1. Amicus collegium, magis curia
Nel capitolo introduttivo del volume[1], il prof. Zanon si definisce un “originalista”. Avrò modo di tornare su questa definizione che ora vorrei condividere, in chiave forse un po’ maccheronica. In questa presentazione sarò “originalista” anche io nel senso che cercherò, per un verso, di dare quanto più spazio possibile alla lettura del testo, per altro verso, di evitare con la stessa cura riscritture personali, salvo qualche considerazione finale di commento, in chiave penalistica.
Prima ancora, però, volendo cifrare in estrema sintesi i contenuti salienti dell’opera, nella prospettiva di quelle che sembrano essere state l’ispirazione e l’intenzione dell’autore, parafrasando (a più riprese) un celebre aforisma di (dubbia e comunque tortuosa) ascendenza platonica[2] direi:
Amicus collegium, magis curia
Amicus curia, magis veritas
Amicus veritas, magis verba
Amicus collegium, magis curia. «La maggioranza dei giudici costituzionali, sia in carica che ex, ritiene che segreto (o presunto tale) della camera di consiglio e assenza di opinione dissenziente tutelino la cd. collegialità, un valore molto importante per la Corte. È la visione di chi teme che la possibilità di scrivere un dissenso allontanerebbe il singolo componente dalla comune fatica di elaborare una decisione condivisa, con la relativa motivazione: avvicinare le posizioni, trovare un common ground e una soluzione possibilmente unitaria, e comunque, se ciò non è stato possibile, contribuire ugualmente alla motivazione, anche quando si è rimasti in minoranza. Se si sa in partenza di poter scrivere e pubblicare un dissenso, si sostiene, c'è il rischio di ritrarsi da tutto questo, danneggiando appunto il valore della collegialità. È una visione rispettabilissima, che comprendo e che ho praticato quando possibile, e che tuttavia non vale sempre e comunque. Non vale, soprattutto, in alcune questioni cruciali e delicate, nelle quali restar vincolati a una scelta di maggioranza è come una camicia di Nesso»[3].
Ma quali sono le questioni “cruciali e delicate”? Non mi pare che il Prof. Zanon lo dica ex professo anche se l’attenta lettura del testo sembra di indicare una duplice risposta:
- un primo set di temi potrebbe essere quello in cui la decisione giuridica del caso si intreccia inestricabilmente con le convinzioni personali, politiche, etiche, religiose del giudice. A queste circostanze sembra riferirsi Zanon dove scrive che ci sono situazioni in cui non pare possa imporsi al membro del collegio di far tacere del tutto la propria opinione e obbligarlo «alla scrittura di una motivazione radicalmente non condivisa». Certo, prosegue l’autore, l’«indipendenza del giudice da sé stesso», dalle sue “precomprensioni” del caso «è cosa sacrosanta, in quanto ispira decisioni il più possibile obiettive e impersonali, aderenti al testo delle norme da applicare, all’esito di un corretto ricorso ai fondamentali e ben noti canoni ermeneutici. Un giudice costituzionale, poi, deve difendere le scelte contenute nella Costituzione sulla quale ha giurato, anche quando dentro di sé non le condivida». Per esempio, «Antonin Scalia, grande giudice della Corte suprema americana, riteneva che, dal punto di vista della Costituzione, bruciare la bandiera USA fosse un comportamento protetto dal primo emendamento (che tutela il free speech), anche se, da solido conservatore quale era, personal-mente non approvava affatto quel gesto: sapeva distinguere le sue opinioni “private” dal suo ruolo istituzionale»[4].
In realtà, nemmeno in questo caso sarebbe di per sé giustificata la dissenting opinion, ma – al più – la sostituzione del redattore che, pur essendo stato il relatore, non condivida la decisione assunta dalla maggioranza e, quindi, non ritenga di dover-poter scrivere la motivazione.
