1. Il contesto: fonti e giurisprudenza UE
Con la sentenza in rassegna e le altre due sentenze gemelle nn. 1003 e 1005 del 15 gennaio 2025, le Sezioni unite della Corte di cassazione, pur enunciando un principio di diritto meramente ripetitivo dei principi già sanciti dalla Corte di giustizia dell’Unione europea nella sentenza pronunciata il 30 novembre 2023 nelle cause riunite C-228/21, C-254/21, C-297/21, C-315/21 e C-328/21, sembrano in realtà – a leggere con attenzione tra le righe dei loro generosi (ma pertinenti) obiter dicta – anche rispondere almeno in parte alle attese di chiarimento dei giudici di merito e del foro sulla complessa questione delle interferenze tra protezione complementare di stampo nazionale e “trasferimenti Dublino”.
Ma procediamo con ordine.
I tribunali di Roma, Firenze e Milano avevano sollevato nel 2021 questione pregiudiziale, ai sensi dell’art. 267 TFUE, circa la sussistenza o meno, in capo al giudice dello Stato membro richiedente, del potere di sindacare una decisione di trasferimento verso un altro Stato membro richiesto, in quanto implicante un rischio di refoulement indiretto per avere già, lo Stato membro richiesto, negato al richiedente asilo il riconoscimento della protezione internazionale, che viceversa gli spetterebbe a giudizio di quel giudice. La questione era stata posta, dai tribunali di Roma e di Firenze, anche sotto il profilo della clausola discrezionale di cui all’art. 17, par. 1, Reg. (UE) 26 giugno 2013, n. 604 (c.d. Regolamento Dublino III), che riconosce ad ogni Stato membro la facoltà di esaminare comunque una domanda di protezione internazionale, anche se il suo esame non gli competerebbe in base ai criteri stabiliti dal Regolamento. Si ipotizzava, cioè, la sussistenza, in capo al giudice dell’impugnazione della decisione di trasferimento assunta dall’autorità amministrativa (in Italia, l’Unità Dublino presso il Ministero dell’Interno[1]), di un potere di sindacato del mancato esercizio di tale facoltà da parte dell’autorità amministrativa stessa, implicito nella sua decisione di far luogo al trasferimento.
La CGUE ha risposto con la citata sentenza 30 novembre 2023, con cui ha anzitutto chiarito che, in forza del principio di fiducia reciproca tra gli Stati membri (il quale impone di presumere che tutti gli Stati membri assicurino analoghi standard di tutela dei diritti riconosciuti dall’Unione), il giudice di uno Stato membro non può sovrapporre la propria valutazione, circa la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale, a quella dello Stato membro competente alla presa o ripresa in carico del richiedente asilo; pertanto egli non può, di regola, valutare il rischio di violazione del principio di non-refoulement, al quale il richiedente asilo sarebbe esposto in connessione con il trasferimento verso lo Stato membro richiesto, salvo il caso di accertata sussistenza, nello Stato membro richiesto, di carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza; né la mera divergenza di opinioni, tra il giudice e le autorità dello Stato membro richiedente e il giudice e le autorità dello Stato membro richiesto, quanto ai presupposti sostanziali della protezione internazionale, dimostra la sussistenza di siffatte carenze sistemiche.
La sentenza ha chiarito anche che la stessa clausola discrezionale, di cui all’art. 17, par. 1, del Regolamento, «non impone al giudice dello Stato membro richiedente di dichiarare tale Stato membro competente qualora non condivida la valutazione dello Stato membro richiesto quanto al rischio di refoulement dell’interessato. In assenza di carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti protezione internazionale nello Stato membro richiesto in occasione del trasferimento o in conseguenza di esso, il Giudice dello Stato membro richiedente non può neppure obbligare quest’ultimo Stato membro a esaminare esso stesso una domanda di protezione internazionale sul fondamento dell’art. 17, paragrafo 1, del regolamento n. 604/2013 per il motivo che esiste, secondo tale giudice, un rischio di violazione del principio di non-refoulement nello Stato membro richiesto» (punto 3 del dispositivo). Ad avviso della Corte, inoltre, «Tenuto conto della portata del potere discrezionale in tal modo accordato agli Stati membri, spetta allo Stato membro interessato determinare le circostanze in cui intende far uso della facoltà conferita dalla clausola discrezionale prevista dall’articolo 17, paragrafo 1, del regolamento Dublino III e accettare di esaminare esso stesso una domanda di protezione internazionale per la quale non è competente in base ai criteri definiti da detto regolamento (sentenza 23 gennaio 2019, M.A. e a., C-661/17, EU:C:2019:53, punto 59)» (punto 147 della motivazione).
