Magistratura democratica
Leggi e istituzioni

Stato costituzionale e ruolo della giurisdizione. Il giudice quale primo critico della legge *

di Simone Spina
giudice del Tribunale di Siena

Mentre negli stati privi di Costituzione il rapporto tra il giudice e la legge consiste nell’assoluta e incondizionata fedeltà del primo alla seconda, con la comparsa delle Costituzioni rigide mutano la struttura stessa del diritto e il ruolo istituzionale della giurisdizione: la legge, infatti, si subordina al progetto giuridico formulato nelle Carte costituzionali e il rapporto tra legge e giudice non è più di acritica e incondizionata soggezione del secondo alla prima, quale che ne sia il contenuto, ma diviene piuttosto soggezione del giudice anzitutto alla Costituzione e, così, alla legge solo se costituzionalmente valida. In uno stato costituzionale, allora, se di incondizionata fedeltà alla legge del giudice vuol parlarsi, lo si può fare soltanto rispetto alle leggi costituzionali, sulla cui base il giudice ha il dovere giuridico di valutare criticamente tutte le leggi che è chiamato ad applicare e, ove le ritenga in contrasto con la Costituzione, di sospenderne l’applicazione, investendo la Corte costituzionale del relativo giudizio.

Sommario: 1. Gli Stati costituzionali di diritto quali ordinamenti articolati su due livelli normativi e di legalità. / 2. Gli Stati di diritto privi di Costituzione rigida quali ordinamenti articolati su un solo livello normativo e di legalità. / 3. Associazione nazionale magistrati e doveri del giudice nello Stato costituzionale: il Congresso di Gardone del 1965. / 4. Potere limitato e logica dello Stato di diritto: costituzionalismo vs. assolutismo. / 5. Il mutato rapporto tra legge e giudice nello Stato costituzionale: dall’obbligo di applicare la legge al potere-dovere di sospenderne l’applicazione. / 6. Il ruolo istituzionale della giurisdizione negli Stati costituzionali: il giudice quale primo critico del diritto prodotto dal legislatore.

 

1. Gli Stati costituzionali di diritto quali ordinamenti articolati su due livelli normativi e di legalità

Il ruolo istituzionale della giurisdizione è intimamente legato e connesso alla struttura stessa dell’ordinamento normativo e alla presenza o meno, in esso, di una Costituzione rigida posta al vertice dell’ordinamento medesimo. Di talché, mutando la struttura dell’ordinamento normativo, sono destinati a mutare anche il ruolo stesso della giurisdizione e il rapporto tra legge e giudice[1].

Ecco perché, nel riflettere sul ruolo della giurisdizione nel costituzionalismo moderno, non può che prendersi le mosse dall’analisi di quegli ordinamenti complessi, quali sono gli odierni stati di diritto dotati di Costituzione rigida, che a livello di struttura sono articolati non su uno, ma su due livelli di legalità: il livello della legalità ordinaria e il livello della legalità costituzionale[2].

In questi ordinamenti, proprio alla luce di questo duplice livello di legalità, tutti i fenomeni normativi possono infatti essere riguardati, simultaneamente, o come atti normativi o, per altro verso, come norme[3].

Precisamente, le norme appartenenti ai livelli normativi inferiori, come le norme di legge, possono essere riguardate come atti rispetto alle norme di livello superiore, quali sono le norme costituzionali, che ne regolano la produzione e ne fissano i limiti di sostanza e contenuto.

Inversamente, gli atti normativi appartenenti al livello normativo superiore, qual è quello della legalità costituzionale, possono venire in rilievo, altresì, come norme rispetto agli atti normativi inferiori che compongono la legalità costituzionale, dei quali regolano la produzione e disciplinano i limiti di sostanza e contenuto.

Grazie all’esistenza di questi due livelli normativi di legalità, può quindi accadere che, entro lo stesso discorso sul diritto, si possano operare affermazioni opposte intorno al medesimo fenomeno normativo, a seconda che lo si guardi o dal punto di vista delle norme di livello superiore, ossia dal punto di vista della legalità costituzionale, oppure da quello delle norme di livello inferiore, ossia dal punto di vista della legalità ordinaria. 

È così, ad esempio, che entro il medesimo discorso sul diritto può affermarsi, al contempo, che tutte le manifestazioni di pensiero sono permesse da una norma costituzionale e, insieme, che non tutte lo sono, essendo talune proibite come reati dal codice penale e, quindi, da norme di rango legislativo.

