Sommario: 1. Distinguendo. Norme incriminatrici vs. norme abrogative. / 2. Lo scrutinio di costituzionalità possibile: norma abrogativa di previgente norma incriminatrice, prodotta in condizione di carente potestà legislativa. / 3. I vincoli discendenti dagli obblighi internazionali quali limiti alla potestà legislativa dello Stato. / 4. Convenzione ONU contro la corruzione e diritto penale interno: «obligations to criminalize» e «obligations to consider criminalization». / 5. Prendere i trattati sul serio. Ovvero: quando l’obbligo di attivarsi per raggiungere uno scopo implica il divieto di sopprimere le misure che di quello scopo costituiscono diretta attuazione. / 6. La questione sollevata in riferimento al principio costituzionale di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione. Un crinale ripido e scosceso.
1. Distinguendo. Norme incriminatrici vs. norme abrogative
Il Tribunale di Firenze, con l’ordinanza qui pubblicata, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1, primo comma, lettera b) della legge 9 agosto 2024, n. 114, in riferimento, da un lato, all’articolo 97 Cost. e, dall’altro, agli articoli 11 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in riferimento agli articoli 7, paragrafo 4, 19 e 65, paragrafo 1, della Convenzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite contro la corruzione, adottata dalla Assemblea generale dell’ONU il 31 ottobre 2003 con risoluzione n. 58/4, ratificata dallo Stato italiano il 9 dicembre 2003 e resa esecutiva con legge 3 agosto 2009, n. 116[1].
La norma della cui incostituzionalità si sospetta, ove letta in combinato disposto con il primo comma del precitato articolo, così prevede: «l’articolo 323 del codice penale è abrogato».
I prospettati dubbi di conformità a Costituzione, coinvolgendo una norma abrogativa di norma incriminatrice ad essa previgente, evocano da subito la tematica dell’ammissibilità stessa di un intervento, da parte della Corte costituzionale, che determini effetti in malam partem in materia penale.
L’argomento, allora, suggerisce di spendere qualche preliminare riflessione in merito alla distinzione tra norme incriminatrici e norme abrogative, sulla loro diversa natura e sui differenti effetti giuridici che da esse discendono.
Le norme penali incriminatrici sono, infatti, tipicamente «norme regolative» della devianza punibile, ossia regole di comportamento che, quando si tratti di un reato cd. «attivo», istituiscono un divieto o una proibizione, il cui oggetto non può che essere un’azione di cui sia possibile così l’omissione come la commissione, l’una esigibile, l’altra non necessitata e perciò imputabile alla colpevolezza o responsabilità del suo autore[2].
Oltre ad istituire divieti, le norme penali incriminatrici, d’altro canto, prevedono e predeterminano pene, in via astratta, per l’ipotesi in cui tali divieti siano violati, ossia per i casi in cui le azioni proibite siano commesse.
Di tutt’altro genere e natura sono, invece, le norme abrogative, quali sono quelle aventi forma: «la disposizione n è abrogata». Esse, più in particolare, appartengono alla classe delle «norme costitutive» e, come tali, non producono alcun effetto «regolativo», nell’ordinamento giuridico: non costituiscono obblighi o divieti, non istituiscono proibizioni[3].
Delle norme abrogative, allora, non è mai predicabile né l’attuazione, né la violazione, dato che tali norme «costituiscono esse stesse il loro argomento e raggiungono il loro effetto senza la mediazione di comportamenti che possano o meno verificarsi»[4].
Le norme abrogative, quindi, se per definizione non possono istituire alcun divieto o proibizione penale, possono tuttavia avere ad oggetto norme incriminatrici, di queste ultime producendo non certo l’espulsione dall’ordinamento, che può essere conseguita soltanto per effetto di una pronuncia dichiarativa di incostituzionalità, ma piuttosto la cessazione della loro vigenza.
L’effetto specifico della norma incriminatrice, corrispondente alla vigenza nell’ordinamento di un divieto penalmente sanzionato, cessa così con l’entrata in vigore della norma abrogativa, che rende in tal modo lecite e facoltative classi di azioni prima oggetto di proibizione e punizione penale.
2. Lo scrutinio di costituzionalità possibile: norma abrogativa di previgente norma incriminatrice, prodotta in condizione di carente potestà legislativa
Ed è proprio alla consapevolezza dell’effetto da ultimo menzionato che corrisponde una delle ragioni per cui la Corte costituzionale è solita ritenere inammissibili, in via di principio, questioni di legittimità costituzionale che coinvolgano norme abrogative di una previgente norma incriminatrice e che mirino, così, al ripristino nell’ordinamento della norma incriminatrice abrogata[5].
Tale inammissibilità, più in particolare, da parte della Consulta viene costantemente ricollegata al principio «nulla poena et nullum crimen sine lege», espresso dall’art. 25 cpv. Cost., che «rimette al legislatore […] la scelta dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni da applicare»[6].
Secondo l’articolo 25 cpv. Cost., infatti, la definizione della devianza punibile corrisponde soltanto a quella formalmente indicata dalla legge o da atti ad essa equiparati come presupposto necessario dell’applicazione di una pena.
Ed è per questo che, ad organi costituzionali diversi da quelli deputati alla formazione delle leggi o degli atti ad essi equiparati, resta precluso creare nuove norme incriminatrici, ampliare il campo di applicazione di norme incriminatrici già previste dalla legge ovvero, da ultimo, aggravare le pene o il complessivo trattamento sanzionatorio ad esse collegato[7].
Con il tempo, tuttavia, la Corte costituzionale ha elaborato una serie, via via sempre più consistente, di deroghe ed eccezioni a tale principio, sino a giungere all’affermazione per cui le anzidette preclusioni non hanno e non possono avere carattere assoluto e generalizzato.
