A distanza di pochi mesi dalla pronuncia n. 102/2016, la Corte Costituzionale torna ad occuparsi dell’art. 649 c.p.p., ed offre una nuova tessera del mosaico che cerca di comporre ed equilibrare i rapporti, spesso tesi, tra normativa nazionale e sovranazionale, interposto l'art. 117 Cost.
In quest'occasione è stata investita dal GUP del Tribunale di Torino in relazione al procedimento a carico del responsabile della gestione delle società del Gruppo Eternit spa, accusato di omicidio plurimo in conseguenza di condotte tutte riconducibili, direttamente o indirettamente, all’esposizione alle fibre di asbesto, dopo che nei confronti del medesimo imputato è stato definito, con dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione (Cass. Schmidheiny, 19.11.2014), altro procedimento per i delitti di disastro doloso e rimozione od omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro.
La complessità della decisione richiede assai più intenso impegno nell’analisi del percorso motivazionale, ma, a caldo, può svilupparsi questa sintesi essenziale dei temi trattati.
I termini normativi del confronto dai quali muove l’ordinanza di rimessione sono costituiti dall’art. 649 c.p.p. nel quale è espresso il divieto di secondo giudizio penale per il medesimo fatto, dall’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU delineante lo stesso divieto e dall’art. 117 Cost., quale norma di raccordo.
Il sospetto di illegittimità costituzionale ha colpito la norma processuale poiché, in conformità ad una costante interpretazione giurisprudenziale di legittimità del principio del ne bis in idem che ne costituisce il contenuto, il divieto concernerebbe l’identità del fatto giuridico, ovvero la coincidenza di tutti gli elementi costitutivi del reato e dei beni giuridici tutelati.
Tanto non consentirebbe l’operatività del divieto nel caso di concorso formale di reati, poiché le plurime fattispecie attinte dalla condotta recano elementi differenzianti sotto i profili della natura dei reati, degli eventi giuridici, dei fini di tutela.
Così, non risponderebbe ai criteri giuridici di identità, conchiusi nella triade “condotta-evento-nesso di causa”, il fatto previsto dagli artt. 434 e 437 c.p. e quello di omicidio, pur innanzi alla medesima condotta connessa all’esposizione alle polveri di amianto.
Le due prime fattispecie incriminatrici descrivono reati di pericolo, anziché di danno come l’omicidio e sono dirette alla salvaguardia della pubblica incolumità, anziché della vita.
Inoltre, l’evento morte non entra nella costituzione dei due illeciti contro l’incolumità, neanche nelle ipotesi aggravate dei rispettivi commi 2.
Assai più vasta, invece, l’area di applicazione del principio di ne bis in idem espresso dall’art. 4, prot. n. 7 alla CEDU, secondo l’ampiezza assegnata dalla Corte EDU.
Non già rispetto al fatto giuridico, bensì solo con riferimento alla condotta, commissiva od omissiva, deve misurarsi la medesimezza del fatto e darsi applicazione del divieto (v. sentenza Corte EDU, 10.02.2009, Zolotoukhine contro Russia).
Dunque, nella logica CEDU il giudizio deve arrestarsi a considerare la condotta, restando del tutto irrilevanti nella comparazione dei fatti, le sue conseguenze (l’evento) e le altre componenti che caratterizzano le differenti fattispecie.
Nel caso concreto la condotta tenuta dall’imputato è, ad avviso del Giudice rimettente, unica nel senso storico-naturalistico e, da qui, il contrasto tra la disposizione processuale di cui all’art. 649 c.p.p. e la norma CEDU.
È, dunque, nel confronto tra le nozioni di idem factum, recepito dalla Corte EDU ed idem legale, fatto proprio dalla Corte di Cassazione, che si sospetta annidarsi il vizio di illegittimità costituzionale rimesso allo scrutinio della Consulta.
Ebbene, i Giudici della Corte smentiscono tale tesi, muovendo dalle sue radici e negando che i contenuti e l’ampiezza del divieto del secondo giudizio in ambito CEDU siano rigidamente quelli additati dal Giudice remittente.
La prima delle asserzioni della Corte costituisce il prius orientante l’intera decisione:
Il fatto storico-naturalistico rileva, ai fini del divieto di bis in idem, secondo l’accezione che gli conferisce l’ordinamento, perché l’approccio epistemologico fallisce nel descriverne un contorno identitario dal contenuto necessario. Fatto, in questa prospettiva, è l’accadimento materiale, certamente affrancato dal giogo dell’inquadramento giuridico, ma pur sempre frutto di un’addizione di elementi la cui selezione è condotta secondo criteri normativi.
Non vi è, in altri termini, alcuna ragione logica per concludere che il fatto, pur assunto nella sola dimensione empirica, si restringa all’azione o all’omissione, e non comprenda, invece, anche l’oggetto fisico su cui cade il gesto, se non anche, al limite estremo delle nozione, l’evento naturalistico che ne è conseguito, ovvero la modificazione della realtà indotta dal comportamento dell’agente.
