1. La pronuncia delle Sezioni unite in tema di nullità selettiva
Con la recente sentenza n. 28314 del 2019 le Sezioni unite della Corte di cassazione inseriscono un nuovo tassello nel complesso e tormentato quadro dei rapporti tra banche (ed intermediari finanziari in genere) e loro clienti.
La questione che il collegio era stato chiamato a decidere può essere sintetizzata nei seguenti termini. Premesso che gli intermediari finanziari prestano i loro servizi d’investimento ai clienti sulla base di un cd. contratto quadro, destinato a disciplinare lo svolgimento successivo del rapporto e quindi anche l’esecuzione dei singoli ordini di acquisto poi impartiti dal cliente, e premesso altresì che l’art. 23 del Testo unico della finanza (Tuf) prescrive per tali contratti quadro la forma scritta a pena di nullità (comma 1), aggiungendo però che questa può esser fatta valere solo dal cliente (comma 3), si discuteva se il cliente possa agire per far dichiarare la nullità del contratto quadro per difetto di forma[1] al fine di travolgere le sole operazioni di acquisto poi rivelatesi per lui sfavorevoli e pretendere la restituzione degli investimenti relativi a quelle specifiche operazioni, tenendo ferme le altre che invece gli abbiano apportato benefici, oppure se la dichiarazione di nullità del contratto quadro debba necessariamente minare tutte le operazioni compiute in base a quel medesimo contratto. In quest’ultima eventualità ci si chiedeva poi se la banca convenuta possa domandare a propria volta, in via riconvenzionale, la restituzione di quanto versato al cliente in relazione alle operazioni derivanti dal contratto nullo che per il medesimo cliente si siano rivelate vantaggiose, o se le sia consentito soltanto di paralizzare in tutto o in parte l’azione del cliente eccependone l’inammissibilità in quanto volta a selezionare arbitrariamente a proprio vantaggio gli effetti della nullità fatta valere.
La risposta della Suprema corte si muove sostanzialmente, sia pure con qualche cautela, nella direzione da ultimo indicata. Viene infatti enunciato il principio di diritto secondo cui la nullità per difetto di forma del contratto quadro può esser sì fatta valere esclusivamente dall’investitore, solo a vantaggio del quale operano gli effetti processuali e sostanziali del relativo accertamento giudiziale, ma con l’avvertenza che, se la domanda sia diretta a colpire soltanto alcuni ordini di acquisto e ciò determini un sacrificio economico in danno dell’intermediario non giustificato alla luce dell’esecuzione complessiva degli ordini ricollegabili al medesimo contratto quadro, il convenuto può utilmente opporre all’attore un’eccezione di difetto di buona fede. La sentenza inoltre precisa che tale difesa, la quale non costituisce un’eccezione in senso stretto ma deve essere oggetto di specifica allegazione ad opera dell’intermediario convenuto, può paralizzare le pretese restitutorie dell’attore in tutto o in parte a seconda che gli investimenti non colpiti dall’azione di nullità abbiano prodotto per l’attore risultati positivi maggiori o minori di quelli generati dalle operazioni rivelatesi per lui negative.
Va peraltro rimarcato che, nel caso in questione, la domanda di accertamento della nullità aveva ad oggetto direttamente il contratto quadro, mirando di riflesso a travolgere i singoli ordini d’investimento eseguiti dall’intermediario che erano risultati svantaggiosi per il cliente. Ciò ha indotto la Corte a considerare unitariamente la fattispecie negoziale sottoposta al suo esame legando la sorte dei singoli ordini di investimento a quella del contratto quadro, ma da un passaggio della motivazione sembra di capire che il ragionamento avrebbe potuto essere diverso qualora i singoli ordini d’investimento fossero intervenuti in assenza di un contratto quadro (ancorché viziato) ed il cliente avesse dedotto in modo specifico la nullità solo di quelli da lui ritenuti sfavorevoli[2].
Una decisione come questa si può commentare da diversi punti di vista. Vi si può scorgere una (più o meno riuscita) operazione di bilanciamento tra opposte esigenze e contrastanti spinte provenienti dal corpo sociale; la si può leggere come un tentativo di dare una forma meglio definita all’ambigua figura giuridica della nullità relativa degli atti negoziali; o infine vi si può leggere come l’ulteriore manifestazione di una tendenza giurisprudenziale vieppiù incline a valorizzare i principi generali dell’ordinamento per integrare in via pretoria un quadro di disposizioni legali sovente lacunoso e disorganico. Proverò ad accennare a ciascuno di questi aspetti, nella piena consapevolezza del fatto che ciascuno di essi richiederebbe però un ben maggiore livello di approfondimento.