Ad opera del Giudice delle leggi, più in particolare, è stata negata l’esistenza di zone franche dell’ordinamento sottratte al controllo di costituzionalità delle leggi[8], specie là dove vengano in rilievo l’uso scorretto del potere legislativo[9], vizi formali o di incompetenza, relativi cioè al procedimento di formazione dell’atto legislativo e alla legittimazione dell’organo che lo ha adottato[10], ovvero la carenza della potestà legislativa dello Stato, in quanto condizionata dall’esistenza di obblighi internazionali che, come tali, limitano già a monte la possibilità stessa di abrogare disposizioni interne che, di quegli obblighi, costituiscano adempimento e attuazione[11].
Peraltro, la stessa natura della norma abrogativa, non idonea a produrre effetti «regolativi» e dunque non in grado di istituire divieti o proibizioni penali, rende evidente come non già di vera e propria «creazione» di nuove norme incriminatrici possa parlarsi, in riferimento ad un’eventuale pronuncia della Corte costituzionale che accerti, della norma abrogativa, il contrasto con la Costituzione e i suoi principi fondamentali.
Nessuna nuova norma incriminatrice, in altri termini, può dirsi «creata» per effetto del positivo scrutinio di costituzionalità, condotto sulla norma abrogativa ad opera dell’organo deputato al controllo di conformità a Costituzione delle leggi e degli altri atti ad esse equiparati.
Il solo e unico effetto correlato all’accertata incostituzionalità di una norma abrogativa è, piuttosto, la rinnovata vigenza della norma incriminatrice prima abrogata. Quest’ultima, come tale, non ha infatti mai cessato di «appartenere» all’ordinamento giuridico, essendo stata soltanto «compressa», nei suoi effetti «regolativi», da una norma abrogativa illegittima.
Detti effetti possono, pertanto, tornare a «riespandersi» ad esito dell’intervento con cui la Corte costituzionale accerti e dichiari che, nei confronti della norma penale incriminatrice, nessun valido fenomeno abrogativo si era mai prodotto[12].
All’esito del giudizio costituzionale, d’altro canto, spetterà soltanto al giudice rimettente valutare gli effetti, nel processo principale, delle sentenze che dichiarino incostituzionale una norma abrogativa di previgente norma incriminatrice, alla luce dei principi generali che governano la successione nel tempo delle leggi penali[13].
Lo scrutinio di merito di una questione di legittimità costituzionale, in definitiva, non può restare inibito dai possibili effetti in malam partem conseguenti al suo accoglimento, là dove la questione di costituzionalità coinvolga una norma abrogativa di previgente norma incriminatrice di cui si denunci, in particolare: (i) o che sia stata frutto di uso scorretto del potere legislativo (ii) o che sia stata prodotta in condizione di carente potestà legislativa, per l’esistenza di vincoli discendenti da obblighi internazionali contrastanti con l’effetto perseguito dalla norma abrogativa.
3. I vincoli discendenti dagli obblighi internazionali quali limiti alla potestà legislativa dello Stato
La questione di legittimità costituzionale sottoposta al giudizio della Consulta, che nel caso di specie concerne la norma con cui è stato abrogato l’articolo 323 cod. pen., rientra proprio in un caso di violazione di vincoli discendenti da obblighi internazionali, ciò che rende ammissibile, ad avviso dei giudici fiorentini, il richiesto scrutinio di costituzionalità.
Costituisce, infatti, principio dell’ordinamento giuridico italiano il rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali previsti da trattati[14] e dalla generalità del diritto internazionale pattizio, che ai sensi e nei limiti di cui all’art. 117, primo comma, Cost. vincola lo stesso potere legislativo statale e regionale[15].
Più in particolare, è noto che, a partire dalle celebri sentenze gemelle n. 348 e n. 349 del 2007, la Corte costituzionale ha fissato il principio per cui l’esercizio della potestà legislativa dello Stato e delle Regioni deve intendersi condizionato al rispetto degli obblighi internazionali.
Da questo punto di vista, è dunque lo stesso dovere di rispettare gli obblighi internazionali a incidere, globalmente e univocamente, sul contenuto della legge statale e regionale. In altre parole, l’art. 117, primo comma, della Costituzione ha istituito e creato un vero e proprio limite alla capacità di produzione normativa delle fonti legislative interne, limite corrispondente, per l’appunto, al contenuto precettivo delle norme internazionali pattizie.
L’articolo 117 co.1 Cost., in questo senso, pone al legislatore nazionale, al contempo, un dovere e un divieto, entrambi vincolanti per lo Stato italiano: il dovere di disciplinare la materia oggetto dell’obbligo internazionale contratto in maniera pienamente aderente al trattato, assieme al divieto di disciplinare siffatta materia in contrasto e difformità con quanto previsto dal trattato medesimo.
Se l’esistenza di un obbligo internazionale integra, pertanto, un generale limite all’esercizio della potestà legislativa nazionale, è del pari evidente che al legislatore interno resta pur sempre la libertà di scegliere le modalità attraverso cui dare esecuzione e attuazione al vincolo pattizio contratto.
Rimane intatta, in questo senso, la capacità del legislatore nazionale di modificare, nel tempo, la disciplina interna, purché quest’ultima resti conforme e aderente al contenuto vincolante della norma pattizia, anch’essa peraltro introdotta, nell’ordinamento interno, grazie ad un ordine di esecuzione disposto da fonte legislativa.
D’altro canto, il generale principio di conformazione del diritto interno agli obblighi internazionali discendenti da trattati o convenzioni, cui nell’ordinamento nazionale sia stata data esecuzione con legge, implica altresì costanti obblighi di adeguamento della legislazione interna al diritto internazionale pattizio, da attuarsi anche ad opera dei giudici comuni, sui quali infatti grava (i) il dovere di interpretare la norma interna in modo conforme alla norma internazionale, entro i limiti in cui ciò sia permesso dai testi delle rispettive norme, nonché (ii) l’obbligo di investire la Consulta, ove permangano dubbi di compatibilità tra norma interna e norma convenzionale, della relativa questione di legittimità costituzionale, deducendo quale parametro di riferimento proprio l’art. 117, primo comma, Cost.[16].