2. Amicus curia, magis veritas
Zanon collega più esplicitamente la manifestazione del dissenso ad un’altra membratura situazionale e argomentativa. Il discorso mi sembra avere due capi:
- il primo procede dalla riflessione sulla specifica natura delle norme di una costituzione «che contiene, soprattutto, disposizioni di principio, che si aprono all’attuazione legislativa e all’interpretazione giudiziaria, secondo virtualità che molto devono alle diverse sensibilità culturali, politiche e istituzionali, e ai diversi obbiettivi degli interpreti e dei legislatori». Individuare «strumenti, argomenti e soluzioni attraverso cui la Costituzione è giudizialmente da custodire, salvo casi-limite in cui tutto è chiarissimo, non è mai un'operazione matematica, ma è, appunto, delicata questione di interpretazione. La tesi per cui non si deve consentire l'espressione pubblica di un dissenso è invece tributaria di un’idea molto netta: quella per cui, all'esito di quei complessi passaggi interpretativi, esiste una e una sola soluzione “giusta”, quella che si esprime nella decisione della Corte, che vincola tutti i suoi componenti, d’accordo o non d’accordo che essi fossero»[5].
- Il secondo capo della discussione è legato alla critica nei confronti del living constitutionalism. «Assai presente al dibattito giuridico nordamericano, questa dottrina sostiene che una Costituzione vive e si sviluppa nel tempo, come un organismo vivente che si evolve, e cambia, con la società la cui vita si trova ad accompagnare. Per questa dottrina, l'attività interpretativa che ha ad oggetto la Costituzione è come una sfida capace di suscitare, in un testo costituzionale pur magari antico (come la Costituzione USA), nuovi e inattesi significati, che lo rendono attraente ed espressivo per i contemporanei». Secondo «questa visione, insomma, la Costituzione è un corpo di norme che, attraverso l'interpretazione delle Corti, deve crescere e mutare negli anni, allo scopo di incontrare le esigenze di una società in perenne mutamento. Il trascorrere del tempo cambia le cose, porta ad emersione nuove esigenze, nuovi diritti, nuovi obbiettivi. La Costituzione deve accompagnare tutto ciò». Un «principio costituzionale, per essere vitale, deve avere le potenzialità per emanciparsi dall'occasione specifica in vista della quale è nato. Così, l’interpretazione della Costituzione deve avere tra i suoi obbiettivi anche letture evolutive del testo costituzionale»[6]. Ma – obietta Zanon – «esiste una differenza tra il dire: i tempi cambiano e l’interpretazione della Costituzione cambia con questi; e il dire invece: sono possibili, oggi, diverse interpretazioni del medesimo testo costituzionale. Con maggiore aderenza al dibattito italiano, si potrebbe piuttosto pensare che l'introduzione del dissenso risulterebbe coerente con molte delle tesi attualmente prevalenti tra i costituzionalisti». Le «posizioni dominanti vedono il diritto costituzionale come un diritto essenzialmente per principi, dominato da tecniche interpretative “evolutive”, che appunto consentono al testo costituzionale di “stare al passo coi tempi”. In questo ambiente culturale, il giudizio di legittimità costituzionale è teatro di incessanti e inesausti bilanciamenti tra principi costituzionali diversi. Dando soluzione ai vari casi, la bilancia della Corte oscilla, governata da criteri di ragionevolezza e proporzionalità». Sono criteri tanto generici quanto aperti alla discrezionalità dell'interprete-decisore. «Ciò restituisce sentenze dagli esiti non solo non facilmente prevedibili, ma anche fragili, che disegnano equilibri per definizione instabili e mutevoli. Un clima culturale, insomma, che si accorderebbe perfettamente con quella pluralità di visioni possibili che è il presupposto teorico stesso per l'ammissibilità del dissenso … (ciò posto) penso anch'io, nonostante queste mie posizioni, che il dissent sarebbe una buona cosa. Sbaglio? E dove?»[7]. Sembra di sentire l’eco di Voltaire, che nell’ultimo capitolo del Commentario sul libro Dei delitti e delle pene si chiede: «C’è forse di che vergognarsi di rendere ragione del proprio giudizio?» [8].
