La Corte costituzionale con sentenza del 4 dicembre 2019, n. 253 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 bis comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), «nella parte in cui non prevede che, ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416 bis cp e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58 ter ord. pen.; allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti».
Fra i diversi temi posti dalla decisione del Giudice costituzionale, sembra utile soffermarsi sulle ripercussioni pratiche che un siffatto intervento comporta, soprattutto in ordine all’applicabilità della disciplina di cui all’art. 58 ter ord. pen., rubricato “Persone che collaborano con la giustizia”. In particolare, è lecito domandarsi se, in virtù di tale pronuncia, l’art. 58 ter continui a sopravvivere nella disciplina dei permessi premio ex art. 30 ter legge 26 luglio 1975, n. 354, oppure debba ritenersi travolto.
A tal proposito, risultano utili alcune premesse circa le origini storico-politiche, che hanno portato il legislatore nel biennio tra il 1991-1992 ad intervenire sulla materia dell’ordinamento penitenziario. Le diverse modifiche legislative succedutesi nel tempo riguardo la categoria dei reati rientranti nell’art. 4 bis legge 26 luglio 1975 n. 354, hanno avuto da sempre il fine comune di far fronte alle diverse esigenze di politica criminale di volta in volta emergenti in base al contesto storico, sociale, culturale di riferimento.
Pertanto, l’introduzione dell’art. 4 bis ord. pen. ad opera del dl 13 maggio 1991, n. 152, recante provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata, convertito nella legge 12 luglio 1991, n. 203, successive modifiche, costituisce quello che viene comunemente definito “doppio regime penitenziario”[1]. La peculiarità di codesto articolo, in special modo del comma 1, risiede, infatti, nell’aver creato le basi di una normativa volta a privare taluni soggetti dei benefici, quali l’assegnazione al lavoro esterno (art. 21 ord. pen.), i permessi premio (art. 30 ter ord. pen.) e le misure alternative previste dal capo VI dell’ordinamento penitenziario, eccezion fatta per la liberazione anticipata.
Tale esclusione non avviene in seguito ad una valutazione psico-comportamentale dei detenuti, rimessa al magistrato, perché considerati, ad esempio, inidonei rispetto al raggiungimento dell’obiettivo trattamentale o poiché ritenuti socialmente pericolosi come avviene nella disciplina ordinaria, bensì, si fonda sulla natura del reato commesso che si configura come preclusiva a qualsivoglia beneficio. Di qui, le numerose questioni sorte in ordine alla violazione di cui agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. circa il fine “rieducativo” della pena, che sembra interdetto ai condannati la cui domanda di accesso ai benefici deve sottostare ad un più stringente meccanismo di accoglimento, ovvero, quello della collaborazione con la giustizia ex art. 58 ter L. 26 luglio 1975, n. 354, introdotta con il dl n. 152 del 1991. Prima di ciò, infatti, i detenuti ristretti per uno dei delitti di cui al comma 1 dell’art. 4 bis ord. pen. che decidevano di non collaborare, potevano accedere ai benefici penitenziari ove fossero state acquisite sufficienti informazioni da cui poter desumere l’insussistenza dei collegamenti con il sodalizio criminale.
La disciplina della collaborazione è stata poi inserita ad opera del decreto-legge 8 giugno 1992 n. 306, convertito nella legge n. 365/1992 (“Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa”), nel primo comma dell’art. 4 bis ord. pen.
Dal fenomeno della criminalità organizzata radicatosi in quei tempi è discesa l’esigenza, avvertita fortemente dal legislatore, di far prevalere, nel giudizio di bilanciamento tra l’interesse alla prevenzione speciale/rieducazione del condannato e quello alla prevenzione generale/difesa sociale, quest’ultimo. Tale modo di procedere sembra essere stato scelto in sede legislativa come metodo più idoneo ed efficace per salvaguardare diffusamente non solo i diritti del condannato, ma anche quelli della collettività. L’allora Ministro Guardasigilli proponente ha presentato la collaborazione come «l’arma più efficace per contrastare la criminalità organizzata»[2].
L’art. 58 ter ord. pen., nel definire il comportamento dei collaboranti, accosta sotto la stessa nozione di “collaborazione con la giustizia” due diversi tipi di condotta: «la prima essersi adoperati per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori - cosiddette condotte riparative post-delictum – la seconda aver aiutato concretamente l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori di reato, inquadrabile nel tipo della collaborazione processuale».[3]
In virtù di ciò, al Tribunale di sorveglianza, è affidato il compito di verificare la collaborazione in relazione al dato storico e a quanto riportato nella sentenza di condanna, in seguito alla presentazione di una istanza prodromica da parte del detenuto, volta a far accertare l’avvenuta o l’impossibile collaborazione[4], rispetto all’eventuale concessione del beneficio del permesso ex art. 30 ter ord. pen. da parte del magistrato di sorveglianza.