4. Convenzione ONU contro la corruzione e diritto penale interno: «obligations to criminalize» e «obligations to consider criminalization»
Su questa scia, il Tribunale fiorentino ha rilevato la presenza di vincoli discendenti da obblighi internazionali di natura pattizia, assunti dallo Stato italiano con l’adesione e ratifica della Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione, cui è stata data «piena e integrale» esecuzione, nell’ordinamento italiano, con legge 3 agosto 2009, n. 116.
Detta Convenzione costituisce un trattato internazionale di tipo multilaterale, composto da 71 articoli, suddivisi in otto titoli e preceduti da un preambolo[17].
Aderendo alla Convenzione ONU contro la corruzione, gli Stati nazionali hanno contratto precisi obblighi e impegni, volti ad implementare i mezzi e gli strumenti di lotta ai fenomeni corruttivi e alle molteplici forme di occulte collusioni, in seno alla pubblica amministrazione, tra interessi pubblici e interessi privati, nonché di subordinazione ai secondi dei primi, nella consapevolezza di come tali fenomeni siano in contrasto con tutti i principi dello stato di diritto e della democrazia: dal principio di legalità a quelli della pubblicità, della trasparenza, della imparzialità e della responsabilità dei pubblici poteri, fino alle regole della concorrenza sulle quali si fonda l’economia di mercato.
Quanto alla dimensione degli impegni e obblighi assunti dagli stessi, può citarsi l’intero titolo secondo della Convenzione, dedicato ad obblighi positivi di attivazione posti in capo agli Stati parte e finalizzati all’adozione, da parte degli stessi, di efficaci misure di prevenzione della corruzione, quali ad esempio la creazione di uno specifico organo anticorruzione e di codici di condotta, nonché il perseguimento di politiche favorevoli al buon governo, allo stato di diritto, alla trasparenza e alla responsabilità.
Ma quel che più interessa, ai fini della specifica questione sollevata dal Tribunale di Firenze, è certamente il titolo terzo della Convenzione, significativamente rubricato: «Criminalization and law enforcement».
In tale titolo sono previsti, in capo agli Stati parte[18], vincolanti obblighi di criminalizzazione da attuare mediante l’istituzione di specifici titoli di reato, con riferimento alle classi di fatti, tutte e ciascuna, puntualmente descritte e definite agli articoli 15, 16 par.1, 17, 23 e 25[19].
Il contenuto del vincolo pattizio, in questo caso, corrisponde allora ad una vera e propria obbligazione «di risultato».
Detti obblighi di incriminazione, peraltro, ove già attuati mediante previsione di specifici reati in relazione a ciascuno dei fatti definiti e descritti agli articoli 15, 16 par.1, 17, 23 e 25, si tramutano nei correlativi divieti di abrogazione delle disposizioni interne che quelle fattispecie incriminatrici hanno istituito, corrispondenti ad altrettanti limiti e vincoli alla potestà legislativa dello Stato italiano.
Gli Stati parte della Convenzione, nel momento in cui hanno ratificato quest’ultima, hanno infatti contratto l’obbligo di conformare i loro ordinamenti interni alle previsioni pattizie, con l’effetto che il vincolo internazionale potrà dirsi rispettato soltanto là dove siano introdotte e mantenute, nelle rispettive legislazioni nazionali, fattispecie di reato che colgano tutte le note di disvalore fissate negli articoli 15, 16 par.1, 17, 23 e 25.
La potestà legislativa interna, per quel che riguarda lo Stato italiano, risulterà allora sottoposta ad un vincolo avente duplice aspetto e profilo: un vincolo positivo, corrispondente ad un obbligo di dare attuazione alle previsioni pattizie negli esatti termini internazionalmente contratti; e un vincolo negativo, corrispondente al divieto (i) di abrogare le disposizioni interne che degli obblighi pattizi costituiscano attuazione, (ii) nonché di modificare a tal punto siffatte disposizioni interne da non potersi più dire pienamente soddisfatti gli impegni internazionali assunti.
Sempre in questo titolo terzo della Convenzione sono poi previsti, per altro verso, specifici e vincolanti obblighi, questa volta non già di risultato, ma piuttosto di positiva e concreta attivazione, da parte di ciascuno Stato parte, in ordine all’introduzione di ulteriori titoli di reato[20] che comprendano tutti i comportamenti descritti e colgano tutte le note di disvalore definite agli articoli 16 par.2, 18, 19, 20, 21, 22 e 24[21].
Il contenuto di tali vincoli pattizi, in questo secondo caso, corrisponde allora ad una obbligazione «di mezzi», contratta tuttavia in vista di un ben definito e determinato scopo, corrispondente all’implementazione, ad opera degli Stati parte, della tutela penale in materia di contrasto ai fenomeni corruttivi e alle molteplici forme di occulte collusioni, in seno alla pubblica amministrazione, fra interessi pubblici e interessi privati, nonché di illecite subordinazioni degli interessi pubblici agli interessi privati.
In altri termini, nel momento in cui ha aderito alla Convenzione, ciascuno Stato parte ha così contratto l’obbligo di positivamente attivarsi allo scopo di introdurre, nel proprio ordinamento interno, fattispecie di reato che colgano tutte le note di disvalore emergenti dagli articoli 16 par.2, 18, 19, 20, 21, 22 e 24.
Da questo punto di vista, allora, se il risultato conformativo delle legislazioni nazionali non corrisponde all’oggetto del vincolo pattizio, v’è da riconoscere che il positivo vincolo di attivarsi allo scopo di implementare le legislazioni penali degli Stati parte resta, tuttavia, ben chiarito e definito ad opera della Convenzione, che pone infatti a questi ultimi un obbligo non già di attivazione purchessia, bensì uno specifico dovere di mettere in atto seri e concreti sforzi volti al conseguimento di uno specifico risultato, qual è l’introduzione di reati che proibiscano e puniscano i fatti puntualmente descritti dagli articoli 16 par.2, 18, 19, 20, 21, 22 e 24.