Ed è così che, sempre all’interno dello stesso discorso sul diritto, può ancora affermarsi che tutti i diritti soggettivi, in base ad un’altra norma costituzionale, sono azionabili in giudizio e, al contempo, che non tutti lo sono, non essendo state previste, per taluni di essi, le norme legislative sulla loro giustiziabilità processuale.

Nel primo caso si è in presenza di una contraddizione tra norme, cioè un’antinomia.

Nel secondo caso, invece, ci si trova davanti a un’incompletezza ovvero a una mancanza di norme, ossia a una lacuna.

Ogni qualvolta l’interprete, nell’oggetto del suo discorso, enuncia la presenza di un’antinomia o di una lacuna, assume l’una e l’altra come problemi, dei quali si chiede e impone una soluzione che non riproduca, all’interno del suo stesso discorso, quella contraddizione o quell’incompletezza.

 

2. Gli Stati di diritto privi di Costituzione rigida quali ordinamenti articolati su un solo livello normativo e di legalità

Ebbene, là dove l’ordinamento oggetto d’indagine sia dotato di un solo ed unico livello normativo, come avveniva per gli Stati di diritto ottocenteschi privi di Costituzione rigida, questa soluzione è sicuramente agevole da rinvenire.

In questo caso, infatti, non potendo la legge ordinaria imporre alcunché al legislatore ordinario, l’interprete può procedere a risolvere, in piena autonomia, tutte le possibili antinomie che rileva come presenti nel discorso del legislatore, ossia nell’insieme delle norme appartenenti al solo ed unico livello normativo presente nell’ordinamento, sulla base dei due classici criteri della prevalenza della norma speciale su quella generale e di quella successiva su quella antecedente.

È chiaro, peraltro, che anche in questi ordinamenti, ossia negli Stati di diritto privi di una Costituzione rigida, esistono dei dislivelli: come quelli tra legge e giurisdizione, tra legge e amministrazione, tra legge e negoziazione dei privati.

Ma in questi casi non si pongono affatto problemi di divaricazione tra livelli normativi diversi, per due ragioni distinte.

Innanzitutto, poiché per sentenze, provvedimenti amministrativi e negozi -ossia per gli atti generati dalla giurisdizione, dall’amministrazione e dalla negoziazione tra privati- non si pone nessun problema di divaricazione normativa, giacché quand’anche essi vengano presi in considerazione dall’interprete, lo saranno appunto quali «violazioni» della legge, siccome tali destinate all’annullamento o ad altre forme di rimozione o invalidazione, senza che tali atti possano servire da fondamento a proposizioni in contraddizione con quelle fondate sulla legge medesima.

In altri termini, là dove lo sguardo sia rivolto a una sentenza ingiusta, a un atto amministrativo illegittimo o a un negozio invalido perché nullo o annullabile, tali atti non saranno mai di per sé assunti, da parte dell’interprete, come in grado di incidere e mutare norme appartenenti al livello della legge, rispetto alle quali essi, pertanto, continueranno ad essere riguardati esclusivamente come atti invalidi.

Questi atti, in secondo luogo, non sono poi istituzionalmente destinati ad essere fatti oggetto di ulteriore «applicazione», ma soltanto ad essere eseguiti o adempiuti, gli stessi consistendo non in norme generali e astratte, bensì in precetti singolari.

Tali atti, quindi, non sono geneticamente destinati ad entrare a far parte dell’universo che compone il livello normativo della legalità, tanto più se ritenuti invalidi.

 

3. Associazione nazionale magistrati e doveri del giudice nello Stato costituzionale: il Congresso di Gardone del 1965

In ordinamenti nei quali la legalità è, invece, articolata su più livelli normativi, come in quelli dotati di Costituzione rigida e di controllo accentrato di costituzionalità secondo il modello dello stato costituzionale di diritto, la soluzione del conflitto tra norme di livello diverso produce «vizi giuridici», ossia violazioni delle norme di livello superiore da parte degli atti di livello inferiore, non risolvibili mediante gli ordinari criteri cronologico e di specialità.

