Con l’ordinanza in esame, il Tribunale di Livorno si interroga sulla legittimità costituzionale della norma che stabilisce il diritto alla fruizione di tre giorni di permessi mensili dal lavoro, in favore dei parenti o affini entro il terzo grado e del solo coniuge della persona portatrice di handicap in situazione di gravità.
Il Giudice remittente si trova di fronte al caso del convivente more uxorio che assiste in modo continuativo e permanente il proprio compagno, affetto da gravi minorazioni; il lavoratore che assiste il proprio convivente non rientra nella platea dei soggetti che possono fruire di tre giorni di permessi mensili dal lavoro, così che in base alla formulazione della norma da applicare alla fattispecie non sussisterebbe il diritto del convivente a fruire di tali permessi mensili.
La fattispecie portata all’attenzione del Tribunale di Livorno è singolare: la signora B., dipendente della USL 6 di Livorno, nel 2003 aveva presentato domanda di fruizione dei benefici di cui all’art. 33 L. 104/1992, necessari ad assistere il proprio convivente more uxorio, portatore di handicap grave; si era vista accogliere la domanda con provvedimento datoriale del 20.6.2003, ed ha fruito dei permessi retribuiti per ben otto anni; successivamente aveva ricevuto dal datore di lavoro, nel maggio 2011 ed a seguito della modifica normativa introdotta con L. 183/2010, una richiesta di trasmissione del modulo per il rinnovo annuale della richiesta dei benefici di cui all’art. 33 l. 104/1992; ha quindi presentato la nuova istanza per il rinnovo della concessione dei permessi retribuiti; in risposta a tale richiesta ha ricevuto, il 16.6.2011, una comunicazione della USL di revoca dei benefici, a causa dell’assenza di un rapporto di coniugio ovvero di parentela o affinità con la persona gravemente disabile; si è anche vista trattenere dalla retribuzione le somme erogate dalla USL negli anni precedenti per i permessi retribuiti fruiti dalla dipendente.
La signora B. ha quindi chiesto al Tribunale di Livorno in funzione di Giudice del lavoro di accertare il proprio diritto ad usufruire dei permessi retribuiti di cui all’art. 33 comma 3° L. 104/1992 per l’assistenza al proprio convivente, conformemente a quanto richiesto con l’istanza trasmessa nel 2011; ha inoltre chiesto la condanna della USL alla restituzione di quanto indebitamente trattenuto in recupero delle somme erogate, negli otto anni precedenti, a titolo di permessi mensili retribuiti ai sensi della L. 104/1992; in subordine, ha chiesto sollevarsi la questione di legittimità costituzionale, per l’incompatibilità dell’art. 33 comma 3° L. 194/1992 con i principi costituzionali di cui agli artt. 2, 3, 32 e 38 Cost. nonché ex art 177 Cost, con gli artt. 1, 3 , 7, 20 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
Il Tribunale, valutata la fattispecie e ritenuto che al caso in esame doveva obbligatoriamente applicarsi l’art. 33 comma 3 nella formulazione successiva all’entrata in vigore della L. 183/2010, e considerato che la questione di legittimità costituzionale della disposizione da applicare non risultava manifestamente infondata, ha rimesso gli atti alla Corte Costituzionale onde stabilire se l’art. 33 comma 3° L. 104/1992, nella parte in cui non include il convivente more uxorio tra i beneficiari dei permessi retribuiti per l’assistenza al portatore di handicap grave, sia compatibile con gli artt. 2, 3 e 32 della Costituzione.
Il Tribunale ha esplicitato in modo chiaro la rilevanza della questione di legittimità costituzionale: è noto che il Giudice delle Leggi può essere investito di una questione di legittimità costituzionale di una norma di legge, soltanto qualora la fonte normativa debba essere necessariamente applicata dal Giudice remittente alla fattispecie concreta, e la controversia non possa trovare soluzione se non mediante l’applicazione della norma della cui legittimità costituzionale il Giudice a quo dubita.