Orbene, per i reati cosiddetti di prima “fascia” di cui all’art. 4 bis, il «cui ambito di operatività è andato progressivamente ampliandosi con l’innesto di numerose altre fattispecie criminose nella lista dei reati “ostativi”»[5], la legittimazione del giudice ad «accertare l’an della condizione di cui all’art. 58 ter è funzionalmente connessa ad una pronuncia sull’applicazione delle misure premiali»[6], senza la quale, qualsiasi richiesta di concessione risulta inammissibile.
La Consulta, chinatasi in distinte occasioni sulla ratio dell’istituto della collaborazione in combinato disposto con il dettato normativo di cui all’art. 4 bis legge 354/1975, ha più volte sostenuto che la scelta del legislatore di elevare a criterio legale di valutazione la positiva condotta di collaborare con la giustizia, non rappresentasse per il condannato una preclusione assoluta, quanto piuttosto, una scelta dello stesso di agire o meno, ove fosse stato nella condizione di poterlo fare[7].
La ritenuta sussistenza della collaborazione o l’accertata impossibilità di apportarla, ha rappresentato da sempre il presupposto di accesso alle misure premiali, vestendo il ruolo di criterio di controllo della rottura dei collegamenti con la criminalità organizzata e di “sicuro ravvedimento del condannato”[8]. Tale sorta di presunzione assoluta delineava l’unica via per l’eventuale concessione delle misure alternative.
Di tutt’altro avviso sembra oggi essere invece la Corte, con riferimento al ruolo e al rilievo che gioca la collaborazione, la quale perde la pregnanza di presunzione assoluta, finendo con l’equiparare, sotto tale profilo, le posizioni di chi: «“oggettivamente può, ma soggettivamente non vuole”, “soggettivamente vuole, ma oggettivamente non può”»[9] e “soggettivamente vuole e oggettivamente può”.
Difatti, nella recente pronuncia i giudici costituzionali hanno ritenuto che la presunzione assoluta, di cui all’art. 4 bis comma 1 ord. pen., poiché superabile esclusivamente con l’istituto ex art. 58 ter, non consentisse al Tribunale di sorveglianza di valutare neppure le ragioni poste a fondamento della scelta di mantenere il silenzio da parte del condannato. Nell’ottica della disciplina antecedente alla pronuncia in esame, nell’ipotesi di detenuto ristretto per uno dei delitti ostativi di cui al comma 1 dell’art. 4 bis, la scelta di non collaborare -pur potendolo- era automaticamente indice di un mancato distacco dal sodalizio criminale. Ancora, la Corte ha sottolineato, sulla scia di passate sentenze, che «le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di uguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit»[10], nonostante siano ben note le ragioni di una tale estensione, volte a far fronte al fenomeno della criminalità organizzata radicata e presente sul nostro territorio malgrado il trascorrere del tempo.
Sotto questo profilo, la soluzione offerta oggi dalla Corte sembra ricongiungersi, in parte, con l’impostazione precedente all’intervento emergenziale varato dal Legislatore nel ’92. La differenza è desumibile, invero, con riguardo all’elemento additivo inserito dalla nuova pronuncia che richiede oltre al requisito storico dell’insussistenza dei collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva, anche l’assenza del pericolo di una loro ricostituzione.
Pertanto, la Consulta propone, al fine di superare l’avversa presunzione ed accertare l’insussistenza di una condizione negativa, lo strumento del regime di prova rafforzata consistente «nell’acquisizione di elementi che escludono non solo la permanenza di collegamenti con la criminalità organizzata, ma altresì il pericolo di un loro ripristino, tenuto conto delle concrete circostanze personali»[11].
L’aspetto della collaborazione lascia, quindi, il suo posto ad un nuovo parametro di valutazione: “l’attualità dei collegamenti”. Tuttavia, esso, è necessario ma non sufficiente. Precisamente, il nuovo regime probatorio rafforzato prevede che debbano esseri assunti ulteriori elementi da cui desumere l’assenza di un pericolo di ripristino di collegamenti con il sodalizio criminale ricavabili, come suggerito nella stessa pronuncia, dalle circostanze personali e ambientali del detenuto. Su quest’ultimo, d’ora in avanti, graverà l’onere di allegazione, di quanto sin qui detto.