Più in particolare, le antinomie e le lacune predicabili rispetto a norme di grado sopra-ordinato sono vizi per commissione di norme invalide e, rispettivamente, per omissione di norme di attuazione, vizi che in entrambi i casi generano obblighi di «riparazione» in capo alle autorità competenti: vuoi tramite rimozione della norma inferiore indebitamente esistente, come avviene mediante sentenze dichiarative d’incostituzionalità, che dall’ordinamento giuridico espellono una norma legislativa invalida perché presente nel livello della legalità ordinaria, nonostante il suo contrasto con norme appartenenti alla legalità costituzionale; vuoi tramite l’introduzione della norma indebitamente inesistente, come accade con le pronunce d’incostituzionalità cd. additive, che nell’ordinamento introducono una norma legislativa indebitamente assente, perché mai prevista e prodotta dal legislatore.

È certamente possibile ridurre, in sede di interpretazione e quantomeno in parte, l’esistenza di questo diverso tipo di vizi: associando alle norme di livello inferiore significati quanto più compatibili con quelle di livello superiore e ricercando, nell’ordinamento, ogni soluzione in grado di superare la rilevata incompletezza, mediante ricorso agli strumenti ermeneutici consentiti nell’ambito del settore del diritto oggetto di interpretazione, quali, ad esempio, l’analogia o i principi generali.

È questa, d’altro canto, la strada maestra indicata dall’Associazione nazionale magistrati nella mozione finale del XII Congresso nazionale, svoltosi a Brescia-Gardone Riviera-Salò dal 25 al 28 settembre 1965[4], in cui si è affermato che spetta «al giudice, in posizione di imparzialità e indipendenza nei confronti di ogni organizzazione politica e di ogni centro di potere… interpretare tutte le leggi in conformità ai principi contenuti nella Costituzione, che rappresentano i nuovi principi fondamentali dell’ordinamento giuridico statuale»[5].

In quello stesso Congresso, l’Associazione nazionale magistrati ha peraltro aggiunto che, sempre al giudice, spetta il compito di «applicare direttamente le norme della Costituzione, quando ciò sia tecnicamente possibile in relazione al fatto concreto controverso [e di] rinviare all’esame della Corte costituzionale, anche d’ufficio, le leggi che non si prestino ad essere ricondotte, nel momento interpretativo, al dettato costituzionale».

Sempre l’Anm, inoltre, si è in quel Congresso dichiarata decisamente contraria «alla concezione che pretende di ridurre l’interpretazione ad una attività puramente formalistica indifferente al contenuto ed all’incidenza concreta della norma nella vita del Paese», unanimemente affermando che «il giudice, all’opposto, deve essere consapevole della portata politico-costituzionale della propria funzione di garanzia, così da assicurare, pur negli invalicabili confini della sua subordinazione alla legge, una applicazione della norma conforme alle finalità fondamentali volute dalla Costituzione».

 

4. La limitazione di ogni potere quale logica dello Stato di diritto: costituzionalismo vs. assolutismo

Ora, l’esistenza di una virtuale divaricazione tra il «dover essere» costituzionale del diritto, fissato dal livello superiore della cd. legalità costituzionale, e il suo «essere» legislativo, in cui consiste il livello inferiore della cd. legalità ordinaria, è cosa piuttosto recente nella storia giuridica.

Negli stati assoluti, infatti, il diritto si identificava esclusivamente con «quod principi placuit», ossia con le meta-norme sulla produzione normativa che definiscono l’identità del sovrano, ossia «chi» è il principe, e che stabiliscono «come» si manifesta «quod principi placuit», ossia i requisiti formali che consentono di identificare il diritto applicabile perché vigente[6].

Negli stati di diritto dotati di Costituzione rigida, invece, le norme appartenenti al livello della legalità costituzionale non si limitano a dettare le condizioni e i requisiti formali che consentono di riconoscere come diritto vigente «quod principi placuit», ma stabiliscono anche «che cosa» al principe «non deve dispiacere» e «che cosa» al principe «non deve piacere»: cioè i diritti inviolabili e libertà fondamentali dei cittadini, la cui garanzia è condizione di validità delle norme da lui prodotte.  

Il cuore di questa idea, che corrisponde alla logica stessa dello stato di diritto quale tecnica organizzativa basata sulla limitazione di ogni potere, si può in effetti rinvenire già nella Magna Charta Libertatum del 1215, il cui articolo 61 così stabilisce: «Et nos nichil impetrabimus ab aliquo… per quod aliqua istarum concessionum et libertatum revocetur vel minuatur; et, si aliquid tale impetratum fuerit, irritum sit et inane…»[7].

