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Il "minor sacrificio necessario": parametro diacronico per tutte
le vicende 'de libertate'

di Paola Maggio
Ricercatrice diritto processuale penale Univ. Palermo
Anche in sede cautelare appare opportuno dare attuazione alla sentenza Torregiani, ricorrendo alla misura inframuraria solo quale extra ratio, a prescindere dalle esigenze di politica criminale e dalle ideologie dominanti
Il "minor sacrificio necessario": parametro diacronico per tutte<br>le vicende 'de libertate'

ITanto tuonò che piovve”: l’espressione bene rappresenta il dilagante trend giurisprudenziale in materia di valutazioni cautelari, rinvenibile nelle recenti scelte della Corte costituzionale, in alcune autorevoli decisioni di legittimità e nelle prassi dei giudici de libertate.

Nel caso di specie, l’accento è posto sulla necessità di applicare i principi di proporzionalità e di adeguatezza, ex art. 275 comma 2 c.p.p., quali criteri di commisurazione delle misure cautelari alle specifiche esigenze concrete, riferendoli tanto al momento della scelta e dell’adozione del provvedimento coercitivo, quanto a tutta la durata dello stesso.

Secondo la lettura proposta, gli organi chiamati alle verifiche sulla libertà devono operare un costante controllo «della perdurante idoneità della specifica misura a fronteggiare le esigenze che concretamente permangano o residuino, in conformità al canone della minor compressione possibile della libertà personale».

L’adozione del «parametro diacronico» appare necessitata e del tutto naturale se inserita nel contesto della “Carta delle libertà” del quarto libro del codice di procedura penale del 1998, dominato dalla presunzione di non colpevolezza e dal concetto di carcere come extrema ratio.

Tali precetti di derivazione costituzionale inibiscono, infatti, di piegare le finalità strumentali proprie delle cautele verso espedienti utili alla anticipazione della pena (Chiavario, Una «carta di libertà» espressione di impegno civile con qualche sgualcitura e qualche patinatura di troppo, Leg. pen., 1990, 216; Tonini, Manuale di procedura penale, Milano, 2012, 420).

Ma lo sfondo “culturale” delle argomentazioni dei giudici della libertà è soprattutto costituito dall’intenso lavorío interpretativo dell’ultimo biennio, che ha ridisegnato i contorni della presunzione di adeguatezza della custodia cautelare assegnandole o, meglio, riassegnandole un significato più consono mediante il riferimento costante al canone guida del «minor sacrificio necessario».

È palese infatti, nel provvedimento, il richiamo alle numerose pronunce con le quali la Consulta è intervenuta sulla presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia in carcere per i delitti di particolare gravità, trasformandola in relativa, rileggendo i parametri costituzionali individuati negli art. 3, 13 comma 1, 27 comma 2 Cost. e, soprattutto, restringendo sensibilmente la portata dell’eccezione, pensata in origine per i soli delitti di criminalità organizzata di tipo mafioso (vedi, anzitutto, Corte cost., 21 luglio 2010, n. 265, relativa ai delitti a valenza sessuale, commentata da Lorusso, Reati sessuali: è illegittimo prevedere l’obbligo della detenzione imposta in via cautelare, Guida dir., 2010, fasc. 35, 60; Marzaduri, Ancora ristretto il campo di operatività della presunzione assoluta di adeguatezza della custodia in carcere, Leg. pen., 2011, 697; Spangher, La «neutralizzazione» della pericolosità sociale. Prime riflessioni, Giust. pen., 2010, I, 407; Tonini, La Consulta pone limiti alla presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere, Dir. pen. proc., 2010, 949; nonché, Corte cost., 12 maggio 2011, n. 164, in relazione all’omicidio volontario; ed ancora, Corte cost., 22 luglio 2011, n. 231, in tema di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti; Corte cost., 16 dicembre 2011, n. 331, sul favoreggiamento delle immigrazioni illegali, richiamate dall’art. 12 t.u. immigrazione; Corte cost., 3 maggio 2012, n. 110, sulla associazione finalizzata alla contraffazione di opere dell'ingegno o di prodotti industriali e di introduzione e commercio nel territorio nazionale di prodotti con segni falsi; infine, Corte cost., 29 marzo 2013, n. 57, per i reati di “contesto mafioso”, aggravati dall’ art. 7 d.l. 13 maggio 1991, n. 152 conv. in l. 12 luglio 1991, n. 203, commessi cioè «avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni» previste dallo stesso articolo).

Da tempo la Corte sembra volere operare un recupero dei valori di fondo, assegnando centralità argomentativa al principio costituzionale del «minore sacrificio necessario» (Corte cost., sent. 22 luglio 2005, n. 299) ed esaltando, volutamente, la discrezionalità del giudice nella valutazione casistica delle ragioni legittimanti le singole cautele.

Il percorso rinsalda i caratteri di un sistema cautelare, ispirato dal modello della «pluralità graduata» e caratterizzato, tanto da una gamma di misure alternative, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale, quanto da scelte «individualizzanti» del trattamento cautelare, coerenti e adeguate alle esigenze configurabili nei singoli casi concreti, pur senza giungere a escludere la possibilità di presunzioni assolute (Corte cost., 23 gennaio 1980, n. 1, Corte cost., 4 maggio 1970, n. 64).

