«Volete voi abrogare l'articolo 9, comma 1, lettera b), limitatamente alle parole “adottato da cittadino italiano” e “successivamente alla adozione”; nonché la lettera f), recante la seguente disposizione: “f) allo straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica.”, della legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza”?».
1. Lo strumento del referendum per ottenere - dopo molti anni di discussioni inconcludenti sulla riforma della legge n. 91/92 - una estensione dei percorsi di accesso alla cittadinanza non era facile da utilizzare: come noto il referendum ammesso nel nostro ordinamento è solo quello abrogativo di norme esistenti e quindi non sarebbe stato possibile proporre, mediante il referendum, l’introduzione di nuove ipotesi (come i tanto dibattuti ius scholae o ius culturae o altre facilitazioni per i nati in Italia) del tutto diverse e innovative rispetto a quelle oggi previste. Occorreva invece trovare, con un po’ astuzia giuridica, una disposizione la cui eliminazione potesse avere un effetto espansivo della platea di chi aspira a diventare cittadino.
2. Come noto la L. 91/92 distingue nettamente i casi in cui la persona «è cittadina italiana» (ad es. la nascita da genitore italiano, il noto ius sanguinis) dai casi in cui la «cittadinanza può essere concessa»: nel primo caso sussiste un vero e proprio diritto a veder riconosciuta, dalla Pubblica Amministrazione e poi, se necessario, dal giudice, la propria condizione di cittadino; nel secondo chi la richiede deve superare un vaglio molto discrezionale relativo al grado di “integrazione” nella comunità nazionale, il cui esito, se negativo, difficilmente può essere censurato da un giudice.
3. Operare sul primo ambito avrebbe avuto effetti innovativi molto più significativi, ma i promotori del referendum hanno dovuto prendere atto che la disciplina del “diritto alla cittadinanza” non presentava norme la cui abrogazione potesse avere un effetto espansivo.
Hanno dovuto quindi guardare al secondo ambito, che è quello della cd “naturalizzazione”: allo straniero che risiede legalmente sul territorio nazionale da almeno 10 anni «può essere concessa» la cittadinanza.
4. Ebbene in questo caso la norma prevede alcune ipotesi derogatorie nelle quali il requisito decennale può essere ridotto a cinque anni; cancellando il riferimento alle ipotesi derogatorie, si ottiene di generalizzare il periodo quinquennale e di sostituirlo, per tutti, a quello decennale.
La norma che più facilmente si prestava a questa operazione è l’art. 9 comma 1, lettera b) della legge 91 che prevede appunto la facoltà di concedere la cittadinanza «allo straniero maggiorenne adottato da cittadino italiano che risiede legalmente sul territorio nazionale da almeno cinque anni successivamente alla adozione». Abrogando le parole «adottato da cittadino italiano» e quelle «successivamente alla adozione» (ed è questo che il referendum intende ottenere) si ottiene appunto, con un’operazione di ritaglio, una sorta di nuova norma in base alla quale la cittadinanza potrà essere concessa a tutti gli stranieri maggiorenni che abbiano soggiornato in Italia da almeno cinque anni e non più da dieci.
Era poi necessario abrogare anche la norma che faceva espresso riferimento ai 10 anni ed è per questo che il quesito referendario è duplice e contiene anche il riferimento alla lettera f) del comma 1.
5. La Corte Costituzionale, con la sentenza 7.2.2025 n. 11 ha affermato che il quesito è sufficientemente chiaro, che la vittoria dei “SI” non creerebbe alcun vuoto normativo e determinerebbe una modifica della disciplina vigente del tutto coerente con gli obiettivi che i promotori si proponevano: ha quindi dichiarato la ammissibilità del referendum segnalando tra l’altro che i 5 anni sono una misura tutt’altro che estranea al nostro ordinamento, essendo rimasta vigente per ben 80 anni (dal 1912 fino alla modifica del 1992) ed essendo ancora oggi prevista per gli adottati maggiorenni e per i rifugiati politici, oltre che – aggiungiamo noi – in gran parte dei paesi europei: era (ed è) semmai il criterio decennale ad essere del tutto sproporzionato.
6. La Corte ha anche ricordato che la concessione della cittadinanza decorsi cinque anni di residenza resterebbe comunque, all’esito del referendum, un «atto squisitamente discrezionale di alta amministrazione» e dunque l’acquisizione resterà soggetta, come oggi, alla valutazione del Ministero dell’Interno sul grado di integrazione del richiedente (conoscenza della lingua, reddito adeguato, assenza di precedenti ecc.). Se poi aggiungiamo che resterà vigente la norma che fissa termini lunghissimi per la conclusione del procedimento (due anni prorogabili a tre) e che pertanto i cinque anni di residenza minima divengono in realtà sette o otto o anche più, è agevole comprendere che la vittoria dei SI non determinerebbe alcuna estensione automatica e generalizzata della platea dei nuovi cittadini. Sarebbe tuttavia un passo estremamente significativo (e forse decisivo, per il futuro) della volontà popolare di rimuovere ostacoli anacronistici e ingiustificati alla costruzione di una comunità nazionale più inclusiva.