Sin dalla Magna Charta, in altri termini, i diritti e le libertà fondamentali costituiscono, propriamente, dei limiti al potere del sovrano; al punto che, là dove tali libertà e diritti dovessero venire compressi o diminuiti ad opera di norme stabilite dal sovrano, allora queste ultime si dovranno considerare «nulle e invalide», secondo quel che per l’appunto recita l’articolo 61 della Magna Charta.

Uno dei temi e problemi principali del costituzionalismo, tuttavia, risiede nella possibilità stessa di dichiarare come «nulla e invalida» una legge, perché in contrasto con i diritti e le libertà stabilite affermate da una Carta dei diritti.

Il tema, più in particolare, si risolve nell’individuazione e istituzione di un apposito organo e potere, possibilmente diverso da quello che la legge ha emanato, che di questa sia tenuto a valutare e giudicare la compatibilità con i diritti e le libertà stabiliti da una Carta superiore.

E pur tuttavia, anche là dove quest’organo sia stato identificato e istituito, resta il fatto che, in uno stato di diritto a base costituzionale, quasi mai può dirsi che una legge diversa dalla Costituzione sia certamente valida o certamente invalida, giacché i parametri costituzionali sulla cui scorta operare tale giudizio, i quale espressamente proclamano valori quali libertà e diritti, consistono per lo più in disposizioni vaghe, indeterminate e valutativamente connotate.

Ogni giudizio di validità o d’invalidità di una norma legislativa, proprio perché operato sulla base dei valori incorporati e proclamati da norme superiori[8], può così essere più o meno opinabile e, per la maggior parte dei casi, non potrà mai dirsi di per sé certo e scontato.  

Cionondimeno, tratto peculiare e caratteristico così del costituzionalismo moderno, come degli Stati costituzionali di diritto, resta precisamente il fatto che una norma di legge, benché vigente e formalmente valida, possa essere sostanzialmente invalida, e dunque illegittima, per contrasto del suo contenuto normativo con le norme costituzionali ad essa sovraordinate, quali sono quelle che proclamano i diritti e le libertà fondamentali.

 

5. Il mutato rapporto tra legge e giudice nello Stato costituzionale: dall’obbligo di applicare la legge al potere-dovere di sospenderne l’applicazione

La coesistenza di due livelli di legalità, quali sono quello della legalità costituzionale e quello della legalità ordinaria, muta perciò lo statuto di validità delle norme appartenenti al livello della legalità ordinaria, dato che il livello della legalità costituzionale vincola, di queste ultime, anche la sostanza, cioè i loro contenuti e significati, alla coerenza con i principi, i diritti e le libertà fondamentali sanciti e proclamati dalla Costituzione.

Ed è per questo che, se di fedeltà o soggezione alla legge del giudice vuol parlarsi, in uno Stato costituzionale di diritto, lo si può ancora fare soltanto rispetto alle leggi costituzionali, sulla cui base il giudice ha infatti non già la semplice facoltà, ma piuttosto il dovere giuridico di valutare criticamente le leggi ordinarie vigenti che è chiamato ad applicare[9], sospendendone l’applicazione nel concreto giudizio ove le valuti prima facie incostituzionali[10] e devolvendo ad un diverso organo costituzionale, qual è Corte costituzionale, la decisione nel merito della rilevata questione di costituzionalità.

Il moderno costituzionalismo giuridico, in altri termini, ha messo fine all’operatività di quel tradizionale dogma, corrispondente ad un vero e proprio postulato per teorici del diritto come Jeremy Bentham, Herbert Hart e Hans Kelsen[11], qual è quello dell’assoluta fedeltà del giudice alla legge e dall’esistenza di un incondizionato obbligo giuridico del primo di applicare la seconda.

Questo dogma aveva retto e governato, specie negli Stati di diritto dell’Ottocento e del primo Novecento, lo stesso modo di concepire il lavoro del giudice, così come aveva caratterizzato e colorato il rapporto tra la legge e il giudice.

Ebbene, l’introduzione delle Costituzioni rigide, avvenuta nella seconda metà del Novecento, scardina in radice quel dogma e muta irreversibilmente quel rapporto: giacché ogni qual volta una legge vigente venga sospettata d’invalidità sostanziale, per contrasto del suo contenuto normativo con le norme costituzionali ad essa sovraordinate, per il giudice non può che venir meno l’obbligo giuridico di applicarla, una volta che di quella legge egli abbia verificato l’impossibilità di trovare un significato adeguato e conforme a Costituzione. 