3. Amicus veritas, magis verba
«Sono “originalista” – scrive Zanon – nel senso che penso che la Costituzione non sia un living document». L’idea di «una Costituzione che “sta al passo con i tempi”, se ci si riflette con attenzione, rivela … una certa ingenuità», esordisce l’Autore. Si «dà per scontato ciò che scontato non è affatto, e cioè che i tempi possano mutare sempre e solo di bene in meglio, in un incessante e inarrestabile progresso dei diritti individuali e collettivi. Anche se, purtroppo, sappiamo che non è così». Quella «ingenua idea nega, inoltre, la stessa rigidità della Costituzione, approvata proprio per resistere ai cambiamenti voluti dalle mutevoli maggioranze politiche del momento, non già per adeguarsi ad esse. Come spiegava Antonin Scalia ai suoi colleghi liberal, scandalizzati circa le sue affermazioni sulla Costituzione come dead law: se non vi piace o non vi basta ciò che essa dice, ebbene, convincete i vostri concittadini a cambiarla, secondo le procedure previste, ma non provate a farle dire ciò che essa proprio non dice! Insomma, sono seguace di dottrine che hanno l'obiettivo di limitare l'arbitrarietà dell'interpretazione giudiziale. È, invero, troppo comodo ritenere che il testo costituzionale cresca o cambi a seconda del contesto entro il quale viene interpretato. I giudici devono intenderlo ed applicarlo per quel che dice, non per quel che vorrebbero dicesse. È qui in gioco, appunto, il rispetto della democrazia e della separazione dei poteri»[9], che nell’ottica di Zanon sembra confinare la Corte nel ruolo á la Kelsen di legislatore negativo[10].
4. Principio di legalità, ratio democratica e crisi
In questa prospettiva – conclude l’opera – «dal testo si parte e al testo si deve sempre tornare»[11]. Ma cosa vuol dire che dal testo si parte e al testo si deve sempre tornare?
Perseverando nell’impostazione “originalista”, vorrei abbordare la risposta al quesito ancora una volta con (altre) parole di Zanon dell’oramai abbastanza lontano 2012: «La giustizia è amministrata in nome del popolo, e i giudici sono soggetti soltanto alla legge. Il significato minimale della prima parte della disposizione è che la democrazia, quindi, il potere del popolo (che si esercita nei limiti e nelle forme della Costituzione), è la giustificazione ultima anche della funzione giurisdizionale; e la seconda parte sottolinea che l’indipendenza del giudice nell’esercizio delle sue funzioni non equivale all’arbitrio ma ha senso solo nell’ambito di ciò che la legge prevede»[12].
Nel diritto penale – com’è noto – l’evidenza molto maggiore che assume la legalità è intimamente e inestricabilmente connessa alle istanze di garanzie che – sotto molteplici profili – individuano nel “testo della legge” il loro epicentro. In altri termini, se la soggezione alla legge è il presupposto di legittimazione di ogni attività giurisdizionale, «il vincolo al “tenore letterale” … al c.d. narrow reading … è ancor più stringente nel contesto punitivo»: del resto, l’art. 101 co. 2 Cost. è «contraltare del principio di separazione dei poteri»[13] di cui «l’art. 25, secondo comma, Cost. – sono parole della Corte costituzionale (sent. n. 24 del 2017) – declina una versione particolarmente rigida nella materia penale». Drammatizzando: tutto crolla se non regge l’assioma del nulla poena sine lege alla base del sistema delle garanzie penali; nulla si regge se non regge la legalità[14].
Nella prospettiva costituzionale dei rapporti tra poteri che l’evoluzione del sistema – la Costituzione “materiale”[15] – ha notevolmente modificato, forse alterato, assumono particolare rilievo lo slittamento dalla legis-latio alla giuris-dictio[16] e l’ulteriore versante di erosione della riserva di legge corrispondente alla netta prevalenza del potere esecutivo su quello parlamentare. Entrambe queste dinamiche sottraggono linfa alla giustificazione ultima della legalità: la ratio democratica. «La sola ragione che giustifichi la scelta del potere legislativo come unico detentore del potere normativo in materia penale, risiede nella rappresentatività di quel potere, nel suo essere espressione non di una stretta oligarchia, ma dell’intero popolo, che attraverso i suoi rappresentanti, si attende che l’esercizio avvenga non già arbitrariamente, ma per il suo bene e nel suo interesse»[17]. Su questa linea si è pronunciata più volte anche la Corte Costituzionale[18]. Lo stesso Zanon, sempre nello scritto del 2012, integrava la prospettiva enunciata nella precedente citazione di Delitala precisando che il monopolio della competenza penale alla legge in quanto atto-fonte, emanata dall’organo-Parlamento, si spiega perché «il procedimento di formazione della legge penale … è aperto al confronto tra maggioranza e minoranza, ed è adeguato a tutelare i diritti dell’opposizione, che può sindacare le scelte di criminalizzazione adottate dalla maggioranza»[19].
