L’ordinanza 23 settembre 2014 della Commissione tributaria di Reggio Emilia in rassegna ha il pregio, di cui sempre più si sente il bisogno nel Diritto Finanziario (e non solo) di oggi, di dire, alto e forte, che “Il Re è nudo”.
Essa prende le mosse da un dato di fatto, noto a tutti coloro che praticano il settore, su cui molto si mormora ma ancora poco si parla.
Come relitto storico della loro originaria (e addirittura precostituzionale) configurazione quali organi amministrativi (preposti a una sorta di reclamo gerarchico), le Commissioni tributarie italiane (che sono chiamate ad amministrare la giustizia finanziaria) hanno conservato alcuni tratti, ordinamentali, originari.
Il problema è che essi sono incompatibili con la natura giurisdizionale(e correlata soggezione ai principi del giusto processo) delle stesse commissioni.
Natura giurisdizionale che, da un lato, è costituzionalmente necessitata (altrimenti mancando un giudice davanti al quale accertare la giusta quota di contribuzione solidale alla spesa pubblica, ai sensi dell’art. 53 Cost.), e, dall’altro, è pacificamente riconosciuta dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale.
Quali sono tali tratti ordinamentali impropri?
Cose di tutt’altro che poco conto e, in particolare, il fatto che i mezzi materiali e personali a disposizione del giudice tributario sono nelle mani di un plesso amministrativo inquadrato nel Ministero della Economia.
Gli strumenti vitali per l’esercizio concreto della giurisdizione sono nel controllo, detto in modo diretto e brutale, e con una semplificazione che non tradisce la sostanza del problema, della Amministrazione che esercita il potere soggetto a sindacato giurisdizionale.
L’Amministrazione controllata, insomma, stabilisce e dispone degli strumenti con cui il giudice terzo e imparziale di cui all’art. 111 Cost. dovrebbe…controllarla.
E, se è stata ritenuta contraria alla Carta Fondamentale l’ingerenza del Legislativo nella autonomia della giurisdizione, quale spazio può residuare per, addirittura, una possibile ingerenza amministrativa, e, semplificando, addirittura l’ingerenza di una articolazione di una delle parti, in senso sostanziale, del giudizio?
Non solo, ma anche presta il fianco a motivate perplessità anche il trattamento economico del giudice tributario.
Intanto, qualcosa andrebbe detto sulla relativa adeguatezza quantitativa: argomento mediaticamente infelice in tempi di spending review, ma diciamolo forte e chiaro che i principi fondamentali vengono prima dei calcoli contabili e che le riforme a costo zero sono in realtà a costo traslato (sulla collettività, sui deboli, su chi perde il servizio). E che lo sbandierato costo zero è, spesso, una frode contabile sociale, ai danni dei deboli e degli sproveduti.
Ma anche a non voler parlare di vile pecunia (che tanto vile non è), sta il fatto, oggettivamente cospicuo, che il compenso del giudice tributario è, per legge, liquidato dalla Direzione Regionale della Agenzia delle Entrate.
L’autore della più gran parte dei provvedimenti sottoposti al controllo giurisdizionale, insomma, liquida …lo stipendio del giudice che lo controlla(art. 13, comma 2 D.Lgs. 31-12-1992 n. 545).
Tutto ciò per fortuna, non determina una situazione di effettiva soggezione della giurisdizione tributaria alla autorità Amministrativa.
I giudici godono di garanzie, ottimamente presidiate dall’organo di autogovenro, il Consiglio di Presidenza della Giustizia tributaria.
Il problema è un altro, ma non meno decisivo e capitale. Che si direbbe di un giudice del lavoro i cui mezzi personali e materiali fossero decisi e amministrati e il cui stipendio fosse determinato e liquidato da Confindustria (o da un sindacato dei lavoratori)?
Che viene meno il requisito della apparenza di indipendenza.
Ebbene, l’ordinanza in materia proprio su questo appunta la sua riflessione critica, e sull’esame della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Essa insegna che un deficit di apparenza di indipendenza comporta una lesione del principio del giusto processo e che, esattamente, il fatto che non sia garantito il controllo dei mezzi materiali e personali, che non sia attribuito un trattamento economico decoroso e, soprattutto, che esso sia nelle mani della autorità interessata al giudizio sono altrettante fattispecie sintomatiche di non apparente indipendenza del giudice.
Per dirla con la Storia, viene rievocata la nota immagine di Francis Bacon, in forza della quale “i giudici devono essere leoni, ma leoni sotto al trono”.
Il punto, però è che la clausola del giusto processo CEDU, insegna la Corte Costituzionale, ci dovrebbe aver portato ormai lontani dall’ideologia preminente nel ‘600.
La regola del giusto processo è paramentro interposto di legittimità costituzionale delle norme interne, da un lato, mentre, dall’altro, l’art. 6 Cedu è applicabile anche ai processi tributari (se non altro quando, come nella fattispecie emiliana, siano in gioco anche sanzioni tributarie).
Le norme sull’ordinamento della giustizia tributaria non sono, prosegue il giudice emiliano, norme che disciplinano il merito della controversia, e neppure norme processuali, ma, ad avviso del collegio rimettente, ciò non esclude la rilevanza nel processo in corso.
A tacer d’altro, scrive la motivazione, potrebbe, sulla linea del paradosso, ma perfettamente logico, ricostituirsi un tribunale speciale di stampo dittatoriale e il giudice non potrebbe mai presidiare la costituzionalità del processo (e difenderne le parti e attuare un giusto processo), perché impedito da una interpretazione formalistica del requisito della rilevanza.
A rime baciate ne consegue la rimessione degli atti alla Corte Costituzionale, per una decisione che, nel recinto della giustizia finanziaria si presenta dirompente.
Per rendersi conto della delicatezza della questione, basta pensare al contenzioso, delicatissimo, che verosimilmente agiterà le aule di giustizia nel prossimo futuro, in relazione alla dolorose manovre di riequilibrio finanziario già attuate e alle porte.
Una sfida, per la attuazione della giusta solidarietà sociale, alla quale la giurisdizione tributaria, che già amministra lodevolmente la materia, deve presentarsi adeguata anche agli standard internazionali di garanzia e di status.