La disciplina dell’applicazione della clausola discrezionale, dunque, è affare interno dei singoli Stati membri, riservato ai loro ordinamenti nazionali.
2. La questione
Gli ordinamenti nazionali dei singoli Stati membri solitamente disciplinano, accanto agli istituti di protezione internazionale di matrice unionale, quali lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria, anche altre forme di protezione – in Italia comunemente definita “complementare” perché si affianca a quella rappresentata dai due istituti principali predetti – peraltro espressamente ammesse, ma non disciplinate, dall’ordinamento dell’Unione europea all’art. 6, par. 4, della direttiva “rimpatri” 2008/115/CE del 16 dicembre 2008[2].
Ci si è dunque chiesti se e come, alla luce in particolare della richiamata clausola discrezionale di cui all’art. 17, par. 1, del Regolamento Dublino, la presenza di istituti di protezione complementare di carattere nazionale interferisca con la disciplina della designazione dello Stato membro “competente” recata dal medesimo Regolamento, il quale ha invece per oggetto esclusivo (il riparto di “competenza” tra gli Stati membri su) le domande di riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria. Infatti l’art. 1 del Regolamento, nel definire l’oggetto dello stesso, fa riferimento al sole domande «di protezione internazionale», che il successivo art. 2, lett. b), a sua volta definisce rinviando all’articolo 2, lettera h), della direttiva 2011/95/UE, a mente della quale la «domanda di protezione internazionale» è «una richiesta di protezione rivolta a uno Stato membro da un cittadino di un paese terzo o da un apolide di cui si può ritenere che intende ottenere lo status di rifugiato o lo status di protezione sussidiaria, e che non sollecita esplicitamente un diverso tipo di protezione non contemplato nell’ambito di applicazione della presente direttiva e che possa essere richiesto con domanda separata».
Ci si è chiesti, in particolare, se nella decisione di trasferimento assunta dall’Unità Dublino possa ritenersi implicito il mancato esercizio della clausola discrezionale e se tale mancato esercizio possa configurare violazione del diritto del richiedente asilo al riconoscimento di una forma di protezione complementare, eccedente gli istituti principali dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria disciplinati dal diritto dell’Unione, ma riconosciuta dall’ordinamento nazionale italiano: riconoscimento che sarebbe impedito dal trasferimento del richiedente stesso in altro Stato membro, che tale forma di protezione non riconosca. Con la conseguenza che la corrispondente ragione d’illegittimità del trasferimento sarebbe sindacabile davanti al giudice in sede di impugnazione del provvedimento dell’Unità Dublino prevista dall’art. 3, commi 3 bis e ss., d.lgs. 25/2008 e dall’art. 27 del Regolamento Dublino III.
Questo appare essere, in sintesi, anche il senso dei quesiti di cui la Prima Sezione civile della Corte di cassazione ha investito le Sezioni unite con le tre ordinanze interlocutorie richiamate nelle tre sentenze gemelle delle Sezioni unite.
3. La risposta data dalle Sezioni unite
La risposta delle Sezioni unite a tali quesiti, a ben guardare, è di fatto affermativa.