Pertanto la puntuale indicazione della rilevanza della questione di legittimità costituzionale, con riferimento al caso concreto portato all’attenzione del Giudice remittente, è di estrema importanza ai fini della corretta instaurazione del procedimento innanzi alla Corte Costituzionale, pena la dichiarazione di manifesta inammissibilità della questione, ad opera della Corte. Invero, l’art. 23 della L. 11 marzo 1953 n. 87 sul procedimento innanzi alla Corte Costituzionale, stabilisce che nel corso di un giudizio dinanzi ad un’autorità giurisdizionale una delle parti o il pubblico ministero possono sollevare la questione di legittimità costituzionale di una norma, ed anche il Giudice può sollevarla di ufficio, ma soltanto qualora il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale.
Pertanto era indispensabile chiarire al Giudice delle Leggi la fattispecie concreta oggetto della controversia da decidere, e l’indispensabile applicazione al caso concreto della norma non manifestamente incostituzionale.
In precedenza, la questione – in termini parzialmente diversi – era stata già portata all’attenzione della Corte Costituzionale, ad opera di altro Tribunale, ma la Corte aveva dichiarato che “è manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 33, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n.104, censurato, in riferimento agli artt. 2, 3 e 32 della Costituzione, nella parte in cui non prevede il convivente more uxorio fra i soggetti beneficiari del permesso mensile retribuito per l'attività di assistenza delle persone handicappate.
Infatti il Tribunale rimettente, da un lato, descrive in modo carente la fattispecie oggetto del giudizio a quo e ciò comporta un difetto di motivazione in ordine alla rilevanza, dall'altro, non ha adeguatamente motivato in merito all'asserita violazione degli artt. 2 e 32 Cost. (Corte Cost. ord 13.1.2009 n. 35)”. La carente indicazione della fattispecie oggetto della controversia portata all’attenzione del Giudice a quo, preclude, ad avviso della Corte, l’esame della rilevanza della questione di legittimità costituzionale, non rendendo esplicito il fatto che la norma scrutinata sia l’unica da applicare al caso concreto, e quindi la soluzione di legittimità costituzionale sia la strada obbligata, da percorrere per risolvere la fattispecie all’attenzione del Giudice a quo.
Orbene, nel caso in esame il Tribunale di Livorno ha anche chiarito che il soggetto portatore di handicap non ha parenti o affini che abbiano mai manifestato l’intenzione di assisterlo o lo abbiano mai assistito; invero, ciò che la Corte Costituzionale ha affermato, nell’ordinanza n. 35 del 2009, è che deve essere chiara l’indicazione dell’eventuale esistenza di parenti o affini entro il terzo grado, che possano dare assistenza al soggetto gravemente disabile in luogo del convivente more uxorio, lasciando così intendere che la questione di legittimità costituzionale risulterebbe rilevante solo nel caso in cui il soggetto portatore di handicap grave non avesse parenti o affini entro il terzo grado, e dovesse ricorrere obbligatoriamente all’assistenza del convivente more uxorio.
Pertanto la questione di costituzionalità sollevata dal Tribunale di Livorno dovrebbe superare il vaglio della rilevanza, tenuto conto che la convivente more uxorio è l’unica ad aver prestato assistenza al soggetto portatore di handicap, né risulta che i parenti o affini abbiano mai manifestato l’intenzione di assisterlo.
Ciò posto, la disamina della questione necessita di una ricostruzione delle evoluzioni normative in materia.
L’art. 33 comma 3° della L. 5 febbraio 1992 n. 194 stabiliva il diritto a tre giorni di permessi dal lavoro per ciascun mese, in favore della persona, parente o affine entro il terzo grado ovvero coniuge, convivente, che si trovi ad assistere un soggetto portatore di handicap grave, con minorazioni accertate e tali da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione. Lo stato di portatore di handicap con connotazione di gravità deve essere accertato dall’Azienda Sanitaria Locale territorialmente competente (in base alla residenza del soggetto che chiede l’accertamento), mediante la Commissione medica istituita presso l’Azienda.
