1. Per un certo periodo eclissata dal confronto sui profili teorici e sulle questioni applicative connessi alle novità normative – prima l’inedita causa archiviativa della particolare tenuità del fatto introdotta dal d.lgs. n. 28 del 2015, in seguito la riformulazione della tradizionale causa dell’infondatezza della notizia di reato, ad opera della “riforma Cartabia” – l’archiviazione per prescrizione del reato è tornata di recente oggetto del dibattito giuridico, confermandosi istituto controverso, bifronte, meritevole di una più puntuale attenzione legislativa, alla luce anche del rinnovato panorama normativo in cui oggi si inserisce.
A produrre tale riaffiorare carsico, l’eccezione di illegittimità costituzionale sollevata dal tribunale di Lecce a carico dell’art. 411 comma 1-bis c.p.p., là dove non prevede nell’ipotesi di richiesta di archiviazione per estinzione del reato motivata da intervenuta prescrizione, così come avviene invece quando è motivata dalla particolare tenuità del fatto, l’obbligo per il p.m. di darne avviso alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa, estendendo a tale evenienza anche la possibilità di attivare il reclamo di cui all’art. 410-bis c.p.p. per denunciare la nullità del provvedimento archiviativo qualora non sia stato assicurato il predetto avviso.
Nella adozione di un decreto di archiviazione che dichiara estinto il reato per sopraggiunta prescrizione – come avvenuto nella vicenda giudiziaria da cui è scaturita l’eccezione di illegittimità costituzionale, relativa a un magistrato accusato di corruzione in atti giudiziari – senza che l’ordinamento preveda «alcun onere informativo dell’indagato sulla determinazione conclusiva assunta dal pubblico ministero e, conseguentemente, alcuna sanzione per la mancata interlocuzione»[1], il giudice a quo ravvisava un vulnus a una triade di disposizioni di rango costituzionale. L’omissione dell’avviso, essenziale al fine di consentire all’indagato di rinunciare al beneficio della prescrizione nell’intento di ottenere in giudizio una pronuncia sul merito degli addebiti oggetto del procedimento, violerebbe intanto l’art. 3 Cost., delineandosi una «disparità di trattamento rispetto a chi ben può agevolmente avvalersi del diritto di rinuncia alla prescrizione soltanto perché la maturazione della causa estintiva casualmente coincide con una diversa fase processuale»; il riferimento è all’imputato, il quale – rileva l’ordinanza rimettente – «può rinunciare alla prescrizione in corso di giudizio», come pure «in caso di sentenza emessa de plano ha diritto a far valere la rinuncia con l’impugnazione della sentenza». In secondo luogo, lederebbe l’art. 24 comma 2 Cost., in quanto la determinazione dell’accusato in materia di prescrizione rientra in «una precisa scelta processuale dell’imputato/indagato formulabile in ogni stato e grado del processo ed esplicativa del proprio inviolabile diritto di difesa inteso come diritto al giudizio e con esso (…) alla prova». Infine, confliggerebbe con l’art. 111 commi 2 e 3 Cost., risultando eluso «il contraddittorio con l’indagato necessario ad assicurargli la piena facoltà di esercitare i suoi diritti, tra cui quello alla rinuncia alla prescrizione».
Pur consapevole che la soluzione prefigurata non possa dirsi costituzionalmente obbligata, e che ben potrebbe il legislatore «articolare anche diversamente l’ipotesi in esame», il giudice a quo identificava nella disposizione dell’art. 411 comma 1-bis c.p.p. «un preciso punto di riferimento (…) in grado di orientare l’intervento della Corte costituzionale» e ravvisava nella sua estensione al caso di specie «la soluzione normativa (…) più adeguata e congeniale con il sistema vigente».
2. Gli auspici del ricorrente a favore di una pronuncia additiva sono stati disattesi dalla Corte costituzionale. La sentenza n. 41 del 2024 ha dichiarato, infatti, infondate le questioni sollevate, al termine di un articolato ragionamento, guidato dalla premessa – come si vedrà opinabile – di doversi confrontare con un dato normativo «non (…) conclusivo in un senso o nell’altro», oltre che con un «quadro» giurisprudenziale «se possibile ancora più sfocato».