L’orientamento prevalente, in dottrina e giurisprudenza, cui aveva già aderito la Corte costituzionale circa la portata dell’art. 4 bis ord. pen., è quello di non ritenere il pentimento come automatismo della scelta di collaborare, affermando, piuttosto che, una condotta collaborativa «ben può essere frutto di mere valutazioni utilitaristiche»[12] e che, pertanto, «l’equazione “collaborazione=ravvedimento” è sbagliata in entrambe le direzioni, fintantoché si può avere “collaborazione senza ravvedimento” e “ravvedimento senza collaborazione”».[13]
Infatti, sebbene il legislatore, abbia introdotto la presunzione dell’effettivo ravvedimento in caso di collaborazione -volendo raggiungere un compromesso tra l’esigenza dello Stato di reprimere condotte criminali gravi e la necessità di garantire ai detenuti anche nell’ipotesi di commissione di delitti c.d. ostativi, la possibilità di accesso alle misure alternative- non può negarsi che, nella prassi, il carattere premiale dell’istituto ne abbia incentivato il ricorso da parte dei condannati al fine di vedersi valutata l’istanza di concessione del beneficio, senza che ciò presupponesse un sincero pentimento. Sembra opportuno precisare in un’ottica generale che l’utilitarismo è fisiologico nel nostro sistema penitenziario, anche nel caso di detenuti non ristretti per delitti di cui al comma 1 dell’art. 4 bis ord. pen. Ciò non vuol dire, però, che tale comportamento debba essere necessariamente inteso in una accezione negativa, anzi, l’esperienza insegna che gli strumenti premiali messi a disposizione dal legislatore rappresentino un incoraggiamento e punto di partenza per il detenuto.
Al contempo, bisogna considerare che nella pratica l’indagine dell’elemento del reale ravvedimento nella condotta collaborativa non sembra essere stato rilevante ai fini dell’utilità della collaborazione stessa né appare aver compromesso la funzionalità dell’istituto: infatti è ragionevole ipotizzare che i risultati raggiunti, nel contrasto al fenomeno mafioso, non sarebbero stati conseguiti in assenza della collaborazione ai sensi del 58 ter ord. pen.
A suffragio dell’orientamento prevalente che ritiene inesatta l’equivalenza tra collaborazione/ravvedimento bisogna altresì considerare l’ipotesi della collaborazione impossibile, irrilevante e inesigibile.
In virtù dei cambiamenti auspicati e delle considerazioni svolte dalla recente sentenza della Corte costituzionale in oggetto, sembrerebbe non più sussistente l’istituto della collaborazione in relazione alla concessione del permesso ex art. 30 ter ord. pen.
Pare, infatti, venuto meno l’interesse giuridico che legittimava il procedimento di cui all’art. 58 ter ord. pen., in considerazione del fatto che, l’accertamento della collaborazione o “non collaborazione giustificata” era finalizzato esclusivamente a superare l’ostatività derivante dalla presunzione assoluta, eliminata da tale pronuncia.
L’introduzione del nuovo regime probatorio rafforzato rappresenta un iter procedimentale già previsto al comma 1 bis dell’art. 4 bis ord. pen. Questo, infatti, per i delitti di cui al comma 1 e per i detenuti la cui collaborazione, accertata nella sentenza, sia stata riconosciuta come impossibile, irrilevante o inesigibile prevede che ai fini della concessione dei benefici sia necessaria l’acquisizione di elementi tali da escludere l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, vigendo altresì, la disciplina ex comma 3 bis art. 4 bis ord. pen. che prevede l’impossibilità di concedere qualsiasi tipo di beneficio nel caso in cui le informazioni rese dal procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo o dal procuratore distrettuale, d’iniziativa o su segnalazione del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica competente in relazione al luogo di detenzione, attestino l’attualità di collegamenti con il sodalizio criminale.
Pertanto, che senso avrebbe accertare l’avvenuta collaborazione se poi gli accertamenti successivi son diventati oggi invece gli unici accertamenti da effettuare nell’ipotesi di condannato non collaborante? Ma soprattutto, dal momento che la qualità di “collaboratore” di giustizia «non può formare oggetto di un’autonoma pronuncia dichiarativa fine a se stessa, mirante al riconoscimento di una situazione assimilabile a uno status e indipendente dalla richiesta di benefici»[14], bensì deve rientrare nella determinata cornice di richiesta del beneficio, vi sarà davvero qualcuno che continuerà a seguire la strada di cui al 58 ter, non più necessaria, per richiedere l’eventuale concessione del permesso ai sensi dell’art. 30 ter ord. pen.?
Invero la pronuncia della Consulta nella parte conclusiva si esprime così: «Visto l’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, va perciò dichiarata in via consequenziale l’illegittimità dell’art. 4 bis comma 1, della legge n. 354 del 1975, nella parte in cui non prevede che hai detenuti per i delitti ivi contemplati, diversi da quelli di cui all’art. 416 bis cp e da quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58 ter del medesimo ord. pen., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti». Orbene, trattandosi dunque di una sentenza di accoglimento per illegittimità consequenziale, sembra necessario dover riflettere sul ruolo dell’art. 58 ter ord. pen. Miratamente, il riferimento è alla collaborazione impossibile, irrilevante, inesigibile, dal momento che nulla cambia per quanto attiene la collaborazione “classica”, il cui privilegio risiede ancora nel fatto di eliminare gli ostacoli temporali stabiliti dal comma 4 dell’art. 30 ter ord. pen.