2. La ricerca di un punto di equilibrio nei rapporti tra banche e clienti
I rapporti tra banche e clienti sono divenuti, negli ultimi decenni, quanto mai tumultuosi ed anche nell’immaginario collettivo hanno talvolta assunto i tratti un po’ caricaturali di una vera e propria contrapposizione tra il mondo predatorio delle banche (poteri forti per definizione) ed il popolo dei risparmiatori, vittime ignare degli inganni tramati in loro danno da banchieri senza scrupoli[3]. Cercando di guardare le cose a mente fredda, credo sia innegabile che al ceto bancario debbono essere addebitate molte colpe. Della sconsiderata ed opaca gestione di alcuni importanti istituti di credito abbiamo avuto proprio in questi mesi dei vistosi esempi. Già da tempo, d’altronde, la trasformazione delle banche in soggetti operanti a tutto campo nel mondo della finanza ha innescato una serie di potenziali conflitti d’interesse con la clientela, che non sempre le banche medesime hanno saputo adeguatamente neutralizzare[4]. Il tutto inserito in uno scenario di generale finanziarizzazione dell’economia che ha per lungo tempo incoraggiato i risparmiatori (piccoli o meno piccoli) ad investire il proprio denaro in strumenti finanziari troppo sofisticati perché il singolo investitore possa davvero percepirne le caratteristiche e gli eventuali rischi. Da un lato li si è sollecitati con la prospettiva di facili guadagni speculativi, ma dall’altro lato li si è loro di fatto imposto sempre più di affidarsi alla competenza degli intermediari professionali ed, in primis, a quelli bancari. Non sorprende certo che il cattivo esito di alcuni investimenti generi perciò forti e diffusi risentimenti la cui eco si avverte anche nelle aule di giustizia.
Neppure va dimenticato, in questo quadro conflittuale e potenzialmente rischioso per il risparmio privato, come non di rado in passato vi siano state pressioni da parte del ceto bancario sul legislatore per ottenere provvedimenti di più o meno scoperto favore[5]. Ma d’altro canto il legislatore è spesso ondivago, ed naturalmente sensibile agli umori popolari, sicché non sorprende certo di riscontrare nella stessa legislazione anche una marcata tendenza a rafforzare gli strumenti di protezione dei risparmiatori nella loro veste di investitori più o meno piccoli.
Ne risulta che, inevitabilmente, anche il compito della giurisprudenza è divenuto più arduo: sia per la carenza di sistematicità e la conseguente minore leggibilità del quadro normativo di riferimento, sia per la difficoltà di bilanciare di volta in volta la sacrosanta tutela dei diritti e dei valori fondamentali di livello costituzionale (tra cui la tutela del risparmio) con la necessità di non farsi condizionare dalle spinte irrazionali innescate dalla corrente raffigurazione di questo tipo di scenario giudiziale come una sorta di sempre rinnovata contesa tra Davide e Golia.
Mi sembra che la sentenza della Suprema corte di cui si sta qui parlando fornisca un buon esempio di quanto sforzo richieda la ricerca di un punto di equilibrio tra queste contrapposte esigenze[6].
La Cassazione mostra di voler ribadire con forza l’importanza che sia assicurata in via di principio al cliente quel maggior grado di tutela, rispetto all’intermediario, che è reso necessario dalla naturale dissimmetria delle rispettive posizioni di partenza. Non è questo un campo in cui si possa invocare la tradizionale parità formale delle parti di un contratto, perché nella realtà esse pari non sono; e proprio in ciò evidentemente risiede la ragione per la quale il legislatore ha qui previsto un’ipotesi di nullità relativa, col significato di nullità di protezione. Il cliente necessita di un maggior livello di tutela, e la Suprema corte reputa che questa maggior tutela possa dirsi davvero effettiva solo se i rimedi concessi in via esclusiva al cliente si estendano anche al piano delle conseguenze derivanti dall’accertamento del vizio da cui è affetto il contratto: ossia se non soltanto si circoscrive al cliente la legittimazione a far accertare giudizialmente quel vizio, ma si consente unicamente a lui di beneficiare degli effetti dell’accertamento e, quindi, di esperire la conseguente azione di ripetizione[7]. All’intermediario, viceversa, come non è dato agire per ottenere la declaratoria di nullità del contratto, così non è consentito azionare (neppure in via riconvenzionale) pretese che potrebbero scaturire dalla nullità accertata su domanda del cliente, perché altrimenti si rischierebbe di indebolire quella (maggiore) tutela che il legislatore ha inteso assicurare a quest’ultimo.