È in uno scenario così ricostruito che la Corte costituzionale si appresta, «per la prima volta», a «valutare se i parametri costituzionali evocati dal rimettente – e cioè il diritto alla difesa in giudizio e al contraddittorio, oltre che l’eguaglianza di trattamento tra imputato e indagato – impongano di estendere anche a quest’ultimo il diritto già riconosciuto all’imputato dalla sentenza n. 275 del 1990». Il riferimento è alla sentenza con cui, collocandosi nel solco del proprio "dirompente" precedente in materia di amnistia[2], il Giudice delle leggi rimproverava all’art. 157 c.p. nella formulazione allora vigente, dichiarandola perciò illegittima in parte qua, di «non tenere conto del carattere inviolabile del diritto alla difesa, inteso come diritto al giudizio e con esso (…) alla prova», irragionevolmente pregiudicato dall’interesse statuale a non perseguire più il reato – «sorto a causa di circostanze eterogenee e comunque non dominabili dalle parti» – compromettendo così «l’interesse sostanziale dell’imputato ad una sentenza di merito».
Ritiene la Corte che la necessità di tutelare «il diritto alla piena integrità dell’onore e della reputazione» ottenendo una pronuncia pienamente liberatoria, che dimostri «l’effettiva estraneità (…) all’accusa»[3] – riconosciuto dalla propria giurisprudenza e alla base della riscrittura dell’art. 157 c.p. ad opera della legge n. 251 del 2005 – esista soltanto in capo all’imputato: è dinanzi al «pregiudizio rappresentato da un’accusa formalizzata nei suoi confronti», che l’interessato deve essere posto nella condizione di rinunciare al proscioglimento per prescrizione del reato per esercitare in giudizio il diritto di difendersi provando, adducendo in giudizio prove a discarico, oltre che contrastando quelle su cui si fonda l’imputazione. Un’analoga necessità, e dunque un simmetrico diritto costituzionale alla rinuncia, non si rinviene, invece, con riguardo alla persona sottoposta alle indagini: l’archiviazione per intervenuta prescrizione sarebbe infatti «provvedimento “neutro”», chiamato «a dare atto dell’avvenuto decorso del tempo necessario a prescrivere, senza esprimere alcuna valutazione sulla effettiva commissione del fatto di reato» oggetto dell’iscrizione nel registro delle notizie di reato. A sua volta, anch’essa costituisce per la Corte «atto neutro, dal quale sarebbe affatto indebito far discendere effetti lesivi della reputazione dell’interessato»[4], come d’altronde riconosce, con riferimento ai possibili riflessi civili o amministrativi dell’iscrizione, la precisazione introdotta nell’art. 335-bis c.p.p. dalla recente “riforma Cartabia”.
3. Non sussiste un tale obbligo costituzionalmente imposto – fa osservare la Corte – neppure là dove, come accaduto nel caso di specie, il decreto che dispone l’archiviazione per intervenuta prescrizione, anziché limitarsi a dare atto dell’avvenuto decorso del lasso temporale, si spinga a formulare «apprezzamenti sulla fondatezza della notitia criminis» ricalcati sul contenuto della richiesta inoltrata dal p.m., dando conto del «riscontro probatorio» offerto all’ipotesi di reato da «una serie di elementi documentali, captativi e dichiarativi». Si tratta di un fuor d’opera irrispettoso del self-restraint argomentativo gravante sul g.i.p. a tutela del diritto di difesa e del diritto al contraddittorio, che la Corte costituzionale condivisibilmente stigmatizza: la sentenza riconosce il «carattere del tutto indebito» in questa sede di valutazioni relative alla colpevolezza, espresse sulla base di elementi unilateralmente raccolti, che l’accusato non avrebbe alcuna opportunità di confutare, e impegna l’ordinamento ad apprestare adeguato rimedio a tale «specifica patologia», come condizione di «sostenibilità costituzionale del delicato bilanciamento tra opposti interessi cristallizzato nel vigente ordinamento processuale».