Successivamente, è entrato in vigore l’art. 24 della legge 4 novembre 2010 n. 183, che ha modificato il testo dell’art. 33 comma 3° L. 104/1992; attualmente la disposizione prevede che “a condizione che la persona handicappata non sia ricoverata a tempo pieno, il lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assiste persona con handicap in situazione di gravità, coniuge, parente o affine entro il secondo grado, ovvero entro il terzo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti, ha diritto a fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione figurativa, anche in maniera continuativa.
Il predetto diritto non puo' essere riconosciuto a più di un lavoratore dipendente per l'assistenza alla stessa persona con handicap in situazione di gravità. Per l'assistenza allo stesso figlio con handicap in situazione di gravità, il diritto è riconosciuto ad entrambi i genitori, anche adottivi, che possono fruirne alternativamente". La modifica normativa ha espunto dal testo della disposizione la parola “convivente”, contenuta in un inciso del testo originario dell’art. 33 comma 3° l. 104/1992, ed ha anche limitato le categorie di parenti o affini che possono fruire del beneficio, riducendolo ai parenti ed affini entro il secondo grado, con l’estensione ai parenti ed affini entro il terzo grado solo in determinati casi.
L’eliminazione del riferimento alla convivenza trova conferma nella modifica all’art. 33 comma 5 L, 104/1992 ad opera della L. 183/2010; la disposizione era stata già in precedenza modificata dall’art. 20 L. 19 marzo 2000 n. 53, il cui art. 20 stabiliva che “le disposizioni dell’articolo 33 della legge 5 febbraio 1992 n. 104, come modificato dall’art. 19 della presente legge, si applicano anche qualora l’altro genitore non ne abbia diritto nonché ai genitori ed ai familiari lavoratori, con rapporto di lavoro pubblico o privato, che assistono con continuità un parente o affine entro il terzo grado portatore di handicap, ancorchè non convivente”.
Pertanto le modifiche all’originario testo dell’art. 33 comma 3° legge 104/1992, se da un lato hanno consentito di estendere il beneficio dei permessi lavorativi ai parenti ed affini non conviventi con la persona portatrice di handicap grave, hanno tuttavia eliminato qualsiasi possibilità di interpretazione analogica della norma, al caso del convivente more uxorio che assista stabilmente la persona affetta da una grave minorazione.
Invero, secondo il Tribunale di Livorno, il dettato normativo è chiaro nell’escludere il convivente more uxorio dalla platea dei beneficiari dei permessi retribuiti; l’espressa indicazione delle categorie di soggetti che possono accedere al beneficio dei permessi di lavoro esclude la possibilità di estendere l’applicazione della norma ai casi non contemplati nella disposizione.
Il ragionamento del Giudice remittente prende le mosse dalla necessità di applicare alla fattispecie concreta l’art. 33 comma 3° L. 104/1992, nella versione in vigore nel 2011, e giunge alla conclusione secondo cui si configura un possibile contrasto della predetta disposizione con i principi di solidarietà (art. 2 Cost.), di uguaglianza (art. 3), e con il diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost.
Interessante appare la disamina della nozione di famiglia intesa come “formazione sociale” ai sensi dell’art. 2 della Costituzione, sia come luogo in cui si esplicano i diritti fondamentali della persona, sia come ambiente in cui si devono attuare i doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Secondo il Giudice remittente la legge 5 febbraio 1992 n. 104 – legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale ed i diritti delle persone handicappate – ha individuato la famiglia come luogo in cui il soggetto portatore di handicap grave esplica la sua personalità e deve quindi essere assistito; la famiglia deve quindi svolgere un ruolo fondamentale (che non infrequentemente è l’unico ruolo ad essere svolto, a prescindere dalle cure mediche, con cui si realizza una funzione ben diversa dall’assistenza quotidiana) nell’assistenza alla persona portatrice di handicap, consentendole di svolgere le sue attività quotidiane, e di avere una vita relazionale nonché di esplicare la sua personalità nella misura compatibile con il suo stato di handicap.