In questo contesto, l’apprezzamento concreto delle esigenze cautelari deve essere lasciato al giudice mentre la scelta della misura può essere operata dal legislatore nei limiti della ragionevolezza e del corretto bilanciamento dei valori costituzionali coinvolti, anche attraverso generalizzazioni che risultino fornite di congrua «base statistica» e supportate da regole di esperienza «sufficientemente condivise» e giustificate dall’id quod plerumque accidit (in questi termini, Corte cost., 24 ottobre 1995, n. 450, annotata da Negri, Sulla presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere nell’art. 275,3° comma, c.p.p., Cass. pen., 1996, 2835).

Per molti versi, l’opzione segna un ritorno alle origini dell’art. 275 comma 3 c.p.p. del codice di rito.

Nella stesura originaria, la custodia cautelare in carcere poteva essere disposta soltanto quando ogni altra misura risultasse «inadeguata» e l’esclusivo ancoraggio al caso concreto realizzava una piena “individualizzazione” della coercizione cautelare (Amato, Sub art. 275, in Commentario del nuovo codice di procedura penale, a cura di Amodio, Dominioni, Milano, 1990, III, 43).

Era stato invece il riacutizzarsi dell’offensiva criminale mafiosa a “spingere” il legislatore ad alterare “morfologicamente” i contenuti della previsione: con la l. 8 novembre 1991, n. 356, veniva introdotta, nel sistema disegnato dall’art. 275, comma 3, c.p.p. (già modificato con l. 12 luglio 1991, n. 203), una presunzione iuris tantum di esistenza delle esigenze cautelari, abbinata ad una presunzione iuris et de iure di inadeguatezza di misure cautelari diverse da quella custodiale in carcere (Grevi, Nuovo codice di procedura penale e processi di criminalità organizzata: un primo bilancio, in Processo penale e criminalità organizzata, a cura di Grevi, Bari, 1993, 10).

In tal modo gli spazi di valutazione del giudice erano visibilmente compressi, a ragione del vigore richiesto dalla peculiare gravità di talune vicende processuali e dalla pericolosità degli imputati (Marzaduri, Sub art. 5 l. 8/8/1995, n. 332, Leg. pen., 1995, 623, a commento delle successive modifiche del disposto).

Il rigido automatismo, pensato in origine per le fattispecie più gravi, poneva il giudice nella condizione di adempiere automaticamente l’onere dimostrativo circa la necessità di applicare la custodia carceraria (Manzione, Una normativa d’emergenza per la lotta alla criminalità organizzata e la trasparenza e il buon andamento dell’attività amministrativa (d.l. 152/91 e l. 203/91): uno sguardo d’insieme); parimenti, veniva eliminata ogni possibilità di graduare la misura sia in sede di applicazione sia in fase di prosecuzione della custodia (art. 1 d.l. 9 settembre 1991, n. 292, conv. in l. 8 novembre 1991, n. 356).

Nonostante le distonie, la presunzione assoluta superava indenne i primi controlli di legittimità costituzionale (Corte cost., n. 450 del 1995), proprio in forza di palesate esigenze di ragionevolezza del disposto con riguardo alle specifiche tipologie criminali prese di mira.

Il forte radicamento territoriale, ottenuto attraverso l’uso di forme di intimidazione e basato sul rispetto di robusti codici d’onore, consentiva infatti di formulare una regola di esperienza sufficientemente condivisa secondo cui la custodia in carcere costituiva la sola misura idonea a troncare i rapporti tra l’indagato e l’associazione.

Sulla stessa scia, la Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte e.d.u., 6 novembre 2003, Pantano c. Italia § 66) riteneva la previsione conforme ai precetti della CEDU, viste la specificità e gravità dei di reati associativi, la cui connotazione strutturale astratta entro un contesto di criminalità organizzata di tipo mafioso, o come reati a questo comunque collegati, rendeva «ragionevole» la presunzione di adeguatezza della sola custodia carceraria trattandosi, in sostanza, della misura più idonea a neutralizzare il periculum libertatis connesso al verosimile protrarsi dei contatti tra imputato e associazione (Mantovani, Dalla Corte Europea una “legittimazione” alla presunzione relativa di pericolosità degli indiziati per mafia, Leg. pen., 2004, 513 ss.).

In altri termini, la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere rispetto ai delitti di mafia risultava utile a recidere «i legami esistenti tra le persone interessate e il loro ambito criminale di origine», neutralizzando altresì il rischio del mantenimento di «contatti personali con le strutture delle organizzazioni criminali» avvezze a commettere delitti.