Nell’art. 27 l. n.87/1953, in particolare nella seconda parte, la Corte oltre ad accogliere una istanza relativa a questione di legittimità costituzionale, nel rispetto del principio del chiesto e pronunciato, «dichiara, altresì, quali sono le altre disposizioni legislative, la cui illegittimità deriva come conseguenza dalla decisione adottata». Previsione, questa, inserita al fine di scongiurare il pericolo che una legge resti in vigore «quando un’altra, che ne costituisce il necessario presupposto e fondamento, sia dichiarata illegittima»[15]. Il punto focale della questione risiede nel fatto che, tale disposizione, è stata nel corso del tempo, «interpretata estensivamente dai giudici costituzionali, i quali utilizzano di fatto la dichiarazione di illegittimità costituzionale consequenziale in una ampia serie di ipotesi»[16]. Bensì, l’art. 58 ter non si presenta, forse, come strumentale e strettamente connesso al comma 1 dell’art. 4 bis ord. pen., che oltretutto ne fa un richiamo e rimando esplicito? D’altro canto, è lo stesso art. 58 ter ord. pen. a dare corpo alla presunzione assoluta che ha portato alla presente pronuncia. Inoltre, parrebbe lecito domandarsi quale senso abbia la differenza tra le varie tipologie di collaborazione, se la conseguenza è in ogni caso il regime di prova rafforzata richiesto al detenuto non collaboratore.
La Consulta, che in passato aveva già affrontato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 bis comma 1 ord. pen., era intervenuta a porre rimedio all’irragionevolezza del trattamento fra soggetti nella condizione di collaborare e condannati impossibilitati a farlo, ammettendo come valido requisito d’accesso ai benefici lo strumento della collaborazione impossibile, inesigibile, irrilevante (Sent. N. 306 del 1993; Sent. N. 357 del 1994; Sent. N. 68 del 1995). Anche su questo sembra fondarsi il recente indirizzo della Corte di Cassazione, orientato a ritenere che la dichiarazione di incostituzionalità di cui alla Sentenza n. 253 abbia travolto altresì l’istituto della collaborazione impossibile, inesigibile e irrilevante dal momento che son venute meno le ragioni che avevano portato il legislatore ad introdurre una siffatta possibilità[17]. In particolare, i giudici di legittimità in una delle loro pronunce, affermano espressamente che: «Di conseguenza, risulta evidente anche il venir meno dell’interesse del detenuto a far accertare l’insussistenza di margini per una sua utile collaborazione con la giustizia, posto che la sua ammissione o meno alla fruizione dei permessi-premio resta correlata alla verifica dell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata o comunque del pericolo di ripristino di detti legami»[18].
Tuttavia, una simile interpretazione della sentenza n. 253/2019, comporterebbe non poche ripercussioni nei confronti di coloro la cui collaborazione potrebbe essere riconosciuta come impossibile, inesigibile, irrilevante. Invero, l’elemento additivo di dover verificare l’assenza dell’eventuale “pericolo di ripristino di collegamenti” con la criminalità organizzata, rispetto alla già vigente acquisizione di elementi tali da escludere l’attualità dei collegamenti con i sodalizi, rappresenterebbe, per questi, un elemento in peius rispetto al pregresso procedimento.
Pertanto, dal rimuovere una situazione di ostatività per i non collaboratori, sembrerebbe verificarsi una modifica peggiorativa della condizione dei detenuti la cui collaborazione potrebbe essere impossibile, inesigibile, irrilevante.
A tal proposito bisogna, però, dar conto, di una recente pronuncia della Suprema Corte[19], che ha rivalutato il suddetto orientamento. Questa, in primo luogo, evidenzia che la sentenza della Consulta non coinvolge l’istituto della collaborazione impossibile, irrilevante e inesigibile. Invero, se da una parte viene sottolineato che il parametro dei collegamenti con la criminalità organizzata è un aspetto già contenuto nell’attuale disposizione normativa, dall’altra l’elemento “del pericolo di un loro ripristino” viene interpretato come un requisito probatorio ulteriore che evidenzia le differenze sussistenti tra la collaborazione impossibile, irrilevante, inesigibile e la mancata collaborazione. Pertanto, una simile interpretazione, rintraccerebbe per la collaborazione impossibile/inesigibile un regime di prova attenuato giacchè per il suo riconoscimento sarebbe sufficiente l’assenza di collegamenti e non anche del pericolo di un loro ripristino. Infatti, nella lettura della Corte di Cassazione, i due citati elementi vengono considerati distinti e richiesti in via cumulativa in caso di mancata collaborazione volontaria, ricostruzione che induce i giudici di legittimità a concludere nel senso di escludere il superamento della collaborazione impossibile/inesigibile.