Se è vero che il dispositivo delle sentenze in rassegna sul punto è formalmente d’inammissibilità della questione per non avere, in concreto, i richiedenti asilo impugnanti allegato fatti integranti i presupposti della protezione complementare, è anche vero che, per giungere a tale conclusione, le Sezioni unite mostrano di essersi anzitutto interrogate sulla rilevanza della questione in astratto, concludendo – in astratto, appunto – che «il diritto dell’Unione consente al richiedente di impugnare il disposto trasferimento per le più svariate ragioni, tra le quali potrebbe annoverarsi anche la dedotta violazione del proprio diritto al riconoscimento della protezione complementare di diritto nazionale» (par. 23.1, ultimo capoverso, della motivazione). E tale affermazione esse fanno all’esito di un’ampia ricognizione (ai paragrafi. 21.2, 21.3 e 21.4) della giurisprudenza, sia di legittimità che costituzionale, ormai da tempo ferma nel riconoscere anche alla protezione complementare la natura di diritto soggettivo fondamentale radicato nell’art. 10, comma terzo, Cost., del quale realizza la piena attuazione, non integrata dai soli istituti dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria.
Del resto, una risposta diversa, di segno negativo, non sarebbe condivisibile. Se, infatti, anche la protezione complementare costituisce un diritto, trasferire il richiedente in un altro Stato membro dell’Unione europea – che tale diritto non riconoscerebbe perché il suo ordinamento non contempla istituti di protezione equivalenti – comporterebbe la negazione di quel diritto in mancanza di qualsiasi base normativa. Né tale base potrebbe essere rinvenuta nel Regolamento Dublino, con i criteri di riparto della competenza tra gli Stati membri in esso previsti, perché l’attribuzione di quella competenza non è indefettibile, come si è visto, ben potendo essere derogata dall’ordinamento interno di ogni Stato membro grazie alla clausola discrezionale di cui all’art. 17, par. 1.
È semmai il caso di precisare che, in quest’ordine di idee, è superato il problema della individuazione dell’autorità italiana – giudice o Unità Dublino, o chi per essa – competente ad applicare la clausola discrezionale. È infatti la legge ad applicare tale clausola prevedendo, anche in virtù del dettato costituzionale, forme di protezione complementare eccedenti quelle previste dall’ordinamento dell’Unione e degli altri Stati membri e imponendo di conseguenza, a nostro avviso, sia all’amministrazione che al giudice di esaminare le domande di asilo che invochino anche tali forme di protezione complementare, ove queste non siano previste negli ordinamenti degli Stati membri richiesti della presa o ripresa in carico. Ciò in coerenza, del resto, con l’ovvio riconoscimento della relativa facoltà, ai sensi dell’art. 17, par. 1, Reg. Dublino III, a «ciascuno Stato membro», ossia a ciascuno Stato inteso nel suo complesso, ferma restando l’autonomia di quest’ultimo nella scelta se affidare l’esercizio di tale discrezionalità caso per caso all’autorità amministrativa o giudiziaria, oppure affidarlo al legislatore, che lo esplica mediante la previsione di regole generali e astratte. Quest’ultima è la soluzione prescelta dalla Repubblica Italiana, le cui leggi implicitamente, ma chiaramente, vietano, per quanto sopra osservato, il trasferimento dei richiedenti asilo aventi diritto a forme di protezione complementare esclusive dell’ordinamento italiano, secondo una regola cui devono uniformarsi sia l’autorità amministrativa, in prima battuta, sia il giudice in sede d’impugnazione del provvedimento amministrativo di trasferimento.
4. Le risposte non date dalle Sezioni unite
Le Sezioni unite lasciano aperta la questione, sollevata dal Ministero dell’Interno controricorrente e adombrata dal Procuratore generale, se gli istituti di protezione complementare dell’ordinamento nazionale italiano trovino o meno corrispondenza in analoghi istituti presenti nell’ordinamento dell’Unione e, per tale via, negli ordinamenti dei singoli Stati membri, nel primo caso non potendo sussistere l’impedimento al trasferimento, in quanto il diritto del richiedente asilo troverebbe analoga protezione anche nello Stato membro di destinazione.