Seguendo il percorso argomentativo del Tribunale di Livorno, se è vero che la famiglia è il nucleo deputato per eccellenza all’assistenza del disabile, è altrettanto vero che la nozione di famiglia si è recentemente ampliata, con l’ammissione, da parte del legislatore ed anche ad opera della stessa Corte Costituzionale, dell’esistenza di rapporti affettivi così saldi e significativi da poter essere equiparati, per ora solo a taluni effetti, ai rapporti familiari formalmente sanciti dall’atto di matrimonio.
Nel quadro normativo nazionale, si evidenziano una serie di interventi che hanno considerato rilevante lo stato di convivenza, come la L. 8 febbraio 2006 n. 54 che, introducendo il cd. affidamento condiviso, ne ha esteso la disciplina ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati; la l. 19 febbraio 2004 n. 40, che consente l’accesso alle tecniche di fecondazione assistita anche alle coppie di fatto; la recente legge 10 dicembre 2012 n. 219, con cui è stata abolita ogni discriminazione tra figli legittimi e naturali; ed altre fonti normative, analiticamente elencate nell’ordinanza del Tribunale di Livorno.
Particolarmente significativa, nell’ambito del diritto del lavoro, risulta poi la modifica all’art. 12 bis D. Lgs n. 61/2001 introdotta dall’art. 1 comma 44 Legge n. 247/2007, con cui è stata attribuita rilevanza allo stato di convivenza more uxorio, a fini del riconoscimento del diritto di priorità alla richiesta di trasformazione del rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno in rapporto di lavoro a tempo parziale.
Sul versante giurisprudenziale, nell’ordinanza in commento si rammenta che proprio la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 237 del 1986, ha ritenuto l’applicabilità del principio di solidarietà anche alle convivenze di fatto: “un consolidato rapporto (come la convivenza more uxorio), ancorché di fatto, non appare costituzionalmente irrilevante se si abbia riguardo al riconoscimento delle formazioni sociali e alle conseguenti intrinseche manifestazioni solidaristiche (art. 2 Cost.) e ciò tanto più se vi sia presenza di prole. Siffatti interessi sono indubbiamente meritevoli, nel tessuto delle realtà sociali odierne, di compiuta obiettiva valutazione”.
Più di recente, il Giudice delle leggi, nella sentenza n. 138 del 2010, pur escludendo l’incostituzionalità delle norme del codice civile nella parte in cui non consentono che le persone di orientamento omosessuale possano contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso, ha ribadito che nel principio di solidarietà deve farsi rientrare qualsiasi formazione sociale, compresa anche quella che intercorre tra persone del medesimo sesso: “per formazione sociale deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico. In tale nozione è da annoverare anche l'unione omosessuale, quale stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone - nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge - il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri”.
Anche la giurisprudenza di legittimità ha valorizzato, in modo sempre più pregnante, il rapporto di convivenza, giungendo a considerarlo una formazione sociale di tipo familiare, fonte di affettività tra i conviventi e nel contempo di doveri morali e sociali, al punto da farne scaturire una serie di conseguenze giuridiche importanti, come nel caso in cui l’estromissione violenta o clandestina dall’unità abitativa, compiuta dal convivente proprietario in danno del convivente non proprietario, legittima quest’ultimo alla tutela possessoria, consentendogli di esperire l’azione di spoglio (Cass. n. 7214/2013). La Corte di Cassazione, nella recente sentenza n. 1277 del 22.1.2014, ha effettuato un lungo excursus delle pronunce di legittimità che hanno conferito valore alla convivenza e da tale rapporto ne hanno fatto discendere una serie di conseguenze giuridicamente rilevanti: anche a proposito degli obblighi derivanti dalla separazione o divorzio, si è affermato che “in tema di diritto alla corresponsione dell'assegno di divorzio in caso di cessazione degli effetti civili del matrimonio, il parametro dell'adeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale da uno dei coniugi viene meno di fronte alla instaurazione, da parte di questi, di una famiglia, ancorché di fatto; la conseguente cessazione del diritto all'assegno divorzile, a carico dell'altro coniuge, non è però definitiva, potendo la nuova convivenza - nella specie, uno stabile modello di vita in comune, con la nascita di due figli ed il trasferimento del nuovo nucleo in una abitazione messa a disposizione dal convivente - anche interrompersi, con reviviscenza del diritto all'assegno divorzile, nel frattempo rimasto in uno stato di quiescenza” (Cass. n. 3293/2012; Cass. n. 17915/2011). In sostanza, la famiglia di fatto ha la medesima dignità ed importanza della famiglia formalmente costituita a seguito di matrimonio.