Perciò, diversamente, una interpretazione implicitamente abrogativa dell’istituto di cui all’art. 58 ter ord. pen. (ovviamente per il solo beneficio dei permessi-premio), finirebbe con l’aggravare irragionevolmente la posizione di quanti fanno valere l’impossibilità o inesigibilità della collaborazione poiché verrebbe richiesto l’ulteriore elemento dell’assenza di pericolo di ripristino rendendo maggiormente gravoso l’accesso al beneficio.
Al di là della ricostruzione giurisprudenziale in merito, appare necessario concentrarsi anche sul ruolo che la Corte costituzionale intende assegnare alla collaborazione ai sensi dell’art. 58 ter ord. pen. mettendo da parte l’individuazione di un “tertium genus”[20]: a seguito dell’interpretazione della Consulta più che propendere nel senso di rintracciare un’innovazione dell’ordinamento penitenziario, andando a ricercare un ulteriore strumento collaborativo, sembra possibile evidenziare l’intenzione di ridimensionare l’importanza della collaborazione ovvero di assegnarle una diversa portata.
In primo luogo, è possibile delineare una interpretazione per cui la mancata collaborazione non è più ostativa, pertanto, in carenza di questa, l’indagine si concentra sulla dimostrazione dell’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata e del pericolo di ricostituirli. Accogliendo tale lettura la valutazione imposta dall’art. 58 ter ord. pen. sembrerebbe divenire irrilevante.
Diversamente, ferma la centralità della collaborazione anche come elemento la cui assenza non è indice assoluto di pericolosità, si potrebbe ravvisare l’intenzione della Corte costituzionale di valorizzare le ragioni del suo venire meno. In questo secondo caso, diverrebbe, forse, fondamentale comprendere se il condannato versi effettivamente in una situazione di impossibilità a collaborare, o piuttosto, potendo, scelga di non farlo. Attraverso una simile impostazione, l’istituto della collaborazione sembrerebbe conservare il suo contenuto proprio e, anzi, determinare lo spostamento dell’indagine sulle ragioni che hanno influenzato le scelte del detenuto.
Orbene, è opportuno, dunque, domandarsi quali ricadute possa avere la scelta dei Giudici costituzionali di sostituire la presunzione assoluta con una presunzione relativa che «possa essere vinta da prova contraria»[21] con riferimento alle misure alternative, laddove la decisione della Consulta ha avuto ad oggetto l’impossibilità per un condannato -per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416 bis cod. pen., ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste e che non abbia collaborato con la giustizia- di essere ammesso alla fruizione del permesso premio.
Ciò sotto un duplice profilo.
Da un lato, si potrebbe ipotizzare che il nuovo elemento additivo costituito dal pericolo del ripristino dei contatti possa essere destinato a trovare applicazione anche con riguardo alle misure alternative e non solo al beneficio del permesso premio.
Dall’altro, per l’operatore sorge l’interrogativo più radicale, cioè se il peculiare regime di prova rafforzata possa valere anche con riguardo alle altre misure, sino ad ora precluse senza la collaborazione, elencate dal comma 1 dell’art. 4 bis ord. pen.
Da una parte, infatti, lo stesso giudice remittente fa presente come «il comma 1 dell’art. 4 bis ord. pen., non distinguendo tra i differenti benefici penitenziari, non consenta di valutare le peculiarità di ciascun istituto, richiedendo, piuttosto, la collaborazione tanto come prova necessaria per dimostrare il ravvedimento del condannato, quanto per un permesso premio che presuppone, invece “la più modesta regolare condotta”»[22]. Dall’altra, evidenzia che le peculiarità di un beneficio come il permesso premio risiedono nel fatto di non modificare le condizioni restrittive del condannato - contrariamente alle misure alternative - sottolineando, inoltre, l’essenzialità della concessione di un simile beneficio nel trattamento penitenziario.
A tal proposito appare eccessivo concludere nel senso di interpretare tale pronuncia in maniera totalmente estensiva nei confronti delle altre misure, avendone espressamente limitato il confine. E tuttavia, al contempo, la Corte sembra porre le basi per una futura apertura.
Invero, si è concordi nel ritenere che il beneficio del permesso premio di cui all’art. 30 ter ord. pen., circa l’aspetto dei requisiti richiesti per far si che possa essere concesso, non possa essere paragonato in toto alle altre misure alternative.
Dalla lettura della disposizione in oggetto, con particolare riferimento al comma 8, si evince che, superati gli ostacoli temporali dipendenti dalla condanna riportata, ai fini della concessione del beneficio «la condotta dei condannati si considera regolare quando i soggetti, durante la detenzione, hanno manifestato costante senso di responsabilità e correttezza del comportamento personale, nelle attività organizzate negli istituti e nelle eventuali attività lavorative o culturali».