Nondimeno, il rimedio a quella «specifica patologia» non può essere individuato, afferma la pronuncia, nella rinuncia alla prescrizione, ma deve essere offerto «per altra via». Pur ritenendo che la sua individuazione competa alla giurisprudenza di legittimità, la Corte ricava dal sistema più di una opzione: non solo provvedimenti di archiviazione privi del carattere di neutralità, in grado di produrre gravi pregiudizi alla reputazione, alla vita privata, sociale, professionale delle persone interessate, potrebbero dar luogo a responsabilità civile e disciplinare nei confronti del magistrato, ricorrendo i presupposti previsti dalle leggi n. 117 del 1988 e dal d. lgs. n. 109 del 2006; gli stessi provvedimenti potrebbero essere qualificati come abnormi, in quanto esprimono una valutazione di colpevolezza che nel nostro sistema è invece contenuto tipico della sentenza di condanna, e dunque essere ricorribili per cassazione, applicando al caso in esame la diagnosi di abnormità che la Suprema Corte aveva formulato nei confronti di un decreto che, prima di dichiarare l’estinzione del reato per amnistia, aveva ricostruito il fatto e il ruolo avuto dagli indagati e si era diffusamente soffermato sulla qualificazione giuridica del fatto e sulla sussistenza del delitto di strage[5]. Come pure, nell’eventualità in cui – viene da precisare, rispetto a quanto emerge dalla sentenza – non solo venissero esposti nel provvedimento archiviativo gli elementi a carico raccolti in fase di indagine, ma la persona sottoposta alle indagini fosse esplicitamente indicata come colpevole, l’interessato potrebbe attivare l’istanza di correzione di cui al comma 3 dell’art. 115-bis c.p.p., introdotta dal d.lgs. n. 188 del 2021, in attuazione della direttiva europea 2016/343, a presidio della presunzione di non colpevolezza. Lo strumento potrebbe astrattamente valere sia per la richiesta di archiviazione del p.m. che per il provvedimento del g.i.p. che la ratifica: l’uno non può beneficiare dell’eccezione prevista dal comma 1, a vantaggio «degli atti del pubblico ministero volti a dimostrare la colpevolezza della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato», l’altro della possibilità per l’autorità giudiziaria di introdurre quei riferimenti alla colpevolezza della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato necessari a soddisfare i presupposti e le altre condizioni richieste per l’adozione del provvedimento, come prevede il comma 2.
Non ha torto la Corte costituzionale quando afferma che la rinuncia alla prescrizione non dovrebbe costituire il mezzo necessario attraverso cui porre rimedio a inaccettabili “esondazioni” da parte del provvedimento di archiviazione. La persona indagata «ha il pieno diritto di avvalersi (…)» della prescrizione maturata «a tutela anche del suo soggettivo interesse a essere lasciata in pace dalla pretesa punitiva statale rimasta inattiva per un rilevante lasso di tempo», osserva la sentenza, e, in effetti, il fatto che sia costretta a privarsene per contrastare un provvedimento archiviativo che indebitamente illustri gli elementi a suo carico pare eccessivo. Tuttavia, tanto più ove ciò sia avvenuto, l’interessato potrebbe vedere rafforzata l’idea di confutare quelle affermazioni nella sede pubblica del giudizio, affidando alla sentenza di assoluzione la più efficace delle smentite.
4. L’affermazione secondo cui all’indagato non vada riconosciuta la possibilità di rinunciare all’archiviazione per prescrizione che ne soddisferebbe l’«interesse morale ad una sentenza di assoluzione»[6] presuppone che si riesca a sgombrare il campo da un ostacolo normativo piuttosto robusto.
Vero è che, come attestano univoci indici testuali[7], le due precedenti decisioni del Giudice delle leggi in materia di rinuncia a prescrizione e amnistia sono «state pronunciate in riferimento a processi penali già instaurati» e che «la ratio decidendi di entrambe» è «ritagliata» su un soggetto già «formalmente accusato di un reato in giudizio». Altrettanto vero è che nell’art. 157 comma 7 c.p., «il riferimento testuale è (…) soltanto all’imputato, e dunque a colui nei cui confronti è stata esercitata l’azione penale». Nondimeno, l’art. 61 c.p.p. produce l’effetto di estendere alla persona sottoposta alle indagini quella possibilità di rinunciare all’intervenuta prescrizione del reato che dapprima la giurisprudenza costituzionale e poi il legislatore penale hanno riconosciuto all’imputato. La stessa sembra infatti potersi agevolmente collocare tra i «diritti e garanzie dell’imputato» evocati dal comma 1; e anche a non volerla ricomprendere in queste categorie, varrebbe a favore dell’estensione la norma di chiusura del comma 2, che richiama «ogni altra disposizione relativa all’imputato, salvo che sia diversamente stabilito».