In tal caso, se non si trattasse di un dovere dipendente dal giudizio d’invalidità che essi sono chiamati a operare, si dovrebbe piuttosto dire, in effetti, che proprio i giudici sono i primi ad essere obbligati e tenuti a non applicare una legge sospettata d’invalidità costituzionale. 

Ad ogni modo, è proprio poiché i giudici hanno il potere di interpretare le leggi, e di sospenderne così l’applicazione ove le ritengano invalide per contrasto con la Costituzione, che a rigore, negli Stati costituzionali di diritto, non può più affermarsi che essi, prim’ancora che di una legge abbiano valutato la conformità a Costituzione, abbiano l’obbligo giuridico di applicarla[12].

 

6. Il ruolo istituzionale della giurisdizione nello Stato costituzionale: il giudice quale primo critico del diritto prodotto dal legislatore

L’introduzione negli ordinamenti normativi delle Costituzioni rigide, allora, immuta non soltanto la natura e la struttura del diritto, di cui vengono positivizzate le scelte costituzionali cui le norme legislative devono uniformarsi, ma anche il piano della sua applicazione giurisdizionale, che risulta in tal modo propriamente soggetta alla legge soltanto se ritenuta costituzionalmente valida.

Nello stato costituzionale di diritto, dotato di una Costituzione rigida perché al vertice della gerarchia delle fonti, le leggi sono perciò sottoposte non solo a norme formali sulla loro produzione, che disciplinano il «chi» e il «come» delle decisioni legislative, ma anche a norme sostanziali sul loro contenuto e significato, ossia a norme che stabiliscono cosa dal legislatore «non può essere deciso» e cosa dal legislatore «non può non essere deciso» e, quindi, quel che dal legislatore «deve essere deciso».

La possibile esistenza di norme di legge invalide e illegittime, perché in contrasto con i principi, i diritti e le libertà fondamentali incorporate nelle Costituzioni e stabilite al livello della legalità costituzionale, muta così il rapporto tra il giudice e la legge: che non è più di soggezione acritica e incondizionata del primo alla seconda, quale che sia il suo contenuto, ma diviene piuttosto soggezione del giudice anzitutto alla Costituzione e, di riflesso, alla legge solo se, da questi, sia ritenuta costituzionalmente valida.

A tale mutamente seguono, poi, due ulteriori acquisizioni, che contraddistinguono l’interpretazione e l’applicazione giudiziaria della legge nello stato costituzionale di diritto[13], quale peculiare modello di organizzazione dei pubblici poteri e di valorizzazione della supremazia dei diritti e delle libertà sancite in una Costituzione rigida.

L’applicazione giudiziaria della legge, innanzitutto, implica sempre, da parte del giudice, una valutazione critica sulla validità costituzionale della legge medesima, che lo stesso è chiamato a compiere alla luce dei principi e valori sanciti dalla Costituzione. Sicché, è ben possibile affermare che ogni applicazione giudiziaria di una legge, per un giudice, è al contempo un giudizio sulla validità costituzionale della legge medesima. 

Sempre sul giudice, per altro verso, grava poi non già la mera facoltà, ma piuttosto il dovere giuridico di censurare come invalida, perché ritenuta incostituzionale, la legge che sarebbe tenuto ad applicare in seno ad un giudizio, sospendendone l’applicazione giudiziaria e devolvendo ad altro organo giurisdizionale, qual è la Corte costituzionale, il merito di questo giudizio, là dove della legge medesima non possa dare un’interpretazione costituzionalmente conforme.

In ciò risiede, precisamente, il senso profondo del moderno costituzionalismo e il mutato ruolo che la giurisdizione assume in uno stato costituzionale di diritto, all’interno del quale il legislatore stesso risulta ancorato e subordinato ai principi costituzionali, a loro volta positivizzati in quei patti di convivenza, sovraordinati a qualunque potere, che sono le odierne Costituzioni rigide.

Tutto il diritto, in altri termini, per essere valido sostanzialmente, oltre che formalmente, deve oggi essere compatibile con i principi di giustizia incorporati in quelle norme di diritto positivo, sovraordinate a tutte le altre, che sono i principi costituzionali.

La politica resta, in ogni caso, la fonte e il motore della produzione giuridica, attuata mediante la creazione e previsione di norme di legge, destinate a comporre il livello della legalità ordinaria.