Nondimeno, nella prassi dell’analisi della condotta del detenuto, son diversi gli elementi di cui tiene conto il magistrato di sorveglianza, che esulano dall’essere esclusivamente valutazioni di carattere intramurario. Difatti, le circostanze ambientali e personali circa il vissuto del condannato hanno un’importanza non secondaria anche nella concessione di un beneficio come il permesso, ovvero «breve e momentaneo»[23]. Sebbene le regole di accesso ad un simile beneficio potrebbero sembrare, ed in qualche modo lo sono, meno rigide rispetto a quelle richieste per poter fruire delle misure alternative di cui al capo VI dell’ordinamento penitenziario, bensì la peculiarità del permesso risiede nei benefici di cui costituisce il presupposto o la prima parziale verifica.
Indubbiamente, oltre ad essere finalizzato alla cura di interessi affettivi, culturali e di lavoro, rappresenta sicuramente una parte essenziale del trattamento rieducativo, vale a dire, il primo strumento concreto fornito al detenuto per riavere contatto con il mondo esterno. Dietro la concessione di ogni permesso c’è l’auspicio che quella occasione venga sfruttata nel migliore dei modi e che quel tempo, a volte indeterminato, trascorso in detenzione sia realmente servito a cambiare determinate abitudini di vita. Il permesso premio, nella pratica, consiste nel “primo assaggio” di “messa alla prova” del detenuto. Infatti, nessuna misura alternativa seguirà a questo se durante la sua fruizione si incorre in violazioni o comportamenti inadeguati; viceversa, l’esito positivo del/dei permessi rappresenta un metro di paragone importante nella valutazione dell’assegnazione delle misure. Di più, il beneficio di cui all’art. 30 ter ord. pen., rappresenta il punto di partenza per raggiungere l’eventuale concessione di una misura alternativa. Senza una sua riuscita difficilmente il percorso rieducativo potrà evolversi.
Proprio in considerazione di ciò emergono riflessioni. La soluzione offerta dalla Corte è quella di dover valutare, nel caso concreto, le svariate ragioni che hanno indotto il condannato a mantenere il silenzio, come ad esempio: i timori per la propria e altrui incolumità, in particolare di congiunti e familiari, che magari non possono allontanarsi dai luoghi di origine; il rifiuto di causare la carcerazione di altri e ancora, il rifiuto di accedere alla collaborazione soltanto come mero calcolo utilitaristico.
Trattandosi di circostanze personali/ambientali che difficilmente potranno cambiare nella vita del detenuto, se possono essere sufficienti a giustificare la scelta di non collaborare nell’ottica esclusiva della concessione del permesso premio, come fanno i medesimi motivi posti alla base di tale condotta non collaborativa a non valere anche per le altre misure?
Poniamo il caso di un condannato che all’esito del percorso disegnato dalla Corte costituzionale e delle valutazioni effettuate dal magistrato di sorveglianza abbia ottenuto il permesso premio e ne fruisca a lungo senza evidenziare criticità. È qui, nel momento in cui la richiesta di accesso alle misure alternative diviene parte naturale del percorso, che, tuttavia, il detenuto vedrà dichiarata inammissibile la propria istanza, non potendo il Tribunale valutare i progressi svolti a causa della mancata collaborazione prevista per l'ammissione alle misure di cui al capo VI ordinamento penitenziario. Dunque, il fine rieducativo della pena è destinato a non progredire. Non sarà, allora, forse quello il punto più alto dell’irragionevolezza della normativa di cui al comma 1 dell’art. 4 bis ord. pen., che se da una parte supera la presunzione assoluta la ripropone poco dopo?
Un’ultima riflessione merita l’aspetto relativo all’intervento dell’interprete circa l’acquisizione delle informazioni dal comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica.
Invero, l’attuale disciplina dell’art. 4 bis al comma 3 bis ord. pen. prevede espressamente che la competenza territoriale del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza cui richiedere le informazioni debba essere quella del luogo di detenzione o internamento del condannato[24], sebbene non sia affatto detto che tale collocazione territoriale sia quella più pertinente.
Diversamente la Consulta nella sentenza in esame (par. 9), richiamando il disposto del comma 3 bis, si limita a fare riferimento ad una generica competenza del comitato provinciale, senza ulteriore specificazione del criterio in base al quale questa si radica; altresì, nell’inciso conclusivo del medesimo paragrafo si fa riferimento alle informazioni “ricevute in materia dalle autorità competenti prima ricordate” precisando il ruolo del «comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica».