Ma tutti questi «non sono che sogni d’oro», ha sentenziato da tempo John Rawls[20]. È chiaro che la legge non è buona perché il Parlamento rappresenta il popolo, né riesce ad essere migliore (di altre fonti) perché alla Camera e al Senato le opposizioni “controllano” la maggioranza. La ratio democratica della riserva di legge è un incantamento da deporre se vogliamo – come insegna Paolo Grossi – «sceverare storia e mito, idealità e ideologie, strategie politiche e letture obbiettive della società, acquisendo una visione serenamente critica valorizzante il corredo di luci e ombre che sono sempre connesse alla complessità della storia»[21]. Si dovrebbe tenere conto, quindi, della perenne relatività che ha caratterizzato la riserva di legge sul piano fenomenologico, evitando, in particolare, «di considerare il diritto penale una sorta di ‘monade’ isolata, avulsa dai processi di trasformazione della legalità che attraversano il sistema giuridico nel suo complesso»[22]. All’opposto, il diritto penale condivide le sorti dell’intera realtà ordinamentale e potrà rimanere fedele ai propri principi solo confrontandosi con la crisi globale della legalità, non esclusi gli aspetti istituzionali che debilitano la ratio democratica[23].
5. Non qualcosa di meglio della legalità ma una legalità migliore
In questa prospettiva, bisogna avere cura di non sovrapporre l’aspetto ricognitivo, diagnostico del fenomeno e delle sue implicazioni penalistiche con avventurose tentazioni di travalicamento del principio di legalità. Come scrisse tempo fa Emilio Dolcini, non possiamo buttare il bambino con l’acqua sporca[24]. Il tema da discutere non è pensare a qualcosa di meglio della legalità ma una legalità migliore[25]. Da discutere, si fa per dire. Un problema così ampio, delicato, complesso e difficile ha bisogno di altri contesti per essere affrontato in modo appropriato. In questa sede mi limiterò solo ad accennare ad uno dei due versanti che ho già evocato. Non tratterò del rapporto tra legge e giurisprudenza nell’ottica del c.d. creazionismo giudiziario. È in larga parte una scelta arbitraria, priva di una reale e definitiva giustificazione al di là del minore gradiente positivo di questo versante della questione. Detto semplificando brutalmente, intendo lambire il tema della crisi della ratio democratica della riserva di legge nella prospettiva di una riforma “scritta” della legalità penale laddove i problemi dell’interpretazione si risolvono più sul piano dell’interpretazione[26] che (della elaborazione) delle regole di giudizio o di condotta, salva la considerazione che la stessa “cacografia” legislativa, in parte (quale, è difficile dire) concorre (di per sé non giustifica) all’esondazione della giurisprudenza dal solco del testo. Anche alla luce di queste premesse, rispetto al panorama di una letteratura pressoché egemonizzato dalla discussione sul ruolo della giurisdizione nel sistema penale, avverto con maggiore urgenza la necessità di seguire i rivoli della riflessione che guardano alla dimensione “repubblicana” del diritto penale, in una duplice prospettiva.
Da un lato, si pensi ad alcune iniziative di incisione dei principi costituzionali in materia penale. Queste proposte – che si muovono in una direzione esattamente opposta rispetto alla necessità di rafforzare le garanzie che sgorga dalla crisi della legalità – sollecitano l’esigenza, a monte, di “porre in sicurezza” la “Costituzione penale”, sottraendo le norme costituzionali in materia al procedimento della revisione costituzionale[27].
L’atro versante del discorso riguarda la possibilità di introdurre quorum qualificati per la previsione di nuove incriminazioni e in generale per le modifiche (quelle) in malam partem (di sicuro) del sistema. Uno dei maggiori fattori di crisi della ratio democratica della riserva di legge è che non trova argine il ricorso al diritto penale quale strumento di governo, spesso quale declinazione del “governo della paura”[28]. Nulla di nuovo sotto il sole. «La crescente civiltà di un popolo e la allargata sua libertà dovrebbero essere potente ragione di diminuire gradatamente il numero delle azioni dichiarate delitti. Ma – notava Carrara – invece cresce tra noi la mania di moltiplicarne il numero per ricorrere al periglioso rimedio del magistero penale»[29]. A questa esperienza secolare si associa la comprovata inefficacia di rimedi di legge ordinaria o, comunque, debolmente costituzionali[30]. La riserva di codice – che non ha in alcun modo prodotto l’auspicato embargo della “fabbrica dei nuovi reati”[31] – testimonia che occorre ben altro per arginare la vis espansiva del diritto penale. Bisogna agire ad un più alto livello per cercare di frenare la «nomorrea»[32] e restituire vigore alla ratio democratica della riserva di legge nell’ottica, già segnalata, di recuperare la «centralità della istituzione parlamentare, come luogo atto a promuovere una vera dialettica tra tutte le forze politiche … che non si accontenta del criterio puramente maggioritario: piuttosto, le deliberazioni in materia di delitti e pene, per risultare autenticamente democratiche, dovrebbero essere adottate mediante un coinvolgimento attivo delle stesse forze di opposizione in termini di concorso di punti di vista o, meglio ancora, di vera e propria co-decisione»[33]. L’ipotesi di quorum specifici è sicuramente utopistica ma non è velleitaria o comunque iperuranica. Il § 2 dell’art. 81 della Costituzione spagnola richiede la maggioranza assoluta del Congresso per l’approvazione delle leggi (organiche) relative ai diritti fondamentali e alle libertà pubbliche.