5. Prendere i trattati sul serio. Ovvero: quando l’obbligo di attivarsi per raggiungere uno scopo implica il divieto di sopprimere le misure che di quello scopo costituiscono diretta attuazione
Rispetto a tutte le classi di fatti descritti agli articoli da 15 a 25 della Convenzione, è d’altra parte pacifico che, in capo a ciascuno Stato parte, sorgano non già mere e semplici «facoltà», ma piuttosto veri e propri «obblighi» internazionali, accomunati tutti dalla prospettiva di un generale avanzamento della tutela penale in materia di contrasto alla corruzione e ai fenomeni ad essa affini, come si ricava: (i) dal fatto che, là dove un senso non obbligatorio ma soltanto facoltizzante si è inteso dare a certi contenuti pattizi, si sono in effetti usati termini direttamente evocativi di facoltà[22]; (ii) dalla formulazione testuale costantemente utilizzata in ciascuno degli articoli predetti[23]; (iii) da quanto previsto agli articoli 4 e 65 della Convenzione medesima, là dove si fa espresso riferimento ad «obligations under this Convention», ossia a veri e propri obblighi discendenti da siffatta Convenzione, che ogni Stato parte «shall carry out»[24].
L’articolo 4 della Convenzione, più in particolare, così prevede: «States Parties shall carry out their obligations under this Convention in a manner consistent with the principles of sovereign equality and territorial integrity of States and that of non-intervention in the domestic affairs of other States»[25].
L’articolo 65 della Convenzione, per altro verso, così invece stabilisce: «Each State Party shall take the necessary measures, including legislative and administrative measures, in accordance with fundamental principles of its domestic law, to ensure the implementation of its obligations under this Convention».
Ancora. L’articolo 44 della Convenzione, ai paragrafi 1, 2 e 3, nel mentre in cui impone, a ciascuno Stato parte, obblighi in materia di estradizione, si riferisce unitariamente ai «reati previsti in accordo con la presente Convenzione»[26], con ciò confermando tanto il carattere di veri e propri «reati» di tutti i fatti descritti agli articoli da 15 a 25, quanto l’assenza di una discriminazione o distinzione interna tra gli stessi, essendo infatti tutti oggetto di «obligations» gravanti sugli Stati parte.
Per corrispondere pienamente agli specifici obblighi e alle puntuali esigenze di tutela postulate dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione è quindi necessario, da un lato, che ciascuno Stato parte introduca espressamente, nel proprio diritto nazionale, specifiche incriminazioni riferite agli atti e comportamenti descritti agli articoli 15, 16 par.1, 17, 23 e 25 della Convenzione medesima, mediante formulazione di fattispecie tipiche che colgano tutte le note di disvalore dagli stessi emergenti.
Dall’altro lato, tuttavia, è altresì necessario che ciascuno Stato parte si attivi positivamente al fine di introdurre, nel proprio ordinamento nazionale, specifiche incriminazioni riferite agli atti e comportamenti puntualmente descritti agli articoli 16 par.2, 18, 19, 20, 21, 22 e 24 della Convenzione medesima, a tal fine impegnandosi in reali e concreti sforzi attuativi e non già limitandosi a soltanto valutare l’eventuale ipotesi di allineare la propria legislazione domestica alle fattispecie convenzionalmente descritte negli articoli predetti.
Similmente a quanto previsto per i reati descritti agli articoli 16 par.2, 18, 20, 21, 22 e 24, anche con riferimento al reato denominato «Abuse of functions» la Convenzione ha previsto uno specifico e vincolante obbligo, da attuarsi ad opera di ciascuno Stato parte mediante sforzi reali e avente a oggetto il tentativo di introduzione, nei vari ordinamenti nazionali, di una specifica incriminazione che proibisca e punisca, come reato, i fatti descritti all’articolo 19, che così prevede: «Each State Party shall consider adopting such legislative and other measures as may be necessary to establish as a criminal offence, when committed intentionally, the abuse of functions or position, that is, the performance of or failure to perform an act, in violation of laws, by a public official in the discharge of his or her functions, for the purpose of obtaining an undue advantage for himself or herself or for another person or entity[27]».
Il contenuto di un fatto di «Abuse of functions», da questo punto di vista, coincide innanzitutto con l’abuso delle funzioni pubbliche o della posizione di pubblico ufficiale, ossia con un atto attivo ovvero con un’omessa astensione, l’uno e l’altra posti in essere in violazione di norme legge.
Il soggetto agente, d’altra parte, deve necessariamente essere un funzionario pubblico o, comunque, un agente delle pubbliche istituzioni, ossia qualsiasi persona che detenga un mandato legislativo, esecutivo, amministrativo o giudiziario, ovvero che eserciti una pubblica funzione, anche per un organismo pubblico o una pubblica impresa, o che fornisca un pubblico servizio o, comunque, ogni altra persona definita quale «pubblico ufficiale» nel diritto interno di uno Stato parte[28].
Quanto al coefficiente psicologico, il fatto di «Abuse of functions» è non soltanto doloso ma più propriamente intenzionale, dal suo perimetro applicativo dovendosi pertanto escludere tanto le condotte colpose, quanto quelle commesse con dolo cd. diretto o eventuale.
Nell’«Abuse of functions», inoltre, le condotte di abuso, vuoi della funzione vuoi della stessa qualifica/posizione del pubblico ufficiale, si colorano di illiceità ove commesse al precipuo scopo di ottenere un indebito vantaggio per se stessi o, alternativamente, per altra e diversa persona, anche se non fisica ma soltanto giuridica.
Alla luce di ciò, proprio nell’abrogato articolo 323 del codice penale, che istituiva il delitto di «abuso d’ufficio», i giudici fiorentini intravedono la previsione legislativa nazionale costituente diretta concretizzazione dell’«obligation to consider criminalization» di cui all’articolo 19 della Convenzione ONU contro la corruzione.
D’altra parte, se l’introduzione negli ordinamenti nazionali di specifiche fattispecie di reato, qual è quella prevista dall’art. 19 in tema di «Abuse of functions», è oggetto di veri e propri obblighi, declinati in termini di «obligations to consider criminalization», di siffatti obblighi ben può allora predicarsi tanto l’inosservanza, che può assumere la forma dell’originaria inerzia e inadempienza del singolo Stato parte, quanto la violazione, che si verifica là dove ad essere frustrato sia lo scopo collegato a tali obblighi dalla Convenzione, qual è quello di vedere via via sempre più implementate, e non certo ridotte o abrogate, le fattispecie penali poste a contrasto di fenomeni corruttivi e assimilati.