Gli istituti di protezione complementare dell’ordinamento italiano, in effetti, trovano base, per lo più, in normative di fonte unionale o di fonte internazionale recepite dall’ordinamento dell’Unione e da quelli degli altri Stati membri. Si pensi alla protezione speciale quale attualmente disciplinata dall’art. 19 d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico immigrazione), che prevede il rilascio (ove non sia possibile il riconoscimento delle forme di protezione principali dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria) di un permesso di soggiorno, denominato appunto «per protezione speciale», qualora sussista il rischio di persecuzione (comma 1) o di sottoposizione a tortura o trattamenti inumani o degradanti (comma 1.1, primo periodo, prima parte), in ottemperanza al divieto di refoulement previsto dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra sui rifugiati e recepito ed ampliato dagli artt. 18 e 19 della Carta di Nizza e dall’art. 5 della direttiva rimpatri 2008/115/CE, ovvero qualora sussistano comunque gli «obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano» di cui all’art. 5, comma 6, del medesimo decreto (comma 1.1, primo periodo, ultima parte).
4.1. Gli istituti di protezione complementare tipici dell’ordinamento italiano come limiti al potere statuale di trasferimento del richiedente asilo: a) la protezione speciale “per integrazione sociale”
Non sempre, però, vi è piena coincidenza tra gli istituti di protezione complementare italiani e quelli di fonte unionale o internazionale, nonché interna degli altri paesi europei.
Tra gli obblighi internazionali cui si è fatto cenno alla fine del paragrafo precedente va annoverato, in particolare, quello del rispetto della vita privata e familiare, imposto dall’art. 8 CEDU e ribadito dall’art. 7 della Carta di Nizza.
Un richiamo espresso al diritto al rispetto della vita privata e familiare (ma non anche alla sua fonte, cioè l’art. 8 CEDU) era contenuto anche negli ultimi due periodi del testo originario del comma 1.1 d.lgs. 286/1998, cit., introdotto dal d.l. 21 ottobre 2020, n. 130, conv., con modif., nella l. 18 dicembre 2020, n. 173, che a tale diritto dava una connotazione in effetti più ampia di quella affermatasi nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani, in particolare quanto al rispetto, più specificamente, della vita privata quale diritto distinto da quello riguardante la vita familiare.
La Corte di Strasburgo, infatti, riconosce agli Stati il potere discrezionale di non consentire il soggiorno ai migranti che intendono stabilirsi nel loro territorio. La violazione del diritto al rispetto della vita privata costituisce appunto un limite a tale discrezionalità; ma il rifiuto del permesso di soggiorno in favore del soggiornate illegale costituisce violazione di tale diritto, secondo la Corte, solo in casi eccezionali, tenuto conto delle circostanze del caso e in particolare del comportamento dell’interessato e della sua buona o mala fede, della durata del soggiorno, del comportamento dello Stato ospitante (sentenza 9 maggio 2023, C-21768/19 Ghadamian c/Svizzera; sentenza 28 luglio 2020, C-25402/14 Pormes c/Paesi Bassi).
Nell’ultimo periodo del comma 1.1 d.lgs. 286/1998, invece, sono valorizzati, senza alcuna connotazione di eccezionalità, elementi (al netto di quelli riguardanti più specificamente il rispetto della vita familiare) come l’«effettivo inserimento sociale in Italia» e la «durata del suo soggiorno nel territorio nazionale», i quali denotano semplicemente situazioni di positiva integrazione del migrante nel tessuto sociale ed economico del nostro paese. Anche in tali situazioni è previsto il rilascio di un permesso di soggiorno per protezione speciale, nella prassi definito anche “per integrazione sociale”.
Il permesso di soggiorno c.d. per integrazione sociale non è previsto dall’ordinamento dell’Unione europea, né sembra trovare riscontro nella maggior parte degli ordinamenti nazionali degli altri Stati membri dell’Unione stessa[3], ancorché si tratti di istituto ispirato in realtà a saggezza e lungimiranza: esso consente, infatti, allo Stato di non rinunziare inutilmente al positivo contributo alla vita sociale ed economica del paese offerto dai migranti, al pari dei cittadini, grazie alla conseguita integrazione anzitutto lavorativa, e di evitare, al contempo, di consegnare quegli stessi migranti al circuito perverso e criminogeno della irregolarità.
