Magistratura democratica
Giurisprudenza e documenti

Nota a ordinanza Tribunale di Siena 11 febbraio 2025

di Enrico Contieri
giudice del tribunale di Torre Annunziata

Pubblichiamo, di seguito, l’ordinanza con cui il Tribunale di Siena ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 554 ter c.p.p., nella parte in cui non attribuisce al giudice dell’udienza di comparizione predibattimentale il potere di assumere, a richiesta di parte o d’ufficio, le prove potenzialmente decisive ai fini dell’emissione di una sentenza di non luogo a procedere, per violazione degli artt. 3, 111, secondo comma, 112, 117 Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, primo paragrafo, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

Il provvedimento in questione tocca un tema cruciale nella disciplina di questa udienza di nuovo conio che, pur avendo l’ambizioso obiettivo di contribuire in modo significativo alla deflazione e alla semplificazione della giustizia penale, anche alla luce dell’incremento del novero dei reati per i quali è prevista la citazione diretta a giudizio, appare carente proprio sotto un profilo essenziale per il raggiungimento di un simile scopo, precludendo al giudice l’acquisizione di qualsiasi tipo di prova – persino documentale – pur potenzialmente decisiva ai fini della definizione anticipata del giudizio mediante sentenza di non luogo a procedere.

Il giudice a quo si trova a giudicare il caso di una persona accusata del furto della somma di 2.000 euro, contenuta all’interno di un portafogli dimenticato dalla persona offesa in un carrello della spesa, posto all’esterno di un supermercato. La polizia giudiziaria, al fine di individuare l’autore del furto, aveva – tra l’altro – acquisito i video delle telecamere di sorveglianza poste all’esterno del supermercato, dalle quali era emerso che un uomo si era avvicinato al carrello in questione, se ne era poi allontanato per salire a bordo della propria autovettura, per poi avvicinarsi di nuovo al carrello metallico. Poco dopo, a seguito della sollecitazione telefonica fatta dalla persona offesa, il borsello con il portafogli, privo però del denaro, era stato rinvenuto da una dipendente dell’esercizio commerciale. Dalla targa dell’auto si era quindi giunti all’individuazione dell’uomo, che era stato dunque indagato e poi imputato del furto.

Questi, a seguito della notifica dell’avviso di conclusione delle indagini, aveva reso interrogatorio, nel corso del quale, pur confermando di essere la persona nelle immagini, aveva negato di aver sottratto il denaro dal portafogli, spiegando che, quando lo aveva preso ed era rientrato in auto, lo aveva trovato già vuoto, sicché lo aveva rimesso nel carrello.

La versione dei fatti proposta dall’imputato, osserva il giudice rimettente, potrebbe essere agevolmente verificata mediante la diretta visione delle riprese del circuito di videosorveglianza. Tuttavia, la polizia giudiziaria, pur avendo acquisito integralmente i filmati, aveva conservato il supporto informatico presso i propri uffici, mentre nell’annotazione di servizio confluita nel fascicolo del pubblico ministero aveva riportato soltanto alcuni frames, tra i quali non vi erano però né quelli relativi al segmento temporale nel quale l’imputato era rientrato in auto, né quelli precedenti o concomitanti al rinvenimento del borsello da parte dell’impiegata dell’esercizio commerciale, senza che tali sequenze fossero inoltre descritte nell’annotazione di servizio.

Ebbene, osserva il giudice a quo, «l’assenza della videoripresa in questione, nel materiale probatorio contenuto nel fascicolo delle indagini preliminari, non consente tuttavia al giudice di svolgere appieno la propria attività di “giudizio”, intesa come esame di “prove” posto in essere al fine di pervenire ad una delle due “decisioni di merito” previste dall’art. 554-ter, primo e rispettivamente terzo comma, cod. proc. pen., ossia all’adozione vuoi di una sentenza di non luogo a procedere, vuoi di un provvedimento di prosecuzione del giudizio davanti a un giudice diverso», atteso che proprio tale file-video, e non già le isolate e frammentate immagini inserite dalla polizia giudiziaria nell’annotazione di servizio, costituiscono «la “prova”, di natura documentale, in base alla quale il giudice dell’udienza di comparizione predibattimentale, unitamente al restante materiale probatorio contenuto nel fascicolo delle indagini preliminari, deve valutare e vagliare la fondatezza dell’accusa elevata nei confronti dell’odierno imputato».

