- Corte di Cassazione Sezioni Unite - Requisitoria pubblica udienza 12.07.2022 R.G. 26093/2021
- Corte di Cassazione Sezioni Unite - Requisitoria pubblica udienza 12.07.2022 R.G. 26397/2021
1. Premessa
Le recenti rimessioni alle Sezioni unite della Corte di Cassazione della questione relativa alla richiesta di riconoscimento della cittadinanza italiana iure sanguinis, formulata da alcuni cittadini brasiliani, diretti discendenti di destinatari dei provvedimenti di naturalizzazione coatta e di massa emanati dal governo Brasiliano fra il 1889 ed il 1891, rappresenta un valido spunto per riflettere sul valore della cittadinanza nell’attualità: ciò al fine di definire il perimetro e l’inquadramento di un diritto fondamentale che, in epoca di migrazioni, è costantemente soggetto a contestazioni, volte per lo più a restringerne il campo di applicazione.
La vicenda, portata da due ricorsi discussi nella medesima udienza, si fonda sulla configurabilità o meno della rinuncia tacita dei ricorrenti alla cittadinanza italiana a seguito della stabilizzazione in Brasile degli avi e dei loro discendenti, provenienti dall’Italia, dopo il decreto della cd “grande naturalizzazione” (risalente al 1889), che aveva attribuito loro, con provvedimento massivo, la cittadinanza brasiliana: circostanza questa alla quale, secondo il Ministero degli Interni, era conseguita una rinuncia tacita a quella italiana.
La questione, dunque, pone il quesito fondamentale se lo status di cittadino possa essere oggetto di rinuncia attraverso la mera permanenza in un altro paese ed in mancanza di una manifestazione di volontà o, al contrario, se l’intenzione abdicativa debba essere manifestata espressamente, tenuto conto della specifica natura del diritto.
2. I casi concreti
Le vicende oggetto dei ricorsi (e delle requisitorie in questa sede pubblicate) traggono origine dalle domande di accertamento dello status di cittadini italiani, formulate da alcuni brasiliani.
In entrambe le vicende processuali, i ricorrenti, discendenti in linea retta di cittadini italiani emigrati in Brasile alla fine del diciannovesimo secolo, fondavano la loro pretesa di riconoscimento della cittadinanza italiana sul c.d. criterio dello ius sanguinis.
Essendo stata provata documentalmente la discendenza ininterrotta da cittadini italiani, emigrati in Brasile alla fine del diciannovesimo secolo, il Tribunale ordinario di Roma accoglieva la domanda dei ricorrenti e, conseguentemente, ordinava agli organi competenti di procedere alle iscrizioni, trascrizioni e annotazioni di legge, nei registri dello stato civile. In particolare, veniva rigettata l’eccezione ministeriale della cd. “grande naturalizzazione”, secondo cui con decreto n. 58 del 1889 - del Governo provvisorio brasiliano - sarebbe stato introdotto un meccanismo di rinuncia automatica di cittadinanza per tutti i cittadini stranieri (compresi gli italiani) residenti in Brasile al 15 novembre 1889.
Il Tribunale di Roma ha osservato – in ragione della natura di diritto assoluto – che la cittadinanza italiana può perdersi solo in forza di un atto volontario ed esplicito e non anche dal mancato esercizio della rinuncia alla cittadinanza brasiliana, precisando che essa non era stata documentata dalla parte onerata.
La Corte d’Appello di Roma, investita dell’impugnazione dal Ministero degli Interni, ha interamente riformato le ordinanze impugnate, considerando interrotta la linea di trasmissione dello status civitatis, in ragione della perdita della cittadinanza italiana degli avi (nati in Italia e poi emigrati in Brasile), nonché della perdita della cittadinanza italiana dei loro figli (nati in Brasile), ai sensi dell’art. 11 c.c. 1865. Assumeva, al riguardo, che il loro inserimento nel “consesso sociale” brasiliano ed il godimento di tutti diritti civili e politici riconosciuti dal Brasile avrebbe determinato una “accettazione tacita” della cittadinanza brasiliana ed una correlativa e “contestuale rinuncia tacita” a quella originaria italiana; e che la perdita della cittadinanza italiana degli avi degli appellati si sarebbe, comunque, verificata in base all’art. 11, n. 3, c.c. 1865, in quanto costoro avevano svolto attività lavorativa nel paese di migrazione, accettando, senza l’autorizzazione del governo italiano, un impiego da un governo estero, per esso intendendosi l’organo di governo che regolamenta e consente al cittadino straniero di vivere e lavorare nello stato ove si è trasferito. In sintesi, i motivi ostativi al riconoscimento della cittadinanza italiana degli appellati sarebbero derivati dall’interruzione nella linea di trasmissione di tale status, in conseguenza di eventi riguardanti sia gli avi (nati in Italia e poi emigrati in Brasile), che i loro figli (nati in Brasile).
L’impugnazione delle due sentenze dinanzi alla Corte di Cassazione si fonda su plurimi motivi volti ad evidenziare, in sintesi, che la perdita della cittadinanza italiana non poteva essere conseguenza di una condotta implicita o per atto di imperio di altra nazione; e che la perdita della cittadinanza in conseguenza della accettazione di un impiego dal “governo estero” doveva intendersi, ex art. 11 co 3 c.c. 1865, in senso restrittivo, potendosi riconoscere solo nelle ipotesi di assunzione di impiego da cui consegua una appartenenza organica ed una fedeltà alla nazione di riferimento; che, soprattutto, le fattispecie abdicative ed estintive della cittadinanza non potevano desumersi da presunzioni semplici, tenuto conto che nei casi specifici, era stata provata documentalmente l’acquisizione della cittadinanza iure sanguinis per discendenza dagli avi.
Le due requisitorie della P.G., dopo aver ricostruito storicamente la vicenda della “grande naturalizzazione brasiliana” e delle cause che l’hanno indotta, illustrano nitidamente i punti salienti delle quaestiones iuris oggetto di contestazione, e chiedono l’affermazione di un principio di diritto del tutto condivisibile volto ad affermare che la rinuncia alla cittadinanza italiana non può essere tacita o risultare da fatti concludenti ma deve essere frutto di una manifestazione esplicita ed inequivoca di volontà da cui potersi desumere con certezza tale intenzione.
3. Conclusioni
Il principio di cui si chiede l’affermazione, dunque, da un lato valorizza la natura di diritto soggettivo ed imprescrittibile della cittadinanza e, dall’altro, in tempi di migrazioni di massa derivanti da guerre, carestie e fughe da paesi protagonisti di reiterate violazioni dei diritti umani, induce a riflettere sulla necessità di aprire un confronto su un modo diverso di affrontare il fenomeno, cercando di trovare una sintesi intelligente fra i doveri di protezione internazionale e la convenienza del nostro paese all’inclusione degli stranieri. Il tema, ovviamente, non potrà prescindere da un dibattito sulla semplificazione della concessione della cittadinanza, attualmente caratterizzata da tempi lunghi, procedure costose e non automatiche, anche in presenza dei presupposti di diritto ed in assenza di pericolosità del richiedente.