Purtroppo, però, com’è noto, gli ultimi due periodi del comma 1.1 d.lgs. 286/1998 sono stati abrogati dall’art. 7, comma 1, lett. c), n. 1), d.l. 10 marzo 2023, n. 20, conv., con modif., nella l. 5 maggio 2023, n. 50 (c.d. decreto Cutro). Essi restano tuttavia in vigore, in via transitoria, quanto alle domande presentate sino alla data di entrata in vigore del decreto-legge e nei casi in cui lo straniero abbia già ricevuto, a tale data, l’invito alla presentazione della domanda da parte della questura (art. 7, cit., comma 2).
Con riferimento a tali fattispecie di diritto transitorio, dunque, nulla osta al potere del giudice di annullare la decisione di trasferimento, impugnata davanti a lui, nel caso di trasferimento in un altro Stato membro che non riconosca il diritto alla protezione per integrazione sociale: il che precluderebbe al richiedente asilo, definitivamente, il riconoscimento di un diritto che, pure, gli spetterebbe per l’ordinamento italiano.
4.2. b) la “protezione umanitaria” e l’art. 10, comma terzo, Cost.
Analogo discorso può ripetersi per tutte le altre fattispecie di riconoscimento della protezione complementare, nell’ordinamento nazionale italiano, che eccedano i limiti dell’ordinamento unionale o comunque degli altri Stati membri dell’Unione e in concreto dello Stato membro individuato come competente in base ai criteri del Regolamento Dublino.
Viene qui in considerazione, in particolare, la protezione umanitaria, così definita in origine perché basata sul rilascio, nei casi di cui all’art. 5, comma 6, del Testo unico (oltre che in quelli di divieto di refoulement ai sensi dell’art. 19, comma 1) di permessi di soggiorno «per motivi umanitari» ai sensi della lettera c ter) dell’art. 11, comma 1, d.P.R. 31 agosto 1999, n. 394 (regolamento di attuazione del Testo unico immigrazione), lettera successivamente abrogata dal d.l. 4 ottobre 2018, n. 113, conv., con modif, nella l. 1° dicembre 2018, n. 132. Attualmente, nei casi di cui all’art. 5, comma 6, del Testo unico immigrazione (così come in quelli di divieto di refoulement), è previsto all’art. 19, comma 1.2, il rilascio di un permesso di soggiorno «per protezione speciale».
Per quanto il comma 6 dell’art. 5, cit., sia stato amputato del riferimento ai «seri motivi, in particolare di carattere umanitario» (a seguito delle modifiche apportate dai d.l. n. 113/2018 e n. 130/2020, citt.), resta il fatto che la previsione di un diritto al rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari in favore dello straniero il quale, anche in assenza di un apprezzabile livello d’integrazione in Italia, verserebbe tuttavia nel paese di origine in condizione di deprivazione dei diritti umani di particolare gravità, che ne degradi l’esistenza al di sotto della soglia minima della dignità umana[4], è considerata dalla giurisprudenza di legittimità quale norma di chiusura del sistema italiano di protezione internazionale, grazie alla quale esso si adegua all’ampiezza del diritto di asilo come definito dalla Costituzione all’art. 10, comma terzo[5].
In tali casi residuali, ove sia dato registrare un disallineamento tra la disciplina italiana e quella, più restrittiva, dello Stato membro competente secondo i criteri regolamentari, del pari il trasferimento del richiedente asilo non potrebbe giustificarsi.
5. Deduzione e accertamento dei presupposti dell’annullamento della decisione di trasferimento contrastante con la protezione complementare nazionale
Le Sezioni unite sottolineano, come si è già accennato, l’onere dell’impugnante di allegare le specifiche circostanze di fatto poste a fondamento del suo diritto alla protezione complementare ostativo al trasferimento. Osservano al riguardo (par. 23.2 della motivazione) che la mancanza di un tale onere equivarrebbe, nella pratica, a svuotare di effettività l’intero sistema di distribuzione del carico dei richiedenti asilo tra gli Stati membri come disciplinato dal Regolamento Dublino, perché imporrebbe sempre e comunque alle autorità amministrativa e giurisdizionale italiane di derogare ai criteri ordinari di competenza, dato che esse sono sempre tenute a esaminare d’ufficio la questione della sussistenza o meno del diritto alla protezione complementare[6].