La proiezione verso la costituzionalizzazione in chiave repubblicana (più che democratica) del diritto penale implica (come il più contiene il meno) la messa al bando del decreto-legge tra le fonti del sistema penale. Non può tacersi che sarebbe assai ingenuo non considerare che la presa dell’esecutivo sul Parlamento è oramai così forte che, sotto questo profilo, risulta ragionevole prevedere che la riserva della riserva di legge costituirebbe un ostacolo piuttosto agevolmente superabile da parte del governo stesso (senza la riforma abbozzata nel paragrafo precedente).
Difficile da tradurre sul piano del lessico delle norme costituzionali, ma non per questo meno rilevante, è, infine, il tema degli obblighi di tutela penale di derivazione internazionale e soprattutto euro-unitaria. È una materia nella quale spetta soprattutto alla giurisprudenza della Corte costituzionale di preservare il “controlimite” della riserva di legge, non solo ab esterno (vedi la saga Taricco), ma anche ab interno, in chiave di tensione dialettica con la “dottrina” dei parametri interposti ex art. 117 cost.
Da ultimo, accenno ad un tema che esula dalle competenze del penalista e, quindi, posso solo sfiorare. Penso alle istituzioni di garanzia, su tutte il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale, che esercitano (anche) un ruolo fondamentale per garantire e preservare la ratio democratica della riserva di legge ma sono regolate da meccanismi elettivi che, nel contesto di un sistema sempre più plasmato dalla logica maggioritaria del one more vote power, rischiano, anch’esse, di soggiacere alla “cattura” da parte della maggioranza parlamentare.
[1] Sui “limiti” dei dieci capitoli successivi, nei quali l’Autore dissente (appunto) rispetto al viaggio nelle carceri della Corte oltre che a nove decisioni della Consulta, “fa fede” l’opinione espressa dallo stesso Zanon: «Lo riconosco: questa mancanza di contestualità – la circostanza di avere a che fare con opinioni dissenzienti postume, cui nessuno ha replicato, e che anzi sono una mera e unilaterale critica, a cose fatte, all’opinione della Corte – è il grande difetto di questo lavoro. … Si potrà vedere, nella diffusione delle opinioni che seguono, una forzatura metodologica; la si potrà addirittura come violazione (anch’essa postuma) di una deontologia che impone silenzio e discrezione. Si riconosca, almeno, che ciò è stato fatto per una buona causa»: N. Zanon, Le opinioni dissenzienti in Corte Costituzionale. Dieci casi, Zanichelli, Bologna, 2024, pp. 29-31.
[2] Cfr. per un’agile ma accurata e attendibile ricostruzione della storia del brocardo “amicus Plato, sed magis veritas” cfr. https://www.treccani.it/enciclopedia/amicus-plato-sed-magis-amica-veritas_(Dizionario-di-filosofia)/
[3] N. Zanon, Le opinioni dissenzienti in Corte Costituzionale, cit., pp. 4-5. Per un primo approccio alla figura di Justice Scalia e, per certi versi, anche all’opera di Zanon, è davvero preziosa la lettura di P. Insolera, Da Scalia a Gorsuch: giudici “originalisti” e limiti costituzionali al punire nell’interpretazione passata, presente e futura della Corte suprema statunitense, in Riv. dir. comp., 2017 (3), p. 134.
[4] N. Zanon, op. cit., pp. 10-11.