La nozione e il contenuto del sintagma del “medesimo fatto” tratta dall’art. 649 c.p.p. secondo il diritto vivente sembra, dunque, preferibile.
Ma, la Corte, ovviamente, non è chiamata a scegliere, tra più, una soluzione ermeneutica, quanto ad esercitare il controllo sulla possibile lesione di una norma costituzionale e lo fa con un’opera di revisione dell’interpretazione del bis in idem convenzionale dedotta dal rimettente.
Invero, nessuna delle decisioni della Corte EDU reca l’affermazione che il fatto va assunto, ai fini del divieto di bis in idem, con esclusivo riferimento all’azione o all’omissione dell’imputato, anzi, ferma l’inidoneità dimostrativa di quelle intervenute sulla comparazione di reati di sola condotta (ad esempio sentenza 04.03.2014, Grande Stevens contro Italia), molte sono le sentenze dei Giudici europei che nella misurazione della medesimezza del fatto sono andate ben oltre il mero dato della condotta tenuta dall’agente.
Queste osservazioni, in sostanza, indicano l’insussistenza di un’univoca presa di posizione della Corte EDU sulla nozione di bis in idem.
Per di più, anche estendendo l’orizzonte alla logica sistematica, osservano i Giudici costituzionali che con effetti molto meno favorevoli per l’imputato di quelli che vincolano la pronuncia ex art. 649 c.p.p., l’art. 4 del Prot. n. 7 della CEDU, secondo paragrafo, ammette la compatibilità con la Convenzione di una vistosa deroga al divieto di secondo giudizio, se fatti sopravvenuti o nuove rivelazioni sono in grado inficiare la sentenza (dunque anche quella di assoluzione) già passata in giudicato, mentre la Corte EDU si è pronunciata sulla necessità di bilanciare il divieto di bis in idem con gli artt. 2 e 3 della Convenzione, con conseguente inoperatività del divieto in presenza di crimini contro l’umanità.
Ben più rigida, invece, nel sistema processuale italiano la salvaguardia del giudicato, il quale, pur non del tutto insensibile a revisioni (vedi, oltre ai casi tassativamente elencati dall’art. 630 c.p.p. – e solo per le sentenze o i decreti penali di condanna - i recenti interventi della Corte di Cassazione sulle pene dell’art. 73 DPR n. 309/1990), non tollera di essere rimesso in discussione per effetto di fatti sopravvenuti e qualunque sia il reato per cui si procede.
In definitiva, dunque, la Convenzione impone agli Stati membri di applicare il divieto di bis in idem in base ad una concezione naturalistica del fatto, ma non di restringere quest’ultimo nella sfera della sola azione od omissione.
Questo, invece, esclude che possa assumere rilevanza l’idem legale, inteso quale differente qualificazione giuridica o ridefinizione della cornice normativa in un'accezione ampia della medesima (ad esempio con riferimento a profili circostanziali) di uno stesso fatto storico.
Del resto, che l’identità del fatto vada ricercata nel fatto naturalistico e non nella astratta dimensione normativa (come orientamento minoritario sembra indicare) è ben espresso dalla Corte di Cassazione con la sentenza, a Sez. Un. n. 34655 del 28.06.2005: l’identità del fatto sussiste quando via sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona.
La seconda parte della sentenza affronta, poi, il tema dei rapporti tra divieto di secondo giudizio e concorso formale di reati.
Il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità nega l'operatività del divieto quando il reato sul quale si è consolidato il giudicato concorre formalmente con altro contestato in separato procedimento.
Dunque, al medesimo fatto storico, empiricamente valutato, possono agganciarsi più fattispecie di reato, espressive di differenziate esigenze di tutela.
Si tratta di un istituto di diritto sostanziale che – osservano i Giudici costituzionali – non interferisce con quello processuale del ne bis in idem eppure nella giurisprudenza della Corte di Cassazione i due profili processuale e sostanziale hanno sempre trovato una sintesi compositiva; così il Giudice, in presenza di un'ipotesi di riconducibilità del fatto a più ideal-tipi, non deve attardarsi a ricercare elementi costitutivi di natura empirica, risultando la via del secondo processo già segnata.
La Corte Costituzionale prende atto di tanto e senza mettere mano, almeno negli intenti dichiarati, a questo risultato ermeneutico, incide profondamente la disposizione dell'art. 649 c.p.p..
La prima osservazione concerne il riproporsi del tema del idem legale appena escluso dalla nozione di stesso fatto, posto che proprio la struttura del concorso formale impone di recepire quei dati di pretta natura normativa che, invece, non devono involgere il fatto.
Ebbene, questi presupposti denunciano il contrasto con l'art. 4 Prot. n. 7 della CEDU che, invece, dispone il divieto del secondo giudizio sul fatto storico-naturalistico, ancorché con i contenuti sopra indicati; da qui la violazione costituzionale dell'art. 117.