Dall’altro lato, però, la stessa Corte si mostra consapevole del rischio che la necessità di tutelare adeguatamente la parte normalmente più debole del rapporto possa tradursi, nel concreto di singole e specifiche vicende, in un’inammissibile pregiudizio negativo in danno della parte avversa, sino al punto da premiare comportamenti dei clienti considerati scorretti perché tesi ad approfittare del favore loro accordato dalla legge oltre il limite entro cui i principi generali dell’ordinamento lo rendono ragionevole e giusto. Non è detto, insomma, che in contese di tal genere il cliente abbia sempre ragione ed al giudice di merito la Suprema corte chiede di verificare di volta in volta se il comportamento dell’attore risulti conforme al fondamentale principio di buona fede, potendo in caso contrario la sua azione essere in tutto o in parte paralizzata.
La decisione adottata dalle Sezioni unite può considerarsi, sotto questo aspetto, una soluzione di compromesso. Come tale è possibile che essa scontenti entrambe le opposte tifoserie, ma non è detto che questo sia un difetto.
3. Come intendere la nullità relativa
Un secondo aspetto che merita di essere posto in luce è quello che riguarda la disciplina generale della patologia dei contratti, con particolare riferimento alla figura della nullità relativa (di protezione).
In una società che i sociologi amano definire “liquida” anche i concetti giuridici rischiano talvolta di liquefarsi[8] e l’evoluzione manifestatasi in questi ultimi decenni nella normativa concernente la patologia contrattuale ed i relativi rimedi è davvero emblematica di quella crisi delle tradizionali categorie del diritto civile che la più attenta dottrina ha già da tempo ben evidenziato.[9]
Limitando il discorso al profilo che qui interessa, sembra innegabile che si sia andata man mano appannando la tradizionale distinzione tra vizi radicali del contratto, che ne dovrebbero comportare la nullità ab origine, e vizi potenziali, idonei a provocarne l’annullabilità se ed in quanto la sola parte a ciò legittimata li faccia valere, con il corredo delle note differenze di disciplina. Nell’impianto del codice civile questa distinzione e le differenti regole che vi corrispondono sono tuttora ben presenti, ma, anche per impulso della normativa sovranazionale europea, in un crescente numero di disposizioni di leggi speciali (tra le quali il già citato art. 23 del tuf, ma anche, con più ampia portata, l’art. 36 del codice del consumo) è contemplata ora la figura della nullità relativa, che può essere cioè fatta valere solo da una parte del rapporto contrattuale. A dire il vero già nell’impostazione del codice civile il carattere assoluto della nullità, postulato in via generale dall’art. 1421, non era un dogma intangibile, giacché lo stesso articolo faceva (e fa) espressamente salva la possibilità di eventuali diverse disposizioni di legge, ma evidentemente con connotati di eccezionalità. L’introduzione di ipotesi di nullità relativa in interi settori del diritto civile e commerciale – quali quello dei contratti dei consumatori, dell’intermediazione finanziaria, dei rapporti bancari, della compravendita degli immobili da costruire ed altri ancora – rischia, se non addirittura di rovesciare il rapporto tra regola ed eccezione, quanto meno di rendere l’ambito di applicazione dell’eccezione quasi pari a quello della regola. Il che non manca di porre seri problemi sul piano sistematico[10], a cominciare dall’individuazione della portata stessa della nullità relativa e del grado d’intensità della tutela che ne deriva a beneficio della parte la cui posizione il legislatore ha inteso in tal modo rafforzare.