Il giudice rimettente osserva di non potere, però, acquisire il supporto custodito dalla polizia giudiziaria, in quanto, a mente dell’art. 555-ter, comma 1, c.p.p., la base conoscitiva del giudice dell’udienza predibattimentale è rappresentata esclusivamente dagli «atti trasmessi ai sensi dell’art. 553» c.p.p., e cioè dal «fascicolo del dibattimento… unitamente al fascicolo del pubblico ministero». Tra i poteri del giudice dell’udienza di comparizione predibattimentale non vi è, dunque, quello di integrare il materiale probatorio contenuto nel fascicolo del pubblico ministero, previsto invece per il giudice dell’udienza preliminare dall’art. 422 c.p.p. relativamente alle «prove delle quali appare evidente la decisività ai fini della sentenza di non luogo a procedere». Infatti, pur essendo l’udienza di comparizione predibattimentale stata modellata sulla falsariga dell’udienza preliminare, l’art. 554 ter c.p.p., da un lato non attribuisce espressamente tale potere al giudice, e, dall’altro, al comma 1, nel disporre l’applicabilità, in quanto compatibili, di alcune norme che disciplinano l’udienza preliminare – artt. 424, commi 2, 3 e 4, 425, comma 2, 426 e 427 – non richiama l’art. 422 c.p.p.

A tale disciplina il Tribunale di Siena muove alcuni rilievi, argomentandone l’incompatibilità con tre diversi parametri costituzionali.

Innanzitutto, essa si pone in contrasto con l’art. 3 Cost., sotto un duplice profilo: per l’omessa previsione di «un intervento riequilibratore del giudice atto a supplire alle carenze istruttorie di taluna delle parti», in conformità «con l’obiettivo di eliminazione delle disuguaglianze di fatto posto dall’art. 3, secondo comma, Cost.», e per l’irragionevole diversità di trattamento degli imputati rispetto, appunto, all’udienza preliminare. Infatti, per quanto le due udienze appaiano senz’altro differenti dal punto di vista strutturale – dal momento che, diversamente da quella di comparizione predibattimentale, l’udienza preliminare rappresenta una vera e propria autonoma fase del processo destinata a concludersi con l’atto introduttivo del dibattimento – è indubbio che esse siano accomunate dal fatto che svolgono un’identica e simmetrica funzione, e cioè quella di evitare dibattimenti superflui. 

Infatti, osserva il giudice a quo richiamando l’insegnamento della Corte costituzionale, a seguito delle modifiche apportate dalla legge n. 479/1999 (c.d. legge Carotti) l’udienza preliminare ha visto «una profonda trasformazione sul piano sia della quantità e qualità di elementi valutativi che vi possono trovare ingresso, sia dei poteri correlativamente attribuiti al giudice» (Corte cost., ordinanza n. 150 del 2024 e sentenza n. 224 del 2001), sicché è venuta a caratterizzarsi per la necessaria «completezza del quadro probatorio di cui il giudice deve disporre…» (Corte cost., sentenza n. 335 del 2002), funzionale al compito, «spettante a tale giudice, di operare una verifica preventiva circa la necessità della celebrazione del dibattimento, a garanzia del corretto esercizio dell’azione penale da parte dell’organo requirente, così fungendo da “filtro” a dibattimenti ingiustificati e, comunque, perseguendo in tal modo finalità deflattive e di semplificazione».

E la stessa finalità deflattiva e di semplificazione persegue, nel disegno della riforma c.d. Cartabia, anche la neonata udienza di comparizione predibattimentale, la quale, come pure osservato di recente dalla Corte costituzionale nella pronuncia con cui ha introdotto un’espressa ipotesi di incompatibilità tra il giudice dell’udienza predibattimentale e quello del dibattimento, deve fungere da «“filtro” a dibattimenti ingiustificati… perseguendo in tal modo finalità deflattive e di semplificazione», attraverso l’attribuzione al giudice di un «vaglio preventivo della necessità della celebrazione del dibattimento»: le due udienze sono perciò accomunate da una «evidente simmetria, in relazione alla penetrante attività valutativa che sono chiamati a compiere», consistente in un «vaglio penetrante del merito dell’accusa» (ancora, Corte cost., sentenza n. 179 del 2024).