Contrasto svelato con ancora maggiore evidenza, peraltro, dai limiti che quella stessa giurisprudenza di legittimità frappone tra l'automatismo del secondo giudizio per medesimo fatto attratto dal concorso formale; limiti individuati nelle pronunce di assoluzione perché il fatto non sussiste o perché l'imputato non l'ha commesso nel primo processo, col fine di evitare il rischio di conflitti di giudicato.
Dunque, anche nel caso di concorso formale il metro per valutare la medesimezza del fatto resta quello empirico del fatto storico-naturalistico e il giudizio potrà concludere per la simmetricità tra primo e secondo fatto solo ove si riscontri la coincidenza degli elementi della condotta, dell'evento, del nesso causale.
Con riferimento ai fatti relativi alle malattie professionali connesse all'esposizione all'amianto, in termini concreti, occorrerà allora vagliare se la morte e/o le lesioni siano già state specificamente considerate, unitamente al nesso di causalità con la condotta dell'imputato, cioè se dal fatto giudicato sia nei suoi elementi materiali realmente il medesimo, anche se diversamente qualificato per il titolo, per il grado e per le circostanze.
La pronuncia non aggiunge altro e, sebbene l'ultimo suo passaggio illumini il percorso che il Giudice dovrà battere, risulta forse ancora da chiarire come possa sciogliersi il dubbio sulla medesimezza del fatto con giudizio fondato sulla ricerca di quegli elementi fattuali nel primo processo quando questo, come nel caso che occupa, si sia concluso con una dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione.
Il dubbio, in altri termini, è che innanzi all'impossibilità materiale di sondare i profili di stretta fattualità il giudizio, inevitabilmente ipotetico, scivoli ancora una volta sul versante legale astratto.
Del resto, l'incidenza non vincolante della prescrizione rispetto ad effetti penali, come la confisca, è stata anch'essa oggetto di scrutinio costituzionale con la sentenza n. 49 del 14.01/01.04.2015, ma la Corte ha specificato che intanto è possibile l'applicazione della confisca, in quanto, anche solo incidentalmente, esista un giudizio sul fatto.
Quale giudizio dovrà allora esercitare il Giudice per stabilire la medesimezza del fatto in assenza di un qualsivoglia accertamento della condotta-evento-nesso causale, peraltro, in costanza di un prevalente orientamento di legittimità per il quale «La formula di proscioglimento nel merito prevale sulla dichiarazione di improcedibilità per intervenuta prescrizione soltanto nel caso in cui sia rilevabile, con una mera attività ricognitiva, l'assoluta assenza della prova di colpevolezza a carico dell'imputato ovvero la prova positiva della sua innocenza, e non anche nel caso di mera contraddittorietà o insufficienza della prova che richiede un apprezzamento ponderato tra opposte risultanze» (Cass. Pen. 10284/2014).
Si tratta di interrogativo forse ingenuo che, tuttavia, richiederà un'attenta uso dei criteri indicati dalla Corte.
Per quanto concerne, tuttavia, le due fattispecie di cui all'art. 434 e 437 c.p. a confronto con quella di omicidio, qualche considerazione è in ipotesi già spendibile.
Intanto, il delitto di disastro innominato neanche contempla l'evento morte, neanche al verificarsi del disastro, e la stessa Corte ha spiegato che il pericolo per la pubblica incolumità denota la messa a repentaglio di un numero non preventivamente individuabile di persone, in correlazione alla capacità diffusiva propria degli effetti dannosi dell'evento qualificabile come disastro (Corte Cost. n. 327 del 30.07/06.08.2008)
La Corte, infine, è intervenuta anche sul delitto di cui all'art. 437 c.p., in merito a questione di illegittimità costituzionale della norma per contrasto con gli art. 3 e 24 Cost. nella parte in cui la norma configura il reato di rimozione od omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro e non prevede cautele contro il rischio scaturente dalle malattie professionali (la nozione di infortunio sul lavoro, pur elastica, è contenuta nell'art. 2 R. D. n. 1765/1935 e coincide con l'alterazione dell'organismo determinato da causa violenta in occasione del lavoro da cui sia derivata la morte o un'inabilità permanente al lavoro, assoluta o parziale, ovvero un'inabilità temporanea assoluta che comporti l'astensione dal lavoro per più di tre giorni).
Ebbene, la Corte ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione, poiché l'eventuale accoglimento avrebbe comportato l'estensione in malam partem di una fattispecie incriminatrice preclusa dal principio di riserva di legge sancito dall'art. 25, pur rilevando incidentalmente che l'eguale trattamento delle due ipotesi risponda al criterio della piena e razionale tutela dell'ambiente di lavoro e sia stato disposto in altra normativa (ordinanza Corte Cost. n. 232 del 15.07.1983), così di fatto sollecitando un intervento legislativo, non verificatosi.