S’è già sottolineato che la nullità relativa, di regola, risponde all’esigenza di rafforzare la posizione di uno dei contraenti rispetto all’altro, onde si parla anche di nullità di protezione, ma un conto è affermare che unicamente la parte protetta è legittimata a far valere in giudizio il vizio che inficia il contratto (salva la possibilità del rilievo d’ufficio, che pone altri problemi di coerenza sistematica sui quali non posso ora soffermarmi), altro è sostenere che solo quella parte può beneficiare degli effetti della pronuncia di nullità.
Se si muove dal presupposto che la nullità, benché a denunciarla possa essere soltanto una delle parti, conserva nondimeno le sue caratteristiche di vizio radicale, in presenza del quale il contratto risulta inidoneo a produrre effetti giuridici riconoscibili dall’ordinamento, ne discende che il giudice con la sua pronuncia non fa che accertare siffatta inidoneità. Ma allora è difficile sottrarsi alla conseguenza che un tale accertamento, non potendo un contratto nullo sin dall’origine produrre alcun valido effetto giuridico, apra anche all’altra parte la possibilità di ripetere (autonomamente o in via riconvenzionale) la prestazione eventualmente resa in esecuzione di quel medesimo contratto[11]. Insomma, la legittimazione esclusiva ad agire per far dichiarare la nullità non implica affatto, sul piano logico, che altrettanto esclusiva sia la legittimazione ad agire per la ripetizione di prestazioni che l’accertata nullità del contratto ha dimostrato essere prive di una legittima causa di attribuzione[12].
Questa conclusione avrebbe innegabilmente il pregio di conservare una qualche coerenza sistematica alla figura giuridica della nullità, che, salva la limitazione soggettiva a farla valere, continuerebbe per il resto a rappresentare una forma radicale di reazione dell’ordinamento al manifestarsi di patologie negoziali così gravi da rendere il contratto totalmente incapace di produrre effetti giuridici, per l’una come per l’altra parte.
Ad una conclusione affatto differente si perviene, invece, muovendo da un diverso presupposto: ipotizzando cioè che il carattere relativo della nullità non operi unicamente sul piano della legittimazione ad agire in giudizio per farla accertare, bensì anche sul piano sostanziale, nel senso che il contratto sarebbe da considerare nullo ed improduttivo di effetti giuridici esclusivamente per la parte protetta e continuerebbe invece ad esplicare efficacia vincolante per l’altra parte[13]. Nel qual caso, evidentemente, anche la possibilità di pretendere la restituzione delle prestazioni eseguite in base al contratto (solo relativamente) nullo sarà data unicamente alla parte che abbia agito per far valere la nullità. La nullità relativa assumerebbe quindi la veste di una nullità parziale, sotto il profilo soggettivo, o forse meglio di una nullità unilaterale.
A nessuno certamente sfugge quanto, se intesa in questa seconda accezione, la figura della nullità relativa (o di protezione) si discosti dalla concezione originaria delle nullità di impronta codicistica. Il che potrebbe suggerire una qualche cautela nell’accedere ad una simile configurazione, in assenza di segnali sufficientemente univoci da parte del legislatore, ancorché sia innegabile che si verrebbe così a rafforzare più efficacemente la tutela della parte debole, altrimenti esposta al rischio che la sua azione di nullità si riveli un boomerang[14]. Nulla vieta al legislatore di volerlo fare, ma sarebbe almeno auspicabile che lo facesse in modo il più possibile chiaro ed esplicito, rendendosi conto dell’impatto sistematico di un tale approccio e forse anche della conseguente necessità di ripensare in termini di maggior coerenza ed organicità l’intero quadro dei rimedi predisposti per fronteggiare le patologie negoziali, anziché continuare ad adoperare categorie e terminologie – quale quella della nullità – forgiate in un contesto ed in un’ottica diversi.