Quello che sembra un argomento normativo difficilmente espugnabile a favore della tesi estensiva, eliminando sul nascere l’esigenza di ogni verifica in concreto del pregiudizio effettivo connesso all’iscrizione della notizia di reato – peraltro attualmente, ai sensi dell’art. 335 comma 1-bis c.p.p., subordinata al ricorrere di indizi a carico – viene rapidamente accantonato dalla pronuncia, sul presupposto che l’art. 61 c.p.p., in quanto «regola generale, dettata con riferimento allo specifico contesto del codice di procedura penale», non possa «essere considerata automaticamente e necessariamente trasferibile a una regola dettata dal codice penale con riferimento alla prescrizione».
Il passaggio lascia perplessi là dove nega l’automatica e necessaria trasferibilità dell’equivalenza tra indagato e imputato asserita dall’art. 61 c.p.p. a una norma penale; se intende ipotizzare una valutazione caso per caso, ne restano incerti i parametri, dal momento che l’unico impedimento individuato dalla norma predetta è l’esplicita volontà legislativa in senso contrario; il riferimento alla «regola dettata dal codice penale» lascia però pensare che, praticando una discutibile lettura «a compartimenti stagni»[8], la decisione ritenga di circoscrivere l’estensione «allo specifico contesto del codice di procedura penale», anziché configurarla quale operazione dalla portata generale, relativa a qualunque disposizione dell’ordinamento che attribuisca all’imputato diritti e facoltà, salvo espresse preclusioni, e dunque anche all’art. 157 c.p. Se così non fosse, per limitarci a un esempio, non dovremmo ritenere che operi anche per l’indagato l’art. 1 comma 7 ord. penit., che, appunto al di fuori dello «specifico contesto del codice di procedura penale», in attuazione dell’art. 27 comma 2 Cost., anch’esso testualmente dedicato “soltanto” all’imputato, prescrive che il trattamento penitenziario dell’imputato sia rigorosamente informato al rispetto della presunzione di non colpevolezza fino alla condanna definitiva.
Quanto all’osservazione, pure invocata dalla Corte a completamento del passaggio, che la prescrizione, sebbene determini l’arresto della procedibilità dell’azione penale, rappresenti, per consolidata giurisprudenza costituzionale, istituto di natura sostanziale «che incide sulla punibilità della persona, riconnettendo al decorso del tempo l’effetto di impedire l’applicazione della pena», ai fini in questione pare rilievo poco conferente. La natura sostanziale vale ad assoggettare l’istituto alla regola del tempus commissi delicti, collocandolo «nell’alveo costituzionale del principio di legalità penale sostanziale enunciato dall’art. 25 secondo comma Cost. con formula di particolare ampiezza». Un assunto da cui la giurisprudenza costituzionale ha ricavato corollari di favore nei confronti dell’accusato: l’esigenza che «la fissazione della durata del tempo di prescrizione (sia) sufficientemente determinata», come pure «la non retroattività della norma di legge che, fissando la durata del tempo di prescrizione del reato, ne allunghi il decorso ampliando in peius la perseguibilità del fatto commesso»[9]. Un assunto nel quale si stenta, tuttavia, a riconoscere un impedimento alla possibilità per l’indagato di avvalersi di una disposizione, anch’essa di favore, come quella che gli permette di scegliere se accontentarsi di una precoce conclusione del procedimento che certifichi il mero decorso del tempo disponibile per l’accertamento oppure se affrontare l’agone del giudizio, per vedere affermata la propria estraneità all’illecito prefigurato nella notitia criminis.
5. Ebbene, riconoscere all’indagato il diritto di rinunciare alla prescrizione maturata – esito che a nostro avviso il dettato nitido dell’art. 61 c.p.p. rende non eludibile – impone altresì una riflessione sulla capacità dell’ordinamento di assicurarne coerentemente l’esercizio. Se questo diritto esiste, si deve fare in modo che l’archiviazione fondata sulla intervenuta prescrizione del reato possa essere disposta solo rendendo noto prima tale possibile epilogo alla persona sottoposta alle indagini e verificando che quest’ultima non ritenga quella conclusione anticipata insoddisfacente, preferendo affrontare il processo[10].