In altre parole, se il contenuto di un obbligo declinato in termini di «obligation to consider criminalization», qual è quello previsto dalla Convenzione in tema di «Abuse of functions», implica che gli Stati parte debbano concretamente attivarsi per introdurre norme incriminatrici, così da adeguare i rispettivi ordinamenti nazionali a puntuali e specifiche previsioni pattizie, di questo obbligo costituirà allora un’evidente violazione l’intervento legislativo nazionale con cui si abroghi la norma incriminatrice interna che, prevedendo uno specifico titolo di reato nei suoi tratti essenziali corrispondente all’«Abuse of functions», abbia reso così l’ordinamento interno conforme a previsioni di rango internazionale.
Il Tribunale fiorentino, da questo punto di vista, mette peraltro opportunamente in luce uno strumento che, seppur non dotato di forza autoritativa, è in grado di fornire utili chiavi interpretative della Convenzione, onde così ricostruire la portata degli obblighi che gravano sugli Stati parte, in riferimento ai reati previsti così dall’art. 19, in tema di «Abuse of functions», come dagli articoli 16 par.2, 18, 20, 21, 22 e 24. Questo strumento corrisponde alla Legislative guide for the implementation of the United Nations Convention against Corruption, elaborata dall’Organizzazione delle Nazioni Unite e ormai giunta, nell’anno 2012, alla sua seconda versione[29].
Secondo questa Legislative guide of the UNCAC, ciascuno Stato parte è tenuto a istituire, nel proprio ordinamento interno, una complessiva serie di reati là dove questi ivi non esistano e, ove siano già previsti, è invece obbligato a conformare e adeguare le relative fattispecie incriminatrici alle note di disvalore previste dalla Convenzione[30], il tutto all’insegna di una graduale e progressiva implementazione delle misure legislative volte a contrastare i fenomeni corruttivi e assimilati[31].
Scopo e intento della Convenzione ONU contro la corruzione è, in effetti, proprio quello di armonizzare e implementare le legislazioni penali interne dei singoli Stati parte, di modo che queste ultime arrivino a via via comprendere e prevedere tutti i reati previsti dalla Convenzione medesima: sia quelli appartenenti alla classe oggetto di «obligations to criminalize», sia quelli appartenenti alla classe oggetto di «obligations to consider criminalization»[32].
Quel che differisce, invece, tra le due classi di reati individuate dalla Convenzione è che mentre la prima classe, comprensiva dei fatti descritti agli articoli 15, 16 par.1, 17, 23 e 25, rappresenta un nucleo minimo di tutela penale, che gli Stati parte devono pertanto da subito includere e prevedere nelle rispettive legislazioni domestiche, la seconda classe di fatti, ossia quelli previsti dagli articoli 16 par.2, 18, 19, 20, 21, 22 e 24, costituisce invece un orizzonte di tutela più avanzato, di per sé comunque fatto oggetto di precisi obblighi di concreta e positiva attivazione, gravanti in capo a ciascuno Stato, in vista del raggiungimento di tale più ampio orizzonte di tutela.
E allora, mutuando il titolo di un celebre libro di Ronald Dworkin[33], se si vuole prendere davvero sul serio i trattati e, più in generale, i vincoli discendenti dal diritto internazionale pattizio, degli obblighi internazionali contratti dagli Stati nazionali non può operarsi alcun indebito décalage, favorendone interpretazioni in termini di mere e semplici facoltà.
Ad imporre, anzi, così al legislatore come all’interprete, di prendere sul serio il diritto internazionale pattizio è lo stesso principio di cui all’articolo 117, primo comma, della Costituzione, che consente di escludere e respingere, come inammissibile, l’idea che gli obblighi internazionali corrispondano a semplici flatus vocis e che gli impegni assunti dagli Stati, benché positivamente esistenti, siano privi di qualsiasi efficacia vincolante.
Prendere sul serio i trattati e il diritto internazionale pattizio, in definitiva, significa riconoscere che agli obblighi internazionali di positiva attivazione, finalizzati al raggiungimento di specifici scopi e risultati, non possano che corrispondere correlativi doveri, in capo agli Stati medesimi, di non vanificare quegli sforzi a suo tempo dagli stessi già messi in atto, abrogando norme che, proprio di quegli scopi, rappresentino la diretta attuazione.
Ecco perché, nel momento in cui è stata introdotta, nell’ordinamento nazionale, una norma che ha abrogato il reato di abuso d’ufficio, il legislatore nazionale ha agito in condizione di carente potestà legislativa, giacché quell’abrogazione gli era inibita e preclusa dall’esistenza di vincoli internazionali cogenti, stabiliti da una Convenzione internazionale, ratificata e resa esecutiva con legge statale.
6. La questione sollevata in riferimento al principio costituzionale di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione. Un crinale ripido e scosceso
Evidenziati i termini della questione sollevata in riferimento all’articolo 117, primo comma, Cost., per violazione dei vincoli internazionali gravanti sul legislatore statale, i giudici fiorentini si soffermano, infine, sull’esame di una seconda questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1, comma primo, lettera b) della legge 9 agosto 2024, n. 114: quella sollevata in riferimento ai principi di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione, letti e riguardati anche alla luce del principio-valore di ragionevolezza, anch’esso implicitamente evocato nella motivazione. Il Tribunale di Firenze, infatti, con una serrata e fitta serie di argomenti, cui non può qui che rinviarsi per l’estrema densità e precisione che li contraddistingue[34], giunge a denunciare gli esiti manifestamente e intrinsecamente irragionevoli dell’intervento legislativo con cui è stata disposta l’abrogazione del delitto di abuso di ufficio[35].
Gli argomenti spesi dai giudici fiorentini, più in particolare, ruotano intorno a due assi.