Nel caso in esame la tecnica legislativa appare, invece alquanto discutibile e non aiuta a sciogliere i nodi problematici. La formulazione del terzo comma del più volte citato art. 23 del tuf, infatti, potrebbe indurre a privilegiare l’interpretazione più restrittiva, giacché si limita stabilire che “la nullità può essere fatta valere solo dal cliente”, e ciò suggerisce l’idea che si sia voluto operare esclusivamente sulla legittimazione ad agire per la declaratoria di nullità del contratto, senza interferire sugli effetti del vizio eventualmente accertato[15]. Si noti che una formula analoga è adoprata anche negli artt. 2 e 4 del d. lgs. n. 122/2005, che colpiscono con la nullità i contratti di compravendita di immobili da costruire in difetto di specifiche garanzie e della prestazione di determinate polizze assicurative da parte del venditore, prevedendo espressamente che la nullità possa esser fatta valere unicamente dall’acquirente; e nessuno dubiterebbe del fatto che l’accoglimento della domanda di nullità consenta in tal caso all’acquirente di recuperare il prezzo (o l’anticipo sul prezzo) versato al venditore, ma non certo di pretendere il trasferimento in proprio favore della proprietà dell’immobile in esecuzione del contratto dichiarato nullo. Ma – come non mancano di rilevare le Sezioni unite – in un ambito più vicino a quello dei contratti d’investimento, cioè nel settore dei contratti bancari disciplinati dal Testo unico bancario (tub), l’art. 127, secondo comma (nella sua più recente formulazione), di quest’ultimo testo normativo si è conformato alla dizione del terzo comma del codice del consumo, stabilendo che le nullità di protezione “operano soltanto a vantaggio del cliente e possono esser rilevate d’ufficio dal giudice”. L’accento sembra quindi spostarsi dall’individuazione della parte che può agire in giudizio per far valere la nullità al modo in cui la nullità opera (a vantaggio di una sola parte), ossia alle conseguenze che se ne debbono poter trarre. Ed è evidente che quest’ultima formulazione parrebbe dare maggior fondamento all’interpretazione secondo la quale anche gli effetti dell’accertata nullità si producono unicamente a beneficio della parte protetta, la quale soltanto potrebbe perciò avvantaggiarsene agendo in ripetizione delle prestazioni rese in base al contratto nullo.
Le Sezioni unite hanno scelto questa seconda opzione – se mal non intendo – proprio alla luce del confronto tra l’art. 23 del tuf e le disposizioni del tub (nonché del codice del consumo) cui si è appena fatto cenno, ritenendo che un diverso trattamento della nullità relativa per i contratti d’investimento, per i contratti bancari (e per quelli del consumatore) non sarebbe giustificato e si presterebbe a sospetti d’illegittimità costituzionale per la sua irragionevolezza.
Che la si condivida o meno, quella raggiunta dalla Corte di cassazione è certamente una conclusione importante, perché tende a dare alla nullità relativa una configurazione più marcata e si iscrive in una linea di tendenza normativa volta ad adoperare in chiave protettiva per la parte più debole i rimedi offerti dall’ordinamento a fronte di patologie contrattuali che l’altra parte dovrebbe essere più agevolmente in grado di evitare, non senza quindi una qualche valenza sanzionatoria a carico di quest’ultima. Si sarebbe tentati di dire che si cerca così di accentuare la dissimmetria legale delle rispettive posizioni delle parti, quanto ai rimedi azionabili in presenza di vizi negoziali, per bilanciare l’opposta situazione di dissimmetria delle medesime parti nella fase della stipulazione e dell’esecuzione del contratto.
4. Il passepartout della buona fede
Le Sezioni unite, come già prima accennato, hanno però avvertito il rischio che l’ipertutela della parte in teoria più debole del rapporto finisca per favorire comportamenti opportunistici[16], o comunque per procurare al cliente un vantaggio non facilmente giustificabile, sia pur nell’ottica rimediale resa necessaria dal vizio che inficia il contratto, specie quando quel vizio sia di carattere eminentemente formale. Se l’esecuzione del medesimo contatto ha generato in alcune fasi dei guadagni ed in altre delle perdite, e se l’accertamento della nullità consente al contraente protetto di elidere le perdite, è difficile trovare una plausibile giustificazione al fatto che egli possa contemporaneamente trattenere i guadagni, perché conseguirebbe così un’utilità che non avrebbe ottenuto (quanto meno non in quella misura) se, reso edotto del vizio inficiante il contratto, egli si fosse astenuto dallo stipularlo o se gli fosse stata data la possibilità di stipularlo a condizioni diverse. Ed ecco allora il ricorso – ancora una volta, verrebbe fatto di dire – al principio di correttezza e buona fede, che qui viene chiamato a fungere da scudo offerto all’intermediario per evitare che l’uso selettivo dello strumento della nullità di protezione limitatamente ad alcuni ordini di acquisto eseguiti in base al contratto quadro viziato procuri al cliente vantaggi economicamente non giustificati; con la precisazione, però, che un siffatto uso selettivo non è di per sé contrario al canone di buona fede (oggettiva), ma potrebbe rivelarsi tale alla luce dell’esame in concreto dell’insieme degli investimenti eseguiti e del loro rendimento economico.