[5] N. Zanon, op. cit., p. 15. L’A. prosegue (ivi): «È una tesi non estranea a un certo positivismo normativo. Il diritto è uno solo e le opinioni confliggenti ne minano l'autorità; la decisione giudiziaria è un sillogismo e la decisione ne discende automaticamente; c'è (appunto) una sola risposta corretta a qualunque questione giuridica; un mutamento di interpretazione non modifica le norme da applicare, perché per mutarle bisogna cambiare la legge; la certezza del diritto è assicurata da decisioni univoche».
[6] N. Zanon, op. cit., pp. 21-22.
[7] N. Zanon, op. cit., p. 23.
[8] F. M. Arouet, Commentaire sur le livre des délits et des peines. Par un avocat de province, trad. it di B. Besi Ellena, Ibis, Pavia, 1994, p. 91. Nel testo originale in lingua francese disponibile open source (https://athena.unige.ch/athena/voltaire/voltaire-commentaire-sur-le-livre-des-delits-et-des-peines.html oppure su Wikipedia) si legge: «Y a-t-il quelque honte à rendre raison de son jugement?».
[9] N. Zanon, op. cit., pp. 24-25.
[10] N. Zanon, op. cit., p. 26.
[11] N. Zanon, op. cit., p. 26.
[12] N. Zanon, Su alcuni problemi attuali della riserva di legge in materia penale, in Criminalia, 2012, p. 315.
[13] V. Manes, Dalla “fattispecie” al “precedente”: appunti di “deontologia ermeneutica”, in https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org (17 gennaio 2018), p. 7.
[14] Il riferimento è alla costruzione che concepisce il sistema delle garanzie in chiave di concatenazione “progressiva”, alla cui base si colloca appunto l’assioma 1.a. nulla poena sine lege, nel senso che ciascun principio è «rafforzato e specificamente e specificamente connotato da tutti gli altri, nel senso che la portata garantistica di ognuno … è tanto maggiore quanto più numerose sono le condizioni cui devono a loro volta soddisfare le condizioni conseguenti in ciascuno stabilite»: L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Editori Laterza, Bari-Roma, VI ed., 2000, p. 73.
[15] «La sola considerazione del sistema normativo legale non riesce a fornire la esatta conoscenza dell’ordinamento statale, e quindi rischia, isolandosi in una visione esclusivamente formalistica, di dar vita a interpretazioni o ricostruzioni che non trovano riscontro nella realtà, alla quale pure bisogna guardare, una volta che si tenga fermo il principio secondo cui il diritto non è quello che risulta consacrato nei testi di legge o pel solo fatto di tale consacrazione, bensì l’altro quale si palesa negli effettivi rapporti e comportamenti, allorché essi, pur se contrastanti con le leggi stesse, presentino aspetti e caratteri che ne facciano presumere la stabilizzazione»; il funzionamento dell’ordinamento costituzionale «è condizionato dalla realtà sociale, che presenta un suo ordine intrinseco e dispone di una serie di poteri di fatto, i quali, o operando direttamente o influenzando indirettamente l’attività degli organi dello stato, riescono a raccogliere intorno a questo loro ordine intrinseco le più rilevanti manifestazioni dell’attività stessa»: C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, VII ed., Cedam, Padova, 1967, p. 26.
[16] N. Zanon, Su alcuni problemi attuali della riserva di legge in materia penale, cit., p. 316.
[17] G. Delitala, Cesare Beccaria e il problema penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1964, p. 968.
[18] Nella sentenza n. 487 del 1989 la Consulta ha sancito che l’opzione penale comporta, anzitutto, una scelta tra tutti i beni e valori emergenti nell’intera società. Questa decisione non può esser realizzata dai consigli regionali (ciascuno per proprio conto), a causa della mancanza d’una visione generale dei bisogni ed esigenze dell’intera società. Nella sentenza n. 230 del 2012 la Corte insiste ribadisce che il potere di normazione in materia penale è affidato al Parlamento, eletto a suffragio universale dall’intera collettività nazionale, il quale esprime le sue determinazioni all’esito di un procedimento – quello legislativo – che implica un preventivo confronto dialettico tra tutte le forze politiche, incluse quelle di minoranza e, sia pure indirettamente, con la pubblica opinione.
[19] N. Zanon, op. ult. cit., p. 316.
[20] Justice as Fairness: A Restatement, trad. it. G. Rigamonti, Feltrinelli, Milano, 2002, p. 93.
