 30 agosto 2023, 5 morti a Firenze il 17 febbraio 2024, 7 morti a Suviana (BO) il 9 aprile 2024, 5 morti a Casteldaccia (PA) il 6 maggio 2024.
[2] Fatta eccezione per la strage di Casteldaccia, verificatasi nell’ambito di un appalto pubblico, peraltro conferito da una delle più grandi città metropolitane del meridione, negli altri tre casi committenti erano società di primissimo rango nei rispettivi settori: Rete Ferroviaria Italiana; Enel Green Power; Esselunga.
[3] Ben 946 contratti collettivi nel solo settore privato, ricorda la prima delle sei sentenze di ottobre 2023 (27711/2023).
[4] Sentenze del Tribunale di Torino nn.1128/2019, 1126/2021, 43/2022, 1294/2022 e del Tribunale di Milano - RG nn.0610/2022 e 10213/2022.
[5] Filippo Marchetti, Amministrazione giudiziaria delle aziende ex art. 34 D. Lgs. 6 settembre 2011, n. 159 e contrasto allo sfruttamento lavorativo: i casi B. e G., in Lavoro Diritti Europa 3/2023.
[6] Tribunale di Genova n.431/2022 (sentenza parziale) e n.155/2023 (sentenza definitiva).
[7] Tribunale Bologna n.314/2020.
[8] Tribunale di Modena RG n.185/2021.
[9] Tribunale di Milano RGL n.9094/2022.
[10] Tribunale di Modena RG n.615/2016; Tribunale di Modena nn.196/2022 e 180/2024.
[11] Tribunale di Padova nn.550/2019 e 126/2023.
[12] Così Federico Martelloni nel convegno di Magistratura Democratica Uno dopo l’altro, vivere e morire di lavoro (povero) – Appalti, retribuzione e parità di trattamento, rinvenibile sul canale You Tube di magistratura Democratica ai link https://www.youtube.com/watch?v=B9DbDzjYHio e https://www.youtube.com/watch?v=siLpMM9rEnU.
Intervento al IV convegno annuale della Labour Law Community, tenutosi a Bari il 15 e 16 novembre 2024