Ma essa si subordina al progetto giuridico formulato dalle Costituzioni rigide, con l’effetto che il potere legislativo, espressione della sovranità popolare, non è più, come prima, un potere sciolto da ogni vincolo e libero nella determinazione dei fini e degli scopi da perseguire, ma è anch’esso divenuto, oggigiorno, un potere limitato perché soggetto ai limiti fissati dalle Carte costituzionali[14].

Grazie alla rigidità delle Costituzioni, la divaricazione tra «dover essere» costituzionale del diritto e il suo «essere» legislativo è infatti penetrata all’interno dello stesso ordinamento normativo, quale virtuale contrasto tra Costituzione e norme di legge, tra legalità costituzionale e legalità ordinaria.

Ed è proprio per questo che cambia, di conseguenza, anche il rapporto tra il giudice e la legge.

Il giudice, certo, rimane sempre sottoposto alla legge, come ribadito anche dalla nostra Costituzione all’articolo 101: là dove, però, il concetto di soggezione del primo alla seconda gravita tutto intorno alla parola «soltanto». Il principio costituzionale di soggezione del giudice «soltanto» alla legge, da questo punto di vista, esprime infatti null’altro che la collocazione istituzionale del giudice e, più in generale, della giurisdizione: «esterna» ai soggetti in causa e al sistema politico, nonché «estranea» agli interessi particolari dei primi e a quelli generali del secondo, non dovendo il giudice avere alcun interesse, né generale né particolare, all’una o all’altra soluzione della causa o della controversia che è chiamato a decidere[15].

Ma, diversamente che nel passato, oggi il giudice è anche gravato, sul piano istituzionale, del dovere di controllare la costituzionalità di tutte le leggi ordinarie che è chiamato ad applicare nel corso di un giudizio, ossia di vagliare la presenza di contrasti non palesemente infondati tra legge e Costituzione, ad esito del quale vaglio, in capo al medesimo, sorgono peraltro gli ulteriori doveri di non applicare la legge medesima e di devolvere la questione della compatibilità di essa con la Costituzione al giudice costituzionale, il quale è a sua volta dotato del potere-dovere di dichiarare l’illegittimità di tale legge, ove ne accerti il contrasto con norme costituzionali.

Il costituzionalismo giuridico e la legalità costituzionale hanno, in tal modo, aperto un autonomo spazio di valutazione critica nei confronti delle leggi e del diritto prodotto dal legislatore, da parte di chi, come il giudice, rappresenta il solo e unico organo che può attivare il controllo di costituzionalità delle leggi, sottoponendo al giudizio della Corte costituzionale una questione di costituzionalità.

Uno spazio critico nei confronti delle leggi ordinarie non più rimesso, come negli Stati pre-costituzionali, al punto di vista «esterno» al diritto, cioè alla critica etica o politica delle leggi vigenti, ma divenuto piuttosto un punto di vista critico «interno» allo stesso diritto positivo, per tale ragione corrispondente ad un dovere propriamente giuridico in capo a chi, istituzionalmente, tale critica è chiamato a svolgere.

Un punto di vista critico che corrisponde, in altri termini, al punto di vista della legalità costituzionale e che alla giurisdizione risulta imposto, sul piano istituzionale, proprio dalla presenza di una Costituzione rigida posta al vertice dell’ordinamento, insieme alla necessità di prendere sul serio i principi, i diritti e le libertà fondamentali in quest’ultima stabiliti.

Un punto di vista, in definitiva, che al giudice consegna il compito di esercitare una costante valutazione delle leggi ordinarie, operata indossando le lenti critiche costituite dalle norme costituzionali, e che fa della giurisdizione il luogo privilegiato di affermazione così della Carta costituzionale come della sua superiorità gerarchica nell’ordinamento, che sarebbe di contro negata e disattesa, qualora il giudice restasse ancorato al paradigma, pre-costituzionale, dell’acritica e incondizionata soggezione alla legge, anche là dove di questa sospetti il contrasto con la Costituzione e con i diritti, le libertà e i principi fondamentali in essa sanciti.

 


 
[1] Sul rapporto tra giudice, legislatore e Costituzione cfr. A. Pace, Metodi interpretativi e costituzionalismo, in Quaderni costituzionali, vol. 1, 2001, pp. 35-62. Sul rapporto tra l’interpretazione della Costituzione e la concezione del ruolo, del valore e della funzione di una Costituzione cfr. L. Gianformaggio, L’interpretazione della Costituzione tra applicazione di regole e argomentazione basata su principi (1985), in E. Diciotti e V. Velluzzi (a cura di), Filosofia del diritto e ragionamento giuridico, Torino, 2008, pp. 173-204.