Un primo gruppo di argomenti è volto ad evidenziare come l’intervento legislativo della cui costituzionalità si dubita abbia una portata radicalmente diversa, dal punto di vista qualitativo, rispetto ai numerosi interventi che, nel corso degli anni, hanno riguardato l’art. 323 cod. pen.[36], essendosi con esso disposta non già la semplice modifica di un delitto pur destinato a restare vigente nell’ordinamento penale, ma piuttosto l’integrale eliminazione di quest’ultimo, quale autonomo titolo di reato, dall’ordinamento giuridico[37].
Appartengono a questo primo gruppo di argomenti, peraltro, considerazioni di natura sistematica che il Tribunale di Firenze svolge, in maniera approfondita, con riferimento ad altre fattispecie appartenenti alla costellazione dei reati contro la pubblica amministrazione.
Al Giudice delle leggi, poi, viene consegnato un secondo gruppo di argomenti, nel complesso diretti a mostrare come, a fronte dell’abrogazione del reato di abuso di ufficio, nessun altro mezzo di tutela sia stato previsto dal legislatore, che ha così lasciato gravemente insoddisfatte e completamente vulnerate le esigenze costituzionali di tutela correlate a valori fondamentali quali sono l’imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione[38].
Nessun illecito di altro tipo, nessuna sanzione di diverso genere sono mai stati configurati, infatti, per le ipotesi, oggi rimaste pressoché prive di efficaci sanzioni, in cui un pubblico ufficiale che versi in situazione di conflitto di interessi ometta di astenersi dall’adottare una decisione pubblica ovvero per l’ipotesi in cui lo stesso pubblico ufficiale usi, violando norme legislative, il potere dalla legge medesima conferitogli per compiere deliberati favoritismi e procurare ingiusti vantaggi, oppure per realizzare intenzionali vessazioni o discriminazioni e procurare, così, ingiusti danni a terzi.
L’ammissibilità della questione, per vero, corrisponde ad un crinale assai ripido e scosceso da percorrere, inclinato com’è dal peso della costante giurisprudenza costituzionale, che ha sin qui sempre dichiarato inammissibili tutte le questioni di costituzionalità delle norme modificative dell’art. 323 cod. pen., sollevate in riferimento agli articoli 3 e 97 della Costituzione[39].
In pronunce adottate su questioni aventi ad oggetto l’art. 323 cod. pen. e quali parametri gli artt. 3 e 97 Cost., la Consulta ha avuto infatti modo di affermare che: (i) spetta al solo legislatore individuare i beni da tutelare mediante la sanzione penale e le condotte, lesive di tali beni, da assoggettare a pena[40]; (ii) al legislatore non si può addebitare di avere omesso di sanzionare penalmente determinate condotte, in ipotesi socialmente riprovevoli o dannose, o anche illecite sotto altro profilo, giacché tale eventuale addebito non potrebbe tradursi in una censura di legittimità costituzionale della legge[41]; (iii) manca la base legale, costituzionalmente necessaria, dell’incriminazione, cioè della scelta legislativa di considerare certe condotte come penalmente perseguibili; (iv) a sovvertire i precedenti argomenti (i), (ii) e (iii) non varrebbe evocare un ipotetico pregiudizio che potrebbe discendere a beni costituzionalmente tutelati, quali l’imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione, peraltro evocati dall’art. 97 della Costituzione in relazione alla organizzazione dei pubblici uffici[42].
Non mancano, tuttavia, margini e spazi per operare uno scrutinio di merito anche con riferimento al parametro costituzionale costituito dall’art. 97 Cost., sol che si pensi, da un lato, che l’ammissione di tale questione può schiudersi ove si ritenga fondata quella, logicamente pregiudiziale, sollevata con riferimento alla violazione dei vincoli discendenti da obblighi internazionali, e dall’altro ove si consideri l’assoluta unicità, rispetto ai menzionati precedenti, della questione oggi sottoposta al vaglio della Corte costituzionale.
[1] D’ora in avanti, anche «Convenzione ONU contro la corruzione» o «Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione» o, più semplicemente, «Convenzione».
[2] Su questa definizione di norma regolativa, cfr. L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Roma-Bari, 1989, p. 7; cfr. altresì ibidem, p. 45, nota 3: «“regolativa”… è ogni norma che regola un comportamento, cioè lo qualifica deonticamente come permesso o come vietato o come obbligatorio, condizionando la produzione degli effetti giuridici da essa previsti alla sua commissione od omissione» (corsivo dell’Autore).
[3] Su questa definizione di norma costitutiva, cfr. L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 45, nota 3: «“costitutiva”… è ogni norma che costituisce essa immediatamente – cioè senza la mediazione di comportamenti che ne siano l’osservanza o l’inosservanza – effetti e/o qualificazioni giuridiche» (corsivo dell’Autore). Più in generale, sulla distinzione tra «norme regolative» e «norme costitutive», cfr. in primo luogo: J.R. Searle, How to Derive ‘Ought’ from ‘Is’ (1964), trad. it. Come dedurre ‘deve’ da ‘è’, in R. Guastini (a cura di), Problemi di teoria del diritto, Bologna, 1980, pp. 155-168, in particolare p. 166; nonché J.R. Searle, Speech Acts. An Essay in the Philosophy of Language (1969), trad. it., Atti linguistici. Saggio di filosofia del linguaggio, Torino, 1976, pp. 61 ss. e 238 ss.; A. Ross, On Law and Justice (1958), trad. it. di G. Gavazzi, Diritto e giustizia, Torino, 1965, pp. 13-19; Id., Directives and Norms (1968), trad. it. di M. Jori, Direttive e norme, Milano, 1978, pp. 109-114; K. Olivecrona, Rättsordningen (1971), trad. it. di E. Pattaro, La struttura dell’ordinamento giuridico, Milano, 1972, pp. 244-262. Sulle norme costitutive, in particolare, cfr. G. Carcaterra, Le norme costitutive, Milano, 1974; Id., La forza costitutiva delle norme, Roma, 1979; Id., Lezioni di filosofia del diritto. Teoria del diritto positivo. Fondazione dei valori etici, Roma, 1994; N. Bobbio, Norma, in Enciclopedia Einaudi, Torino, 1980, p. 898; A.G. Conte, Paradigmi d’analisi della regola in Wittgenstein, in R. Egidi (a cura di), Wittgenstein. Momenti di una critica del sapere, Napoli, 1983, pp. 37-82; Id., Regola costitutiva, condizione, antinomia, in U. Scarpelli (a cura di), La teoria generale del diritto. Problemi e tendenze attuali. Studi dedicati a Norberto Bobbio, Milano, 1983, pp. 21-39; A.G. Conte, Materiali per una tipologia delle regole, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 1985, pp. 345-368; R. Guastini, Cognitivismo ludico e regole costitutive, in U. Scarpelli (a cura di), La teoria generale del diritto, cit., pp. 153-176; R. Guastini, Teoria delle regole costitutive, in Rivista internazionale di filosofia del diritto, 1983, pp. 548-564.