Privilegiando la lettura sistematica del testo della sentenza, il rimando al comma 3 bis dell’art. 4 bis ord. pen. accompagnato da una mera qualificazione del comitato provinciale come “competente” ed il successivo richiamo alle “autorità competenti prima ricordate” sembra far emergere la volontà della corte di riferirsi al criterio di competenza normativamente stabilito, seppur non specificato. D’altra parte, però, guardando al dato letterale della pronuncia, la “genericità” delle espressioni utilizzate in merito potrebbero permettere all’interprete di considerare altri e diversi criteri per determinare quale sia il comitato di riferimento competente o magari di valutarli caso per caso. La questione è di non poca rilevanza, poiché se si accoglie il secondo indirizzo è lecito chiedersi quali possano essere le regole in base alle quali determinare il comitato cui richiedere le informazioni circa l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata. Invero la rilevanza del tema si ridimensiona, se si considera che nulla esclude che il magistrato di sorveglianza possa estendere la richiesta di informazioni a più di un comitato provinciale, sul presupposto che il comitato radicato sul territorio operativo dell’associazione, quasi sicuramente diverso da quello del luogo di detenzione, potrebbe plausibilmente disporre di informazioni più approfondite e complessive sul gruppo associativo.
Dunque, rispetto a quanto detto finora, può notarsi come siano diversi gli spazi “problematici” che la pronuncia della Corte porta con sé o comunque lascia insoluti. Ebbene, pur rintracciandosi l’esigenza di intervenire in materia penitenziaria -soprattutto in seguito alla sentenza Viola contro Italia (13 giugno 2019), con cui la Corte EDU ha condannato il nostro paese per l’attuale assetto dell’ergastolo ostativo- le questioni sollevate dalla Corte oggetto del presente contributo, fanno emergere ulteriori criticità relativamente alla disciplina di cui all’art. 4 bis comma 1 ord. pen., non ultimo lo stesso tema dell’ergastolo ostativo. A tal proposito, infatti, l’aspetto dell’eterogeneità del catalogo dei reati ostativi previsti nel comma uno (cui la Corte ha esteso in via consequenziale la questione di illegittimità sollevata con riguardo all’art. 416 bis cp), cui corrisponde -per tutte le ipotesi ivi indicate- una disciplina costruita intorno alla collaborazione o ai collegamenti criminali, rappresenta ancora un nodo da sciogliere, forse, il primo fra tutti.
Invero, l’art. 4 bis -in particolare il riferimento è al comma 1- legge n. 354/1975, ha rappresentato e rappresenta tutt’oggi il mezzo tramite cui il legislatore, a partire dalla riforma dei primi anni Novanta, ha cercato non solo di contrastare il fenomeno della criminalità organizzata bensì, anche, di porre rimedio agli insuccessi conseguenti alla concessione delle misure premiali nei confronti di quei condannati ritenuti di elevata pericolosità sociale. Potrebbe, pertanto, dirsi che tale disposizione, sia diventata nel corso del tempo una norma “contenitore” per far fronte alle più disparate esigenze criminali, unificando, assai problematicamente, approcci e situazioni eterogenee.
La scelta della Corte costituzionale di rimuovere l’ostatività e di conferire, probabilmente, un nuovo ruolo all’istituto della collaborazione -asse portante della lotta alla criminalità organizzata- allude implicitamente all’eventualità che sia venuta meno la situazione emergenziale che ha giustificato -sino ad ora- tale impianto normativo, sebbene la Consulta abbia apertamente escluso tale circostanza. Inoltre, numerose sono le interpretazioni o le declinazioni possibili del “rivisitato” istituto della collaborazione ed altrettanto complessi sono i profili relativi alla sopravvivenza di questa non solo con riguardo al beneficio del permesso premio, cui è indirizzata la presente pronuncia, bensì anche nei rapporti con le diverse misure alternative.
In virtù delle considerazioni su esposte, delle perplessità che talune di esse suscitano e della criticità delle ripercussioni pratiche che la ricostruzione normativa disposta dalla Corte costituzionale comporta, sembra plausibile l’intervento del Legislatore, finalizzato a sciogliere o affrontare i molti profili ancora aperti o resi ancor più evidenti dalla sentenza in esame, pur nella consapevolezza della delicatezza di una operazione su questi temi data la particolare congiuntura culturale e politica.
[1] In questi termini C. Fiorio, Il “doppio binario” penitenziario, Convegni-Archivio Penale 2018, n.1, p.3; per approfondimento circa il contenuto dell’art. 4 bis ord. pen.: F. Fiorentin, Esecuzione penale e misure alternative alla detenzione, Giuffrè Editore, Milano, 2013.
[2] Sentenza Corte costituzionale n. 306 del 1993.
[3] F. Fiorentin, A. Marcheselli, Il giudice di sorveglianza. La giurisprudenza dei Tribunali e dei magistrati di sorveglianza, Giuffrè Editore, Milano, p. 216.