Le Sezioni unite si interrogano anche (par. 17 della motivazione) sugli elementi deducibili dal ricorrente in sede d’impugnazione della decisione di trasferimento, con particolare riguardo agli elementi sopravvenuti a tale decisione[7], e richiamano in proposito la giurisprudenza della CGUE, per la quale il giudice dell’impugnazione del trasferimento deve poter tenere conto di circostanze determinanti sopravvenute alla decisione di trasferimento, salvo che la normativa nazionale preveda un mezzo di ricorso specifico, implicante un esame ex nunc della situazione dell’interessato, esperibile a seguito del verificarsi di siffatte circostanze.
A tale principio, certamente e comunque vincolante per il giudice nazionale, ci sembra, peraltro, che l’ordinamento italiano già si conformi.
La giurisprudenza, invero, riconosce da sempre alle parti processuali la facoltà di dedurre, finanche nel giudizio di rinvio (giudizio “chiuso” per eccellenza), i fatti modificativi, impeditivi o estintivi del diritto fatto valere in giudizio sopraggiunti nel corso del giudizio stesso[8]. Sembra allora appropriato osservare che oggetto del giudizio d’impugnazione della decisione di trasferimento è il corrispondente potere dello Stato di adottare una tale decisione; tale potere, però, a nostro avviso e per quanto sin qui osservato, viene meno allorché sopraggiungano fatti che giustifichino il riconoscimento, in favore dell’interessato, di forme di protezione complementare previste dall’ordinamento italiano, ma non anche da quello dello Stato membro richiesto della presa o ripresa in carico del richiedente asilo. Tali fatti, pertanto, si configurano appunto come fatti estintivi[9] del potere statuale oggetto del giudizio. La verifica della loro sussistenza e del conseguente diritto dell’impugnante a una tale forma di protezione complementare deve essere effettuata, dal giudice dell’impugnazione del trasferimento, in via di accertamento incidentale al solo fine di decidere sul trasferimento stesso, salva la decisione finale, con efficacia di giudicato, sulla spettanza di tale protezione, che verrà assunta successivamente nella sede propria del procedimento di riconoscimento del diritto alla protezione internazionale.
Il diritto del richiedente asilo alla protezione internazionale e il potere dello Stato di trasferirlo presso un altro Stato membro dell’Unione europea, tenuto a prenderlo o riprenderlo in carico, integrano infatti distinte, ancorché connesse, situazioni giuridiche soggettive, oggetto di distinti rapporti giuridici e di appositi procedimenti amministrativi[10], nonché – soprattutto – di distinti e appositi procedimenti giurisdizionali in sede d’impugnazione, legati da un nesso di pregiudizialità sotto il profilo che qui rileva. Il giudice del processo pregiudicato d’impugnazione della decisione di trasferimento risolverà, quindi, in via meramente incidentale la questione pregiudiziale (in senso tecnico-giuridico) relativa alla spettanza o meno al richiedente asilo di un diritto di protezione complementare, proprio dell’ordinamento italiano e non dello Stato membro competente, i cui presupposti fattuali risultino acquisiti in giudizio.
Può aggiungersi che, nell’ordine di idee qui seguito, oggetto del procedimento instaurato con la domanda di protezione internazionale dal richiedente, il cui trasferimento presso lo Stato membro competente secondo i criteri del Regolamento Dublino sia stato escluso dalla Unità Dublino o sia stato annullato dal giudice in sede d’impugnazione della decisione di trasferimento, è l’intera domanda di protezione, sotto tutti i profili dedotti inclusi lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria, nonostante il trasferimento sia stato negato (dall’Unità Dublino) o annullato (dal tribunale) per la sola ragione che esso avrebbe precluso il riconoscimento di una forma di protezione complementare esclusiva dell’ordinamento italiano. La domanda di protezione internazionale, infatti, è unica e va sempre esaminata nella sua totalità, non essendone del resto previsto o consentito il frazionamento. Ciò significa che la Commissione per la protezione internazionale o, in sede di ricorso, il tribunale, ben potranno, anche nell’ipotesi in esame, riconoscere al richiedente lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria, il cui diritto risulti dimostrato, con conseguente assorbimento della questione relativa alla protezione complementare, che, pure, aveva costituito la ragione del mancato trasferimento.