[4] Così L. Ferrajoli, Principia Iuris. Teoria del diritto e della democrazia, vol. I, Teoria del diritto, Roma-Bari, 2007, p. 224 ss.
[5] Così Corte cost., sentenze n. 8 del 2022, n. 37 del 2019, n. 57 del 2009 n. 161 del 2004, n. 49 del 2002, n. 330 del 1996 e n. 71 del 1983.
[6] Così Corte cost., sentenza n. 5 del 2014.
[7] Così Corte cost., sentenze n. 17 del 2021, n. 37 del 2019, n. 46 del 2014, n. 324 del 2008, n. 394 del 2006 e n. 161 del 2004.
[8] Cfr., per la prima volta in tema, la sentenza n. 148 del 1983: «Altro […] è la garanzia che i principi del diritto penale-costituzionale possono offrire agli imputati, circoscrivendo l’efficacia spettante alle dichiarazioni d’illegittimità delle norme penali di favore; altro è il sindacato cui le norme stesse devono pur sempre sottostare, a pena di istituire zone franche del tutto impreviste dalla Costituzione, all’interno delle quali la legislazione ordinaria diverrebbe incontrollabile»; sull’inammissibilità di zone franche dell’ordinamento, quali aree sottratte al controllo di legittimità costituzionale delle leggi ad opera della Consulta, cfr. sentenza n. 5 del 2014.
[9] Uso scorretto del potere legislativo che la Consulta, in materia penale, ha sin qui individuato nei seguenti casi: (i) nella carenza dei presupposti di straordinaria necessità ed urgenza, ai quali è subordinata l’eccezionale legittimazione del Governo ad adottare atti con forza di legge in assenza di delegazione parlamentare (cfr. sentenza n. 330 del 1996); (ii) nell’esercizio della funzione legislativa delegata, da parte del Governo, in assenza o fuori dai limiti di una valida delega legislativa (sentenza n. 5 del 2014); (iii) nell’inserimento, ad opera del Parlamento e in sede di conversione di un decreto-legge, di norme penali «intruse», prive cioè di ogni collegamento logico-giuridico con il testo originario del decreto-legge poi convertito (così sentenza n. 32 del 2014).
Tutti questi casi sono accomunati dal fatto che l’eventuale decisione in malam partem della Corte non solo non collide con l’articolo 25 cpv. Cost., ma vale piuttosto ad assicurarne e garantirne la (ri)affermazione, dato che il rispetto di tale principio postula che le norme legislative siano prodotte, innanzitutto, dagli organi dalla Costituzione a ciò deputati e, in secondo luogo, con l’osservanza delle norme sulla produzione legislativa parimenti stabilite a livello costituzionale.
[10] Così Corte cost., sentenze n. 105 del 2022, n. 8 del 2022, n. 37 del 2019, n. 236 e n. 143 del 2018.
[11] Sul condizionamento al rispetto degli obblighi internazionali della potestà legislativa statale, cfr. Corte cost., sentenze gemelle n. 348 e n. 349 del 2007.
Sull’ammissibilità di questione di legittimità costituzionale, avente ad oggetto una norma abrogativa di previgente norma incriminatrice, la cui previsione costituisce diretta attuazione di vincoli internazionali, cfr. in particolare Corte cost., sent. n. 28 del 2010, dove la tematica in rilievo era la conformità di norma interna a direttiva comunitaria: «… [ove] si stabilisse che il possibile effetto in malam partem della sentenza di questa Corte inibisce la verifica di conformità delle norme legislative interne rispetto alle norme comunitarie – che sono cogenti e sovraordinate alle leggi ordinarie nell’ordinamento italiano per il tramite degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. – non si arriverebbe soltanto alla conclusione del carattere non autoapplicativo delle direttive comunitarie sui rifiuti, ma si toglierebbe a queste ultime ogni efficacia vincolante per il legislatore italiano, come effetto del semplice susseguirsi di norme interne diverse, che diverrebbero insindacabili a seguito della previsione, da parte del medesimo legislatore italiano, di sanzioni penali… Per superare il paradosso sopra segnalato, occorre quindi distinguere tra controllo di legittimità costituzionale, che non può soffrire limitazioni, se ritualmente attivato secondo le norme vigenti, ed effetti delle sentenze di accoglimento nel processo principale, che devono essere valutati dal giudice rimettente secondo i principi generali che reggono la successione nel tempo delle leggi penali».
[12] Cfr., sul punto, Corte cost., sentenze n. 37 del 2019 e n. 5 del 2014.
[13] Cfr., sul punto, Corte cost., sentenza n. 28 del 2010.
[14] Cfr., sul punto, Corte cost., sentenza n. 159 del 2023.
[15] Cfr., sul punto, Corte cost., sentenza n. 102 del 2020.
[16] Così Corte cost., sentenze n. 349 del 2007 e 239 del 2009.