Ora, che il dovere di comportarsi secondo correttezza e buona fede costituisca un principio fondamentale nella disciplina dei contratti (e non solo in quella) è un dato ormai sicuramente acquisito. Non ci si può sottrarre, tuttavia, all’impressione che esso talvolta finisca per essere adoperato come una sorta di passepartout, cui l’interprete si affida per cavarsi d’impaccio in presenza di nodi interpretativi assai intricati, evitando così scelte troppo nette. Nel caso in esame va poi osservato che il canone di buona fede non appare riferito alla stipulazione, all’interpretazione o all’esecuzione del contratto, quanto piuttosto al modo in cui una parte agisce in giudizio per far valere i propri diritti, lesi da un fenomeno di patologia negoziale, ed ai limiti entro cui quell’azione possa dirsi corretta[17]. Il che pone un delicato problema di bilanciamento tra il principio costituzionale di solidarietà, cui si è soliti ricondurre il canone di buona fede, ed il diritto di difesa in giudizio, parimenti garantito dalla Costituzione (per non parlare del principio costituzionale di tutela del risparmio). Un bilanciamento che sembra demandato caso per caso al giudice di merito. Ma, se si accettano le premesse dianzi poste, cioè che il legislatore ha inteso assicurare una maggior protezione al cliente proprio consentendogli (non solo di essere l’unico legittimato a denunciare la nullità del contratto, ma anche) di far valere la nullità esclusivamente a proprio vantaggio selezionando a tal fine gli ordini di acquisto risultati non convenienti, non è ben chiaro perché potrebbe essere contrario a buona fede il pretendere la restituzione di quanto versato in relazione a quegli ordini prescindendo dall’esito degli altri. Una volta ammesso che la nullità di protezione travolge solo gli effetti sfavorevoli al contraente protetto, è naturale che egli possa legittimamente selezionare le operazioni rilevatesi per lui negative, allo scopo di ottenere la ripetizione di quanto versato in relazione ad esse, e non è facile comprendere in qual senso possano risultare contrarie al canone della buona fede le modalità con cui egli in concreto lo faccia [18].
Se, viceversa, si assume, come in definitiva sembrano fare le Sezioni unite con la sentenza in esame, che per agire secondo buona fede il cliente dovrebbe limitare la sua domanda entro la differenza tra i guadagni e le perdite realizzate dall’insieme degli ordini d’investimento dipendenti dal contratto nullo, non è tanto il modo in cui egli fa valere il suo diritto di ripetizione dell’indebito a venire in questione, quanto piuttosto la determinazione stessa della misura in cui il diritto di ripetizione gli spetta.
In altre parole, messo da canto il riferimento alla buona fede[19], forse non del tutto pertinente ma adoperato solo per veicolare una soluzione altrimenti priva di una ben riconoscibile base legale, mi pare si finisca col dire che, in presenza di nullità di protezione del genere di quella qui in esame, il cliente, oltre ad essere legittimato in via esclusiva a richiedere la declaratoria di nullità, è sì l’unico a poter pretendere la restituzione delle somme versate in esecuzione del contratto nullo, ma che tale diritto gli spetti solamente entro il limite in cui quelle somme superino l’ammontare dei guadagni eventualmente conseguiti per effetto del medesimo contratto[20]. La nullità di protezione, per poter esplicare in modo effettivo la propria funzione, conforma altresì necessariamente la conseguente azione di ripetizione d’indebito, non solo impedendo che se ne possa avvantaggiare anche l’altro contraente, ma anche determinando la misura entro cui se ne può legittimamente avvalere lo stesso contraente protetto. Il favore accordato a costui non può varcare il confine al di là del quale si verificherebbe un arricchimento privo di una logica giustificazione.
È una conclusione ragionevole, ma che palesemente costituisce una integrazione giurisprudenziale di un testo normativo che non la contempla.