[21] P. Grossi, Il costituzionalismo moderno tra mito e storia, in Mitologie giuridiche della modernità, III ed., Giuffrè, Milano, 2007, pp. 168-169.
[22] A. Gargani, Verso una ‘democrazia giudiziaria’? i poteri normativi del giudice tra principio di legalità e diritto europeo, in Criminalia, 2011, p. 99.
[23] F. C. Palazzo, Legalità penale: considerazioni su trasformazione e complessità di un principio ‘fondamentale’, in Principio di legalità e diritto penale (per Mario Sbriccoli), in Quaderni Fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 2007, p. 1281 (https://www.quadernifiorentini.eu/cache/quaderni/36/1280.pdf).
[24] E. Dolcini, Leggi penali “ad personam”, riserva di legge e principio costituzionale di eguaglianza, in Riv. it. dir. proc. pen., 2004, 50.
[25] Così echeggiando l’arcinota frase: «Wir brauchen kein besseres Strafrecht, wir brauchen etwas Besseres als das Strafrecht» G.Radbruch, Rechtsphilosophie, C.F. Müller, Heidelberg, 1914 (ristampa 2003), p. 157.
[26] «Breve: il principio di tassatività come canone rivolto anche al giudice interpella anzitutto la sua onestà intellettuale, e rovesciando l’ammonimento biblico lo impegna a lacerarsi il cuore, piuttosto che le vesti»: V. Manes, Dalla “fattispecie” al “precedente”: appunti di “deontologia ermeneutica”, in https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org (17 gennaio 2018), p. 12. Fa, altresì, appello all’«onestà del riconoscimento che si sta uscendo dal recinto della disposizione e per tale motivo si ammette che andrebbe riscritta»: M. Donini, Fattispecie o case law? La “prevedibilità del diritto” e i limiti alla dissoluzione della legge penale nella giurisprudenza, in Quest. giust., 2018 (4), p. 94. Con parole meno pregne di eco deontologiche ma parimenti dense in chiave prescrittiva, la Corte Costituzionale (§ 5 sent. n. 172 del 2014, sull’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 612-bis c.p. per violazione dell’art. 25 Cost.) rammenta che spetta «al giudice ricostruire e circoscrivere l’area di tipicità della condotta penalmente rilevante sulla base dei consueti criteri ermeneutici, in particolare alla luce del principio di offensività, che per giurisprudenza costante … costituisce canone interpretativo unanimemente accettato». Tutto questo, non vuol dire affatto escludere il contributo – ancorché non risolutivo - delle regole come dimostrano a tutto tondo novelle degli artt. 627, co. 3; 628, co. 2 c.p.p. 173, co. 2, disp. att. c.p.p.
[27] G. Ruggiero, I principi del diritto penale: controlimiti nel tempo del disagio della democrazia e delle revisioni costituzionali, in Riv. it. dir. proc. pen., 2024, p. 1465.
[28] F. Carrara, Un nuovo delitto, in Opuscoli di diritto criminale, IV, Tipografia Giusti, Lucca,1889, p. 493.
[29] F. Carrara, Programma del corso di diritto criminale. Parte generale, I, VIII ed., Tipografia Giusti, Lucca, 1889, p. 72.
[30] Cfr. M. Donini, La riserva di codice (art. 3-bis cp) tra democrazia normante e principi costituzionali. Apertura di un dibattito, in www.lalegislazionepenale.it, 20 novembre 2018.
[31] Cfr. G. Losappio, Riserva di codice penale. La ri-codificazione che decodifica (codex reloaded), in Studi in onore di Carlo Enrico Paliero, a cura di C. Piergallini, G. Mannozzi, C. Sotis, C. Perini, M. Scoletta, F. Consulich, Giuffrè Francis Lefebvre, Milano, 2023, p. 1803 (anche in Arch. Pen. (web), 2023 (1)).
[32] J. Simon, Governing Through Crime: How the War on Crime Transformed American Democracy and Created a Culture of Fear (Studies in Crime and Public Policy), trad. it. A. Giorgi, Raffaello Cortina, Milano, 2008.
[33] G. Fiandaca, Crisi della riserva di legge e disagio della democrazia rappresentativa nell’ età del protagonismo giurisdizionale, in Criminalia, 2011, p. 83.
Testo (riveduto e integrato dalle note) della relazione introduttiva del seminario Riflessioni sul ruolo assunto nel tempo dalla Corte costituzionale, Padova, 11 ottobre 2024