Poco appropriata sembra la soluzione prefigurata dal giudice a quo: si tratterebbe di una estensione forzata di una disciplina inadeguata al caso di specie, giacché l’art. 411 comma 1-bis c.p.p. coinvolge entrambi i possibili controinteressati all’epilogo archiviativo fondato sulla modesta lesività, persona offesa e indagato, e prevede, a pena di inammissibilità, che gli stessi indichino le ragioni del dissenso rispetto alla conclusione anticipata del procedimento, laddove la rinuncia alla prescrizione è prerogativa del solo indagato e non esige che se ne illustrino le motivazioni.
Quanto all’attuale itinerario archiviativo, non è agevole rintracciarvi de iure condito una via interpretativa in grado di garantire che all’archiviazione per estinzione del reato si approdi soltanto qualora l’interessato sia stato messo in condizione di rifiutare consapevolmente tale epilogo e non lo abbia fatto. Nel caso in cui il g.i.p. ritenga di disporre l’udienza camerale, un sentiero potrebbe intravedersi guardando agli artt. 408 e 409 c.p.p., applicabili per espressa previsione dell’art. 411 c.p.p. anche qualora il reato risulta estinto. La possibilità per l’indagato di prendere atto che il p.m. ha sollecitato la chiusura del procedimento per il decorso dei termini di prescrizione può ricavarsi dal combinato disposto dei rispettivi periodi finali delle predette disposizioni: tra gli atti depositati in cancelleria fino al giorno dell’udienza camerale, di cui il difensore ha facoltà di prendere visione ed estrarre copia, va ricompresa, oltre al fascicolo per le indagini, la richiesta di archiviazione. Interpellato in udienza camerale dal g.i.p., l’indagato potrebbe manifestare la rinuncia alla maturata prescrizione, e si potrebbe ritenere che ciò basti per costringere quest’ultimo, ove non ravvisi più favorevoli ragioni di archiviazione, a imporre al p.m. l’esercizio dell’azione penale.
Già il fatto che questa interlocuzione preventiva sia affidata attualmente alla discrezionalità del giudice non risulta, tuttavia, appagante, potendo determinare irragionevoli disparità da caso a caso. Prima ancora, però, andrebbe impedito che il g.i.p. possa ricorrere alla procedura de plano per disporre un’archiviazione determinata dalla maturata prescrizione segnalatagli dal p.m. Ma, allo stato, tale accortezza indispensabile a garantire che l’indagato ne venga informato resta affidata alla sensibilità interpretativa del giudice; a rigore, nessun impedimento all’archiviazione per prescrizione disposta con decreto si ricava dal dettato codicistico, diversamente da quanto avviene quando la persona offesa abbia presentato opposizione ammissibile ex art. 410 c.p.p. Come pure, de iure condito, non trova un sicuro fondamento normativo il potere per il g.i.p. – preso atto della espressa rinuncia alla causa estintiva – di adottare un’ordinanza di imputazione coatta per costringere il p.m. a esercitare l’azione penale.
Preferibile, dunque, che intervenga la mano del legislatore a delineare un’apposita procedura, costruita in modo da assicurare che l’indagato nei cui confronti si prospetti una archiviazione per prescrizione possa rinunciarvi e che a tale rinuncia faccia seguito l’approdo al processo.
6. L’auspicabile rivisitazione legislativa dovrebbe, invero, cogliere l’occasione per rimuovere anche una irragionevole discrasia sistematica.
Di per sé, l’itinerario scandito per l’archiviazione fondata sulla particolare tenuità del fatto dall’art. 411 comma 1-bis c.p.p. appare di dubbia compatibilità con più di una prescrizione costituzionale: il «quantum di responsabilità»[11] che quel provvedimento archiviativo lascia sullo sfondo prescinde, infatti, dallo statuto epistemologico della prova penale sancito dall’art. 111 comma 4 Cost. e dall’esercizio del diritto di difendersi provando nelle forme del contraddittorio dibattimentale ricavabile dall’art. 24 comma 2 Cost.
Ma se anche avesse ragione chi ritiene il contraddittorio argomentativo assicurato in sede camerale sufficiente a mantenere la disciplina nel «perimetro della legalità costituzionale» – poiché «il thema decidendum è la necessità o no di esercitare l’azione penale»[12] e la decisione archiviativa «che accerta anche la fondatezza della responsabilità non ha la forza di applicare sanzioni, ma anzi l’idoneità di impedire la celebrazione dello stesso processo»[13] – permarrebbe nell’ordinamento una asimmetria censurabile ai sensi dell’art. 3 Cost.