La dottrina parla di “polimorfismo” della nullità[21]: elegante espressione, che però non vale a nascondere il fatto che la scarsa coerenza sistematica del legislatore, unita ad una certa approssimazione lessicale, piaccia o no amplia inevitabilmente lo spazio dell’integrazione di fonte giurisprudenziale[22].
[1] Nel caso in esame la nullità del contratto quadro cd. monofirma, ossia recante solo la firma del cliente e non anche quella dell’intermediario che vi aveva poi dato esecuzione, non era più in discussione essendo passata ormai in giudicato la decisione in tal senso assunta nei gradi di merito. Va però ricordato che, secondo Sez. un. 898/2018, in Foro it., 2018, I, 928, il requisito della forma scritta del contratto quadro relativo ai servizi di investimento, richiesto a pena di nullità dall’art. 23 del tuf, è rispettato ove il contratto sia redatto per iscritto e ne venga consegnata una copia al cliente, essendo sufficiente la sola sottoscrizione di quest’ultimo senza che necessiti anche quella dell’intermediario, il cui consenso si può desumere alla stregua dei comportamenti da lui tenuti.
[2] In un’ipotesi di tal fatta Cass. n. 10116/2018 ha ritenuto che all’investitore il quale chieda la declaratoria di nullità solo per alcune operazioni, non sono opponibili l’eccezione di dolo generale fondata sull’uso selettivo della nullità né l’intervenuta sanatoria del negozio nullo per rinuncia a valersi della nullità o per convalida di esso, l’una e l’altra essendo prospettabili solo in relazione ad un contratto quadro formalmente esistente.
[3] Questione giustizia vi ha dedicato un apposito obiettivo, intitolato Banche, poteri forti, diritti deboli, nel fascicolo n. 3/2017 della Trimestrale.
[4] M. Onado, Alla ricerca della banca perduta, Bologna, 2017.
[5] È appena il caso di ricordare la nota vicenda dell’invalidità delle pattuizioni riguardanti interessi anatocistici, sulla quale qui non è possibile soffermarsi ma che appare davvero emblematica di come maldestramente il legislatore abbia talvolta cercato di neutralizzare gli effetti di orientamenti giurisprudenziali non graditi al mondo bancario provocando il ripetuto intervento del giudice delle leggi (si vedano Corte cost. n. 425/2000, in Foro it., 2000, I, 3045, e Corte cost. n. 78/2012, ivi, 2012, I, 2585, con nota di A. Palmieri).
[6] S. Pagliantini, La nullità di protezione come una nullità selettiva?, in Foro it., 2019, I, col. 988, non esita a definire quella su cui le Sezioni unite sono state chiamate ad intervenire come “una questione ideologicamente orientata”.
[7] Si tratta, in qualche misura, di un’ulteriore manifestazione di quell’approccio funzionalistico al tema della nullità di cui parla M. Rizzuti, Nullità selettiva e abuso del processo: la parola alle sezioni unite, in Corriere giur., 2019, pagg. 173 e segg.
[8] Come osserva V. Scalisi, Il diritto europeo dei rimedi: invalidità e inefficacia, in Riv. dir. civ., 2007, pag. 846, “anche il plurisecolare contratto è approdato alla condizione inquieta e instabile o, come si dice, fluida e liquida della postmodernità”.
[9] N. Lipari, Le categorie del diritto civile, Milano, 2013.
[10] La difficoltà di ricostruire un quadro giuridico comune alle molteplici ipotesi di nullità relativa, ed in specie a quelle cd. di protezione, è ben sottolineata da M. Mantovani, Le nullità “speciali” o di protezione, in Trattato del contratto diretto da V. Roppo, Milano, 2006, vol. IV-1, pagg. 170 e segg.
[11] Proprio sotto questo profilo già F. Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1964, pag. 247, criticava la figura della nullità relativa, definendola “intrinsecamente contraddittoria” e richiamava il brocardo quod nullum est nullum producit effectum per dedurne che la nullità “non può che dirimere il negozio privandolo della sua efficacia interamente e rispetto ad entrambe le parti”; ed anche F. Messineo, Il contratto in generale, in Trattato Cicu-Messineo, Milano 1972, pag. 180, sosteneva che nei rapporto tra i contraenti la nullità relativa ha i medesimi effetti di quella assoluta, differenziandosi da questa soltanto “per la minore cerchia di esperibilità dell’azione”.