Se così è, allora, a fronte di tale identità di ratio funzionale, la preclusione normativa per il giudice dell’udienza di comparizione predibattimentale all’assunzione di prove che appaiano decisive ai fini dell’emissione di una sentenza di non luogo a procedere – motivata dal legislatore della riforma con l’asserita necessità di un vaglio «più snello» da affidare al giudice dell’udienza predibattimentale – non appare ragionevole: essa, infatti, lungi dal consentire il raggiungimento dell’obiettivo di una maggiore celerità del processo, si traduce in un’irragionevole dilatazione dei tempi dell’intero procedimento penale, imponendo la celebrazione di un dibattimento superfluo, perché destinato a concludersi con un esito assolutorio, laddove tale esito ben potrebbe essere raggiunto già in sede di udienza di comparizione predibattimentale, attribuendo al giudice siffatto potere di integrazione probatoria.

In secondo luogo, ad essere violato è anche l’art. 112 Cost., sotto il profilo del dovere di completezza delle indagini preliminari, che, come la Corte costituzionale ha da tempo osservato sempre con riferimento all’udienza preliminare, costituisce un essenziale e imprescindibile corollario del principio di obbligatorietà dell’azione penale. Tale esigenza di completezza deve poter essere valutabile – e, se del caso, colmabile – dal giudice mediante l’esercizio dei poteri di integrazione probatoria di cui dispone, laddove la preclusione della possibilità, per l’organo giudicante, di operare un’integrazione probatoria, in uno con il correlativo obbligo per questi di decidere esclusivamente allo stato degli atti, è evenienza in sé idonea a produrre «una alterazione dei caratteri propri dell’esercizio della funzione giurisdizionale» (v. Corte cost., sentenze n. 115 del 2001, n. 318 del 1992, nonché sentenze n. 56 del 1993 e n. 442 del 1994).

Infine, argomenta il Tribunale rimettente, la preclusione all’assunzione di prove che allo stato degli atti appaiono decisive ai fini dell’emissione di una sentenza di non luogo a procedere, risolvendosi nell’imposizione di un dibattimento che potrebbe rivelarsi del tutto superfluo per l’accertamento della responsabilità dell’imputato, si pone inevitabilmente in contrasto con il principio di ragionevole durata del processo, sancito dall’art. 111, comma Cost., e dall’art. 6, primo paragrafo, CEDU.

Infatti, ricorda il giudice a quo, tale principio, declinato dalla Corte di Strasburgo come un vero e proprio «diritto soggettivo» dell’accusato cui fa fronte un vero e proprio dovere dello Stato, e dalla Corte costituzionale inteso come un «connotato identitario della giustizia del processo» (v. Corte cost., sentenze n. 113 del 2023 e 74 del 2022), viene ad essere violato tutte le volte in cui «l’effetto di dilatazione dei tempi processuali determinato da una specifica disciplina non sia sorretto da alcuna logica esigenza e si riveli invece privo di qualsiasi legittima ratio giustificativa» (Corte cost., sentenze n. 113 del 2023, 12 del 2016, n. 159 del 2014, n. 63 e n. 56 del 2009).

E, conclude il rimettente, nessuna ratio giustifica l’omessa previsione di poteri di istruttori in capo al giudice dell’udienza di comparizione predibattimentale relativamente alle prove che allo stato degli atti appaiano decisive ai fini dell’emissione di una sentenza di non luogo a procedere; ed anzi, al contrario, proprio l’omessa acquisizione di elementi di prova potenzialmente decisivi, traducendosi, come sottolineato, nella celebrazione di un dibattimento superfluo, produce un’irragionevole dilatazione dei tempi processuali.

Per tutte queste ragioni, il giudice a quo sollecita alla Corte costituzionale l’emissione di una sentenza additiva, mediante la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 554-ter c.p.p., «nella parte in cui non prevede che si applica, in quanto compatibile, la disposizione di cui all’articolo 422 cod. proc. pen., ovvero, in via subordinata, nella parte in cui non prevede che il giudice possa disporre, anche d’ufficio, l’assunzione delle prove dalle quali appare evidente la decisività ai fini della sentenza di non luogo a procedere».

 

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