Nella ideale gerarchia risultante dalla collazione tra l’art. 408 e l’art. 411 c.p.p., la particolare tenuità del fatto ha soppiantato l’estinzione del reato nel ruolo di formula archiviativa meno indolore e quindi meno appetibile per l’interessato: mentre quest’ultima si mantiene agnostica sulla responsabilità dell’indagato rispetto all’addebito ascritto nella notitia criminis – giacché «archiviare per estinzione del reato non comporta aver preliminarmente esplorato ed escluso la possibilità di un’archiviazione in fatto»[14] – la prima presuppone il delinearsi, ancorché sulla base degli elementi unilateralmente raccolti durante le indagini preliminari, di un fatto penalmente rilevante attribuibile al soggetto nei cui confronti si sta procedendo[15]. Implicando una valutazione articolata, che ha come premessa logica il «riconoscimento della commissione del fatto di reato», il quale resta intatto nella sua esistenza sia storica che giuridica[16], l’archiviazione ai sensi dell’art. 131-bis c.p. è destinata – unica tra i provvedimenti che ratificano la rinuncia all’azione – a lasciare traccia nel casellario giudiziale, come hanno chiarito, richiamando, oltre alla «volontà storica del legislatore», congruenti «indici normativi e sistematici», le Sezioni unite della Corte di cassazione[17].
Eppure, la causa archiviativa della prescrizione può essere oggetto di rinuncia, mentre il meno favorevole presupposto della particolare tenuità del fatto può soltanto essere contestato tramite la «modesta interlocuzione preventiva»[18] esperibile nell’udienza camerale, sul cui epilogo il g.i.p. mantiene tuttavia piena sovranità.
La rielaborazione del percorso normativo, così da rimuovere tale vistosa incoerenza sistematica, dovrebbe passare attraverso la valorizzazione della volontà dell’accusato; si potrebbe subordinare l’archiviazione per particolare tenuità del fatto al preventivo consenso dell’archiviando per particolare tenuità, obbligando altrimenti il g.i.p. a imporre al p.m. di esercitare l’azione penale; come pure, si potrebbe dotare l’archiviato ai sensi dell’art. 131-bis c.p. di uno strumento per opporsi al provvedimento, la cui mancata attivazione sarà da intendersi come consapevole acquiescenza, sul modello previsto dall’ordinamento per il decreto penale di condanna.
[1] Nel caso di specie, l’interessato era venuto a conoscenza fortuitamente della richiesta di archiviazione formulata dal p.m.: nella sua qualità di persona offesa nel procedimento per calunnia nei confronti dell’imprenditore che lo aveva accusato di corruzione in atti giudiziari aveva ricevuto notifica della richiesta di archiviazione inoltrata dal pubblico ministero, apprendendo in quella occasione della “parallela” richiesta di archiviazione che riguardava la sua posizione. Si era attivato facendo pervenire al p.m. e al g.i.p. dichiarazione di rinuncia alla prescrizione per i reati ascrittigli, chiedendo che non fosse adottato il decreto di archiviazione. Ma il p.m. gli aveva comunicato il non luogo a provvedere, essendo stato il medesimo già emesso; l’interessato aveva allora proposto reclamo ai sensi dell’art. 410-bis c.p.p. lamentando dinanzi al giudice rimettente il mancato avviso.
[2] Con la sentenza 14 luglio 1971, n. 175, il Giudice delle leggi riconosceva nitidamente «la rilevanza costituzionalmente protetta dell’interesse di chi sia perseguito penalmente a ottenere non già solo una qualsiasi sentenza che lo sottragga alla irrogazione di una pena, ma precisamente quella sentenza che nella sua formulazione documenti la non colpevolezza», ritenendo pertanto illegittimo per violazione dell’art. 24 Cost. l’obbligo per il giudice di dichiarare l’estinzione del reato in tutti i giudizi in corso al momento del sopravvenire di un provvedimento di amnistia.
[3] Ancora Corte cost., 14 luglio 1971, n. 175.