[17] Il titolo I (articoli 1-4) reca disposizioni generali; il titolo II (articoli 5-14) misure preventive; il titolo III (articoli 15-42) concerne incriminazione, individuazione e repressione; il titolo IV (articoli 43-50) reca disposizioni in tema di cooperazione internazionale; il titolo V (articoli 51-59) concerne recupero di beni; il titolo VI (articoli 60-62) reca norme in materia di assistenza tecnica e scambio di informazioni; il titolo VII (articoli 63 e 64) riguarda i meccanismi di applicazione; il titolo VIII (articoli 65-71) reca, da ultimo, le disposizioni finali.
[18] «Each State Party shall adopt such legislative and other measures as may be necessary to establish as criminal offences…».
[19] Corruzione di pubblici ufficiali nazionali (art. 15), Corruzione di pubblici ufficiali stranieri e di funzionari di organizzazioni internazionali pubbliche (art. 16), Sottrazione, appropriazione indebita, od altro uso illecito di beni da parte di un pubblico ufficiale (art. 17), Riciclaggio dei proventi del crimine (art. 23) e Ostacolo al buon funzionamento della giustizia (art. 25).
[20] «Each State Party shall consider adopting such legislative and other measures as may be necessary to establish as criminal offences…».
[21] Millantato credito (art. 18), Abuso d’ufficio (art. 19), Arricchimento illecito (art. 20), Corruzione nel settore privato (art. 21), Sottrazione di beni nel settore privato (art. 22) e Ricettazione (art. 24).
[22] «Each State Party may adopt…» («Ciascuno Stato parte può adottare…»). La previsione di mere facoltà e non già di obblighi è, sotto questo profilo, espressamente prevista dalla Convenzione: (i) all’articolo 27, paragrafi primo e secondo, là dove è indicata come meramente facoltativa, per gli Stati parte, la previsione di un’anticipata punizione, a titolo di tentativo, dei fatti descritti agli articoli da 15 a 25; (ii) all’articolo 41, là dove come meramente facoltativa, per gli Stati parte, è prevista l’ipotesi di dare rilevanza, nei rispettivi diritti interni, alle condanne pronunciate in altri Stati parte; (iii) all’articolo 65, paragrafo secondo, là dove è prevista come meramente facoltativa, per ciascuno Stato parte, l’adozione di misure più severe di quelle previste dalla Convenzione, al fine di prevenire e combattere la corruzione.
[23] «Each State Party shall adopt… / Each State Party shall consider adopting…».
[24] «… è tenuto ad adempiere…».
[25] «Gli Stati Parte adempiono i propri obblighi ai sensi della presente Convenzione in modo compatibile con i principi di uguaglianza sovrana e di integrità territoriale degli Stati e con quello di non intervento negli affari interni di altri Stati».
[26] «… the offences established in accordance with this Convention…».
[27] «Ciascuno Stato Parte esamina l’adozione delle misure legislative e delle altre misure necessarie per conferire il carattere di illecito penale, quando l’atto è stato commesso intenzionalmente, al fatto per un pubblico ufficiale di abusare delle proprie funzioni o della sua posizione, ossia di compiere o di astenersi dal compiere, nell’esercizio delle proprie funzioni, un atto in violazione delle leggi, al fine di ottenere un indebito vantaggio per sé o per un’altra persona o entità».
[28] Cfr., in proposito, l’articolo 2, che fornisce l’espressa nozione di «pubblico ufficiale», rilevante ai fini della Convenzione.
[29] Cfr. p. iii della Legislative guide for the implementation of the United Nations Convention against Corruption (unodc.org), d’ora in avanti anche «Legislative guide or the implementation of the UNCAC» ovvero, più semplicemente, «Legislative guide of the UNCAC».
[30] Cfr. il punto 170 della Legislative guide of the UNCAC: «States parties must establish a number of offences as crimes in their domestic law, if these do not already exist. States with relevant legislation already in place must ensure that the existing provisions conform to the Convention requirements and amend their laws, if necessary».
[31] Cfr. il punto 169 della Legislative guide of the UNCAC: «States parties are required to take several legislative and administrative steps towards the implementation of the Convention against Corruption…».
[32] Per la espressa qualificazione in termini di «obligations to consider criminalization» degli obblighi previsti dalla Convenzione in riferimento alla classe dei fatti previsti dagli articoli 16 par.2, 18, 19, 20, 21, 22 e 24, cfr. p. 76 della Legislative guide of the UNCAC.
[33] R. Dworkin, Taking Rights Seriously (1977), trad. it. I diritti presi sul serio, a cura di G. Rebuffa, Bologna, 1992.
[34] Cfr., in particolare, le pagine da 16 a 20 dell’ordinanza qui pubblicata.
[35] Cfr. p. 20 dell’ordinanza: «In definitiva, la scelta di abrogazione del delitto di cui all’art. 323 c.p. non pare riconducibile ad un legittimo esercizio della discrezionalità del legislatore, ma si prospetta come arbitraria…».
[36] Le modifiche dell’art. 323 cod. pen., nel corso degli anni, sono state più in particolare operate con: (i) l’art. 13, comma 1, della legge 26 aprile 1990, n. 86; (ii) l’art. 1, comma 1, della legge 16 luglio 1997, n. 234; (iii) l’art. 1, comma 75, lettera p), della legge 6 novembre 2012, n. 190; (iv) l’art. 23, comma 1 del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76, convertito con modificazioni dalla legge 11 settembre 2020, n. 120.
[37] Cfr., in particolare, le pagine 17 e 18 dell’ordinanza.
[38] Cfr., in particolare, le pagine 19 e 20 dell’ordinanza.
[39] Cfr. Corte cost., sentenze n. 8 del 2022, n. 437 del 1998 e n. 16 del 1998; ordinanze n. 251 del 2006, n. 326 del 1999, nn. 368, 126 e 48 del 1998 e n. 18 del 1996.
[40] Così Corte cost., sentenze n. 8 del 2022 e n. 437 del 1998, nonché ordinanza n. 251 del 2006.
[41] Così Corte cost., sentenza n. 447 del 1998.
[42] Così Corte cost., sentenze n. 8 del 2022 e n. 437 del 1998.