[2] Quella di seguito proposta è la prospettiva teorica adottata da Luigi Ferrajoli in Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Roma-Bari, 1989, nonché in Principia Iuris. Teoria del diritto e della democrazia, vol. I, Teoria del diritto, Roma-Bari, 2007 e, da ultimo, in Giustizia e politica. Crisi e rifondazione del garantismo penale, Roma-Bari, 2024.

[3] In questo senso, cfr. L. Ferrajoli, Principia Iuris. Teoria del diritto e della democrazia, Teoria del diritto, cit., p. 12. Cfr. altresì Id., Diritto e ragione, cit., p. 912: «“Diritto come norma” e “diritto come fatto” sono le contrapposte divise dei due principali orientamenti – il normativismo e il realismo – nei quali si divide la teoria del diritto contemporanea.  In realtà… norma e fatto, normatività ed effettività sono meglio concepibili come i due punti di vista, parziali e complementari, dai quali può essere guardato ogni fenomeno giuridico normativo. Ciascuno di questi – almeno negli ordinamenti minimamente complessi, e tipicamente in quelli propri dello stato di diritto – è insieme norma, rispetto ai fatti (anche normativi) che esso regola, e fatto (anche se normativo) rispetto alle norme che lo regolano. Conseguentemente… “diritto vigente” non coincide con “diritto valido”: è vigente, anche se invalida, una norma effettiva che non ottempera tutte le norme che regolano la sua produzione. Né coincide, d’altra parte, con “diritto effettivo”: è vigente, anche se ineffettiva, una norma valida non ottemperata dalle norme di cui regola la produzione».

[4] Si veda il testo della mozione approvata in Associazione Nazionale Magistrati, XII congresso nazionale, Brescia-Gardone, 28-29 IX 1965, Atti e commenti, Roma, 1965.

[5] L’interpretazione cd. costituzionalmente conforme o adeguata, dopo essere stata proclamata per la prima volta, quale canone ermeneutico principe dell’interpretazione giudiziaria, proprio dall’Anm, è in seguito penetrata anche nel giudizio di costituzionalità, avendo la Consulta, in un primo momento, affermato che «in linea di principio, le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne), ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali» (così Corte cost., sentenza n. 356 del 1996, § 4 del Considerato in diritto); ed avendo, la stessa Corte costituzionale, successivamente ridimensionato tale orientamento, là dove inteso quale rigido onere motivazionale posto in capo al giudice a quo ai fini dell’ammissibilità del sindacato della Corte, con la precisazione secondo cui tale orientamento «non significa che, ove sia improbabile o difficile prospettarne un’interpretazione costituzionalmente orientata, la questione non debba essere scrutinata nel merito» (così Corte cost., sentenza n. 42 del 2017, § 2 del Considerato in diritto; ma prima ancora, sulla stessa scia, cfr. già Corte cost., sentenza n. 221 del 2015, § 3.3 del Considerato in diritto).

[6] Cfr., in questi termini, L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 917.

[7] «Noi non faremo nulla… perché alcuna parte di queste libertà sia revocata o diminuita; e se una tal cosa si dovesse verificare, dovrà essere considerata nulla e invalida…».

[8] Cfr. in tema G. Pino, Diritti e interpretazione. Il ragionamento giuridico nello Stato costituzionale, Bologna, 2010, p. 130 s.: «Dissipiamo subito un possibile equivoco: il problema, qui, non è che simili disposizioni costituzionali presuppongono valori, o che in generale il diritto dello Stato costituzionale contiene valori. Banalmente, che una disposizione giuridica presupponga valori morali e scelte ideologico-politiche, è sempre vero, e non riesco ad immaginare come potrebbe essere altrimenti. L’aspetto importante è che queste disposizioni costituzionali non si limitano a presupporre valori, ma piuttosto formulano valori, li proclamano espressamente. Ora, se una disposizione proclama espressamente un valore, anziché presupporlo, questo fa una differenza ovvia» (corsivi dell’Autore).