[4] Di diverso avviso risulta l’archiviato, che, costituendosi nel giudizio dinanzi alla Corte costituzionale, rilevava come i fatti a lui contestati fossero «di natura particolarmente esecrabile ed odiosa per un magistrato del suo rango e frutto di dichiarazioni false e calunniose», affermando il proprio interesse ad affrontare il giudizio per essere prosciolto nel merito. Ciò anche in relazione al procedimento disciplinare instaurato a suo carico, che – pur ormai archiviato – avrebbe «conservato l’“ombra” della prescrizione», la quale aveva inciso negativamente in sede di valutazione finalizzata alla assegnazione dell’incarico direttivo al quale il medesimo aspirava.
[5] Si tratta di Cass., 23 febbraio 1999, Bentivegna, in Cass. pen., 1999, 2865 ss.
[6] L’efficace espressione è tratta da Corte cost., 14 luglio 1971, n. 175.
[7] Come emerge dalle espressioni «giudizi in corso», «accusa contro di lui promossa», «perseguito penalmente».
[8] Così A. Marandola, Prescrizione non rinunciabile in sede d’archiviazione: una discutibile argomentazione conduce ad una dubbia conclusione, in Penale DP, 28 marzo 2024.
[9] Così Corte cost., 23 dicembre 2020, n. 278.
[10] La sentenza in commento non sembra invero preoccuparsene particolarmente neppure in riferimento all’ipotesi in cui, richiamandosi alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, ammette «che un diritto a rinunciare alla prescrizione possa (…) essere riconosciuto a chi sia stato in concreto attinto, durante le indagini preliminari da misure limitative dei propri diritti fondamentali», citando quale esempio l’eventuale applicazione della custodia cautelare; in questo caso, sulla scorta della giurisprudenza di legittimità, la Corte costituzionale reputa plausibile la rinuncia anche da parte dell’indagato, «allo scopo di conservare il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione conseguente alla custodia cautelare subita», diritto che la Suprema Corte, secondo un consolidato orientamento, non riconosce in caso di estinzione del reato per prescrizione. Nondimeno, il Giudice delle leggi ritiene che «l’introduzione di un obbligo di avviso relativo alla richiesta di archiviazione per prescrizione (…) non risulterebbe indispensabile rispetto alla finalità di permettere all’interessato di rinunciarvi, avendo egli necessariamente avuto conoscenza delle indagini nel momento stesso in cui è stato attinto dalla misura coercitiva».
[11] S. Quattrocolo, L’altra faccia della medaglia: l’impatto della particolare tenuità del fatto sul processo penale, in Criminalia, 2016, p. 225 ss.
[12] M. Daniele, L’archiviazione per tenuità del fatto fra velleità deflattive ed equilibrismi procedimentali, in S. Quattrocolo (a cura di), I nuovi epiloghi del procedimento penale per particolare tenuità del fatto, Giappichelli, 2015, p. 46.
[13] R. Aprati, Le regole processuali della dichiarazione di “particolare tenuità del fatto”, in Cass. pen., 2015, p. 1323.
[14] G. Giostra, L’archiviazione, cit., p. 57.
[15] Per la nitida affermazione secondo cui «una pronuncia di non punibilità ex art. 131-bis c.p., in qualunque fase procedimentale o processuale sia collocata, presuppone logicamente la valutazione che un reato, completo di tutti i suoi elementi oggettivi e soggettivi, sia stato commesso dalla persona sottoposta a indagini o dall’imputato» si veda la recente Corte cost., 13 giugno 2023, n. 116.
[16] Cass., sez. III, 26 maggio 2015, p.c. in proc. Sorbara, in C.e.d. Cass., n. 263885; Cass., sez. VI, 27 gennaio 2016, Carnevale, in Guida al diritto, 2016 (17), p. 63.
[17] «Il provvedimento di archiviazione per particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis c.p. deve essere iscritto nel casellario giudiziale, fermo restando che non ne deve essere fatta menzione nei certificati rilasciati a richiesta dell’interessato, del datore di lavoro e della pubblica amministrazione» (Cass., sez. un., 30 maggio 2019, p.m. in proc. De Martino, in Guida al diritto, 2019 (47), p. 64 ss.).
[18] F. Caprioli, Prime considerazioni sul proscioglimento per particolare tenuità del fatto, in Dir. pen. cont., 8 luglio 2015, p. 19.