[4] La collaborazione impossibile, inesigibile, irrilevante è nata in un secondo momento, rispetto all’ipotesi tradizionale, ed è stata opera della Corte costituzionale. Invero, recependone le indicazioni in diverse sentenze (n. 306/1993; n. 357/1994; n. 68/1995) l’art. 4.bis ord. pen., comma 1 bis, estende la possibilità di accesso ai benefici ai casi in cui un’utile collaborazione con la giustizia risulta inesigibile: per la limitata partecipazione del condannato al fatto criminoso accertata nella sentenza di condanna, ovvero impossibile: per l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità, operato con la sentenza irrevocabile; nonché ai casi in cui la collaborazione offerta dal condannato si rivelava “oggettivamente irrilevante”, sempre che, in questa evenienza, fosse stata applicata al condannato taluna delle circostanze attenuanti di cui all’art. 62 cp n.6), artt. 114 o 116 cp.
[5] Come sottolinea la Consulta nella sentenza n. 253/2019.
[6] A. Bernasconi, Cass. Pen. 1997, III, Indissolubile il legame tra collaborazione con la giustizia e benefici penitenziari? p. 3570.
[7] In particolare, Sent. Corte Cost. n. 306/1993; Cass. Pen., Sez. I, Sent. n. 15982/2013, ha giudicato “manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3, 24, 27 e 117 Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, all'art. 7 del Patto internazionale sui diritti civili e politici e all'art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, la questione di legittimità costituzionale degli artt. 4 bis, comma primo, e 58 ter della legge 25 luglio 1975, n. 354, nella parte in cui subordinano la concessione dei benefici penitenziari (nella specie, permessi premio) ai condannati alla pena dell'ergastolo per uno dei delitti previsti dall'art. 4 bis, comma primo, cit. alla collaborazione con la giustizia, poiché tale disposizione consente al detenuto di scegliere se collaborare o meno, nonché di modificare la propria scelta, in ogni caso fruendo delle garanzie previste dagli art. 210 e 197 bis cod. proc. pen., e trova, inoltre, un limite quando la collaborazione è impossibile perché inesigibile o irrilevante” nel contributo di S. Romice, La collaborazione impossibile. Note sui margini di superamento dei divieti di cui all’art. 4-bis o.p., in Giurisprudenza Penale (rivista web), p. 19.
[8] In questi termini si è espressa la Consulta nel definire il ruolo della collaborazione con la giustizia nella sentenza n. 273 del 2001.
[9] A. Ricci, Riflessioni sull’interesse del condannato per delitto ostativo e non collaborante all’accertamento di impossibilità o inesigibilità di utile collaborazione con la giustizia ex art. 4-bis, comma 1-bis, o.p. a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 253 del 2019, in Giurisprudenza Penale (rivista web), p. 9.
[10] Il riferimento della Corte è alla sentenza n. 286 del 2016; in precedenza sentenze: n. 185 del 2015, n. 232, n. 213 e n. 57 del 2013, n. 291, n. 265, n. 139 del 2010, n. 41 del 1999 e n. 139 del 1982.
[11] In questi termini si è espressa la Consulta al paragrafo 9 della sentenza in esame.
[12] Corte costituzionale Sent. n. 306 del 1993, paragrafo 9 del “Considerato in diritto”.
[13] C. Musumeci, A. Pugiotto, Gli ergastolani senza scampo. Fenomenologia e criticità costituzionali dell’ergastolo ostativo, Editoriale scientifica, Napoli, 2016, p. 82.
[14] Corte di Cassazione, Sez. I, 18 gennaio 1999, n. 5885.
[15] Così in: Relazione illustrativa della legge n. 87 del 1953.
[16] M. Bellocci e T. Giovannetti, Il quadro delle tipologie decisorie nelle pronunce della Corte costituzionale, quaderno predisposto in occasione dell’incontro di studio con la Corte costituzionale di Ungheria, Palazzo della Consulta, 11 giugno 2010, p. 24.
[17] Corte di Cassazione, Sez. Pen. I, Sent. n. 3309, 14 gennaio 2020; Sent. n. 3310/2020; Sent. n. 1636/2020.
[18] Corte di Cassazione, Sez. Pen. I, Sent. n. 3309, 14 gennaio 2020.
[19] Corte di Cassazione, Sez. Pen. I, 28 gennaio 2020, n. 5553.
[20] Per approfondimento vedi A. Ricci, Riflessioni sull’interesse del condannato per delitto ostativo e non collaborante all’accertamento di impossibilità o inesigibilità di utile collaborazione con la giustizia e art 4 bis, comma 1 bis, o.p. a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 253 del 2019, in Giurisprudenza penale (rivista web) particolarmente, paragrafo 7, p. 16.
[21] Vedi paragrafo 8 del “Considerato in diritto” della sentenza costituzionale n. 253/2019.
[22] Sentenza Corte costituzionale n. 253/2019.
[23] Sent. n. 253/2019 della Corte costituzionale, al paragrafo 8.3.
[24] Allo stesso modo, il comma 2 dell’art. 4 bis ord. pen. stabilisce che «ai fini della concessione dei benefici il magistrato di sorveglianza o il tribunale di sorveglianza decide acquisite dettagliate informazioni per il tramite del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica competente in relazione al luogo di detenzione del condannato».