[9] Cfr. sul punto la legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1 (Norme sui giudizi di legittimità costituzionale e sulle garanzie d'indipendenza della Corte Costituzionale), secondo cui la questione di costituzionalità di una legge o di un atto avente forza di legge della Repubblica, da parte del giudice, non già «può» ma piuttosto «è» (e quindi: «deve essere») rimessa alla Corte costituzionale, per la sua decisione, anche «d’ufficio», là dove il giudice stesso non la ritenga «manifestamente», e quindi palesemente, «infondata».

[10] Cfr. sul punto l’art. 23, co.2 e 3 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), secondo cui ove l’autorità giurisdizionale non ritenga manifestamente e palesemente infondata una questione di legittimità costituzionale, che abbia rilievo nello specifico giudizio davanti alla stessa in corso, «sospende» quest’ultimo, dunque l’applicazione giudiziaria della legge, e dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.

[11] Cfr. J. Bentham, A Fragment on Government, or a Comment on the Commentaries (1776), in Works of Jeremy Bentham, New York, 1962, cap. IV, pp. 283 ss.; H. Kelsen, General Theory of Law and State (1945), tr.it. di S. Cotta e G. Treves, Teoria generale del diritto e dello stato, Milano, 1959, pp. 59 e 62; H.L.A. Hart, The Concept of Law (1961), tr.it. di M. A. Cattaneo, Il concetto di diritto, Torino, 1965, p. 236.

[12] In questo senso, cfr. L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 914. Sempre sul tema, cfr. altresì G. Borré, Magistratura e Costituzione. Dalla continuità al nuovo, in Storia e memoria, vol. 2, 1993, p. 9: «… il giudice, a differenza di altri soggetti e in particolare della pubblica amministrazione, non è tenuto all’osservanza della legge che egli sospetta di incostituzionalità, potendo e dovendo rifiutare la propria funzione finché la Corte costituzionale, che egli solo ha il potere di investire, non si pronunci sul punto. La giurisdizione diventa costì un luogo privilegiato di resistenza alle violazioni della Costituzione e ciò è sicuramente un fattore di crescita dell’indipendenza della magistratura».

[13] Sul ragionamento giuridico nello Stato costituzionale, in generale, cfr. G. Pino, Diritti e interpretazione, cit.

[14] Emblematico, sotto questo profilo, è l’articolo 1 della Costituzione repubblicana, là dove per un verso si sancisce che la sovranità appartiene al popolo e, per altro verso, si chiarisce che l’esercizio della stessa è non soltanto condizionato dal rispetto delle forme fissate dalla Costituzione, quali sono le norme costituzionali che istituiscono i diversi poteri pubblici e fissano gli ambiti di competenza di ciascuno di essi, ma è anche e soprattutto subordinato ai «limiti della Costituzione», quali sono i diritti e le libertà che la stessa riconosce e garantisce.

[15] Cfr. sul punto L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 592, nonché G. Borré, Indipendenza e politicità della magistratura, in P. L. Zanchetta (a cura di), Governo e autogoverno della magistratura nell’Europa occidentale, Milano, 1987, pp. 145 ss. e Id., Magistratura e Costituzione, cit., p. 10: «Il principio costituzionale secondo cui “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”… non è la riedizione del vecchio mito illuministico della subalternità del giudice alla legge… Se così fosse, infatti, la formula direbbe “i giudici sono soggetti alla legge”, mentre l’art. 101 della Costituzione contiene in più la parola “soltanto”, che dà alla frase non un significato di conformità, di adeguamento, ma piuttosto la forza di una provocazione polemica. Che i giudici siano non semplicemente soggetti alla legge, ma soltanto ad essa soggetti, significa che la fedeltà alla legge è anzitutto “cultura della disobbedienza”. Disobbedienza a tutto ciò che la legge non è: e dunque, in primo luogo, ai poteri dominanti, politici o economici, pubblici o privati che essi siano; alle improprie gerarchie interne allo stesso apparato giurisdizionale; e infine alla giurisdizione di vertice, se essa sia mediamente non condivisa. In questa luce, la fedeltà alla legge diventa un elemento non di passività, ma di responsabile scelta ispirata ai valori della Costituzione e al principio pluralistico, fuori del quale non sarebbe concepibile la stessa indipendenza della magistratura».

[*]

Testo, riveduto e ampliato, della relazione tenuta al convegno Le strade per andare a Corte, svoltosi al Palazzo di giustizia di Firenze, il 18 novembre 2024

03/12/2024
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