[12] G. Petti, L’esercizio selettivo dell’azione di nullità verso il giudizio delle sezioni unite, in Contratti, 2019, pag. 288.
[13] Di un “modo di operare unidirezionale della nullità” parla (a proposito della disciplina della nullità protettiva disposta a favore del consumatore), A. Gentili, Nullità, annullabilità, inefficacia nella prospettiva del diritto europeo, in Contratti, 2003, pag. 205, nt. 24.
[14] Proprio nel caso che ha poi condotto alla decisione delle Sezioni unite di cui si sta parlando era accaduto che il giudizio di primo grado, promosso dall’investitore per far dichiarare la nullità del contratto quadro e ripetere quanto versato in esecuzione di ordini d’investimento rivelatisi non redditizi, avendo l’intermediario convenuto proposto una domanda riconvenzionale per ottenere la restituzione di quanto versato al cliente in relazione ad altre operazioni derivanti dal medesimo contratto, si fosse concluso con la condanna dell’attore a pagare una differenza in favore dell’istituto di credito.
[15] Secondo S. Pagliantini, op. cit., col. 984, nulla consente di ritenere che la citata disposizione dell’art. 23 del tuf, nel prevedere la nullità di protezione della quale si sta parlando, abbia inteso derogare al dettato dell’art. 2033 cc istituendo un’ipotesi d’irripetibilità delle prestazioni rese dall’intermediario in base al contratto nullo di cui nella legge non v’è traccia.
[16] Sulla difficoltà di definire con precisione cosa debba intendersi per comportamento opportunistico, si vedano però le considerazioni di D. Maffeis, Nullità selettive: la «particolare importanza» di selezionare i rimedi calcolando i probabili vantaggi e il processo civile come contesa fra opportunisti, in Corriere giur., 2019, pagg. 178 e segg., il quale si mostra poco convinto del fatto che possa qualificarsi “opportunista” (almeno nell’accezione negativa che suole attribuirsi a quel termine), l’investitore che sceglie di utilizzare a proprio esclusivo vantaggio gli ordini eseguiti in base ad un contratto quadro ad altri effetti nullo.
[17] Osserva criticamente D. Maffeis, op. cit, pag. 178, che si verrebbe in tal modo ad introdurre un’inedita ulteriore condizione di ammissibilità della domanda, accanto a quelle della legittimazione e dell’interesse all’azione, “rappresentata dalla meritevolezza dell’interesse ad agire”.
[18] Nota puntualmente S. Pagliantini, op. cit., col. 987, che “siccome ogni interesse ad agire ha un carattere selettivo, … non si può per questo etichettare come contraria a buona fede una domanda che miri a discernere l’ordine vantaggioso da quello divenuto causa di un danno”.
[19] Come pure alle figure dell’exceptio doli generalis e dell’abuso del diritto, alle quali le Sezioni unite fanno anche riferimento, sembrando poi però volerne prenderne le distanze laddove affermano di voler adottare come criterio ordinante il principio di buona fede “in modo non del tutto coincidente con le illustrate declinazioni” delle due suaccennate figure.
[20] La soluzione adottata dalla Cassazione lascia perplesso G. Guizzi, Le Sezioni unite e le “nullità selettive” nell’ambito della prestazione dei servizi d’investimento. Qualche notazione problematica, in Dirittobancario.it, 2019, sia perché egli reputa che sarebbe stato preferibile riferirsi ai principi sul mandato e dedurne che l’eventuale accettazione da parte del cliente degli ordini d’investimento rilevatisi per lui positivi possa configurare una tacita ratifica anche di quelli che abbiano dato un cattivo risultato (contra, D. Maffeis, op. cit., pagg. 181-2), sia perché paventa la difficoltà di verificare in concreto e di porre a raffronto i risultati economici prodotti dai singoli ordini d’investimento.
[21] M. Mantovani, op. cit., pag. 174.
[22] Sul tormentato tema dei limiti entro cui è consentito alla giurisprudenza integrare le fonti legali non posso che rinviare agli scritti contenuti nel numero monografico di Questione giustizia intitolato Il giudice e la legge (fascicolo n. 4/2016 della rivista trimestrale), cui adde M. Luciani, L’errore di diritto e l’interpretazione della norma giuridica (ivi, fascicolo 3/2019).