La ricordata giurisprudenza nazionale risulta coerente con gli orientamenti delle Corti sovranazionali, ed in particolare della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che a proposito delle unioni omosessuali registrate (in alcuni Paesi dell’Unione), ha affermato la nozione di famiglia cui fa riferimento l’art. 8 della CEDU, non è limitata alle relazioni basate sul matrimonio, e può comprendere anche altri legami familiari instaurati in via di fatto, se le parti convivono senza aver contratto matrimonio (Corte Europea 24.6.2010, Prima Sezione, caso Schalk e Kopft contro Austria).
Pertanto è possibile che, nel solco normativo e giurisprudenziale ora sinteticamente ricordato, si inserisca anche la Corte Costituzionale nella disamina della questione rimessa dal Tribunale di Livorno, tanto nel caso di una pronuncia di accoglimento (additiva), che nel caso di una pronuncia interpretativa di rigetto.
In conclusione, l’art. 33 comma 3 appare ancor più irragionevole ove si consideri che il coniuge, i parenti e gli affini possono fruire dei permessi retribuiti per assistere la persona portatrice di handicap, anche senza dover convivere con il disabile, mentre il convivente more uxorio, che assista stabilmente il portatore di handicap, si vede negare dalla norma il diritto ai permessi, per il solo fatto di non avere una situazione di coniugio formalmente sancita dal matrimonio.
C’è da augurarsi che la Corte Costituzionale, superata la problematica della rilevanza della questione, faccia finalmente chiarezza sulla portata della norma da scrutinare, superando il dato formale (che non dovrebbe essere più oggetto di discussione) della mancanza di stabilità del rapporto di convivenza, sia per il fatto che il beneficio dei permessi retribuiti viene richiesto dal lavoratore di anno in anno, con attestazione del permanere dello stato di convivenza, sia perché, in sostanza, entrambe le situazioni – il matrimonio e la convivenza – sono suscettibili di risoluzione, l’una in via formale (con la separazione ed il divorzio), l’altra in via di fatto.
Quanto alla certezza dell’esistenza della convivenza more uxorio, il certificato di stato di famiglia, contenente l’accertamento dell’esistenza di una residenza comune per i conviventi, può essere sufficiente a dimostrare l’esistenza del rapporto tra la persona portatrice di handicap ed il soggetto cui è affettivamente legato.
Infine, in caso di pronuncia di accoglimento, con sentenza interpretativa di accoglimento, la statuizione della Corte potrebbe avere portata molto innovativa ed effetti importanti, consentendo la fruizione dei benefici previsti dalla legge n. 104/1992 ai conviventi di portatori di handicap grave, anche nel caso di coppie omosessuali. Infatti se dovesse cadere il riferimento al requisito del formale atto di matrimonio, e dovesse essere ammessa l’equiparazione del rapporto di convivenza stabile a quello di coniugio, anche le coppie omosessuali conviventi dovrebbero poter rientrare nella portata applicativa della norma, con conseguente estensione dei benefici della L. 104/1992 anche a tali coppie, al di là dei contrasti circa la registrazione dei matrimoni tra coppie del medesimo sesso nei registri dello Stato civile.