Tale conclusione, infine, non dovrebbe trovare ostacolo nell’eventuale precedente rigetto della domanda di protezione internazionale da parte delle autorità dello Stato membro competente. Nessuna norma, infatti, impone alle autorità italiane di rispettare le decisioni dello Stato membro competente, in virtù appunto della clausola discrezionale di cui all’art. 17, par. 1, del Regolamento Dublino III; e neppure sarebbe vincolante, come cosa giudicata, la stessa decisione di rigetto adottata dal giudice dello Stato membro competente, per l’evidente difetto del presupposto soggettivo del giudicato, essendo stata parte del giudizio l’autorità amministrativa di quello Stato e non l’autorità italiana.
[1] Art. 3, comma 3, d.lgs. 28 gennaio 2008, n. 25.
[2] Per il quale «In qualsiasi momento gli Stati membri possono decidere di rilasciare per motivi caritatevoli, umanitari o di altra natura un permesso di soggiorno autonomo o un’altra autorizzazione che conferisca il diritto di soggiornare a un cittadino di un paese terzo il cui soggiorno nel loro territorio è irregolare».
[3] Per una panoramica sugli istituti di protezione complementare negli Stati europei v. Colombo, E. Maseti Zannini, L’esame della domanda di protezione umanitaria e speciale, in Casebook in materia di protezione internazionale, Università di Trento e Scuola Superiore della Magistratura, 2021, pag. 219 ss. https://www.fricore.eu/sites/default/files/content/materials/casebook_protezione_internazionale_revisione_finale_ssm_def_r_0.pdf
[4] Cfr., per tutte, Cass. Sez. unite 9 settembre 2021, n. 24413 e Sez. I 23 febbraio 2018, n. 4455.
[5] Si veda in proposito la giurisprudenza di legittimità e costituzionale richiamata nella sentenza in rassegna ai paragrafi 21.2, 21.3 e 21.4.
[6] Artt. 32, comma 3, e 35 bis, comma 1, d.lgs. 286/1998.
[7] Questione nella quale sembra implicito il riferimento alla protezione speciale per integrazione sociale sopravvenuta nelle more del giudizio d’impugnazione, come suggerito anche dal richiamo (al par. 23.4, in fine, della motivazione della sentenza in rassegna) al «mero passaggio del tempo» (con chiaro riferimento all’argomento della peculiarità dei giudizi di cui trattasi, sospesi per tre o quattro anni in attesa della decisione della CGUE sulla questione pregiudiziale poi definita con la sentenza del 30 novembre 2023, utilizzato dalla Prima Sezione nell’ordinanza interlocutoria e riportato nella parte finale del par. 11 della sentenza): trascorrere del tempo ritenuto non già irrilevante, bensì insufficiente «disancorato com’è dalla deduzione di qualsiasi elemento relativo alla vicenda personale del richiedente asilo». Gli elementi sopravvenuti relativi alla vicenda personale del richiedente asilo – evidentemente svoltasi in Italia – sarebbero stati dunque rilevanti, ove dedotti.
[8] Cfr., tra le tante, Cass. 23 agosto 2021, n. 23316; 22 marzo 2013, n. 7301; 24 febbraio 2004, n. 3621; 15 gennaio 1990, n. 116; 14 maggio 1983, n. 3312.
[9] O fatti impeditivi, se già verificatisi alla data della decisione di trasferimento.
[10] Procedimenti amministrativi peraltro ricostruiti dalle Sezioni unite, nell’ordinanza 30 marzo 2018, n. 8044, come fasi di un unico procedimento iniziato con la domanda di protezione internazionale. Il che nulla toglie all’autonomia, sia pure nella connessione, dei due (sub)procedimenti intesi, rispettivamente, alla decisione sul trasferimento e alla decisione di merito sulla domanda di protezione internazionale, i quali si svolgono anche davanti ad autorità diverse: l’Unità Dublino, il primo, e la competente Commissione territoriale per la protezione internazionale, il secondo.