Ad un certo punto, però, il legislatore, abbandonata “improvvidamente” la strada selettiva sino ad allora tollerata dalla Consulta e dalla Corte europea, estendeva eccessivamente il meccanismo presuntivo a tutta una serie di delitti eterogenei (d.l. 23 febbraio 2009, n. 11, conv. dall’art. 1 della l. 23 aprile 2009, n. 38), meritando così le reiterate e “sonore” censure di Costituzionalità, cui si è fatto cenno (Barrocu, La presunzione di adeguatezza esclusiva della custodia in carcere: evoluzione normativa e giurisprudenziale, Dir.pen. proc., 2012, 224), ed in qualche modo segnando l’epilogo della previsione medesima, laddove l’allarme sociale incarnava l’esigenza legittimante la misura cautelare in carcere (Tonini, La Consulta pone limiti alla presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere, in Dir. pen. proc., 2010, 952; Lorusso, Altre le norme a rischio di prossima bocciatura irrispettose del “minor sacrificio necessario”, in Guida dir., 2011, 22, 77).

Era evidente, infatti, la totale “torsione” delle finalità cautelari più generali, piegate verso obiettivi tipici della pena e normalmente riferibili ad accertate responsabilità degli imputati per i reati commessi.

A ben vedere, in Italia, la volontà legislativa di assegnare alla cautela finalità politico-criminali di repressione anticipata dei fenomeni più preoccupanti costituisce un dato risalente e sistemico, basti in tal senso pensare alle forme di cattura obbligatoria già presenti nel codice del 1930, ma il problema sembra essere maggiormente avvertito quando le mutazioni e gli incrementi delle ipotesi di presunzione assoluta di adeguatezza raggiungono livelli di assoluta intollerabilità: «in dubio custodiatur reus»; rimane libero solo chi risulti ignoto» (Cordero, Procedura penale, Milano, 2012, 483).

Ciò spiega le manovre correttive della Consulta finalizzate a restituire il corretto spazio di residualità alla vituperata deroga, mediante successivi innesti giurisprudenziali, in mancanza della consolidazione della soluzione di favor in un unico testo legislativo (Chiavario, Merito e metodo: a proposito di una recente sentenza pro libertate, http://www.associazionedeicostituzionalisti.it/, 2012, II, 1 ss.; Id., Lotta alla criminalità organizzata e politica (in Atti di un incontro di studio del CSM), Roma, 1978, 251).

II. Nella configurazione attuale, dunque, l’affievolimento della presunzione voluto dalla Consulta trova il suo naturale compimento nella rafforzata valutazione giudiziale del singolo caso concreto, cui è rimesso il vaglio di una positiva e reale attenuazione del valore sintomatico del fatto (da ultima, Corte cost., 29 marzo 2013, n. 57, cit.).

E l’esercizio di questo forma di discrezionalità è perfettamente leggibile nelle trame del provvedimento in esame.

Difatti, una volta definiti i contorni della presunzione di adeguatezza, ne sono scanditi con chiarezza i termini di operatività: l’art. 275 comma 3 c.p.p., si applica non solo in occasione dell’adozione del provvedimento genetico della misura coercitiva ma anche in relazione alle vicende successive che attengono alla permanenza delle esigenze cautelari (Cass., sez. un., 19 luglio 2012, n. 34473, sez. un., ord. 19 luglio 2012, n. 34474; Gamberini, Le sezioni unite sull'operatività della presunzione di esclusiva adeguatezza della custodia in carcere nelle fasi successive a quella genetica: l'art. 275, comma 3, c.p.p. ancora alla Corte costituzionale, Cass. pen., 2013, 42 ss.) ed, analogamente, anche nel momento della sostituzione della misura (Cass., sez. un., 31 marzo 2011, n. 27919), a conferma del fatto che una diversa soluzione inciderebbe sulla razionalità del sistema.

La logica seguita anticipa l’ultimo recentissimo approdo del supremo consesso (Cass. sez. un., 30 maggio 2013, n. 11751) che ha ribadito la piena possibilità di rivalutare le esigenze cautelari anche con riguardo alle vicende in itinere della misura.

Intervento risolutore, quest’ultimo, resosi nuovamente necessario a seguito della nuova censura di costituzionalità dell’art. 275 comma 3 c.p.p. con riguardo proprio alle fattispecie aggravate dall’art. 7 d.l. n. 152 del 1991 (Corte cost., 29 marzo, 2013, n. 57, loc.cit.; sulla stessa scia, nella giurisprudenza di legittimità, in ordine alla possibilità di rivalutazione della pericolosità sociale del soggetto e di applicazione della misura meno afflittiva: sez. II, 14 febbraio 2012, n. 7586; sez. II, 17 gennaio 2012, n. 2937; sez. II, 17 gennaio 2012, n. 2938).

L’adozione del descritto parametro “diacronico” appare poi ai giudici della libertà pienamente coerente con le norme della Convenzione europea sui diritti umani, come interpretate dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo: la recente censura, rivolta all’Italia, con il corrispettivo monito a prevedere «un ricorso o un insieme di ricorsi interni idonei a offrire un ristoro adeguato e sufficiente per i casi di sovraffollamento carcerario, in conformità ai principi stabiliti nella giurisprudenza della Corte» (Corte e.d.u., 8 gennaio 2013, Sez. II, Torreggiani e a. contro Italia §§ 73 ss.; cfr., pure, Giostra, Sovraffollamento delle carceri: una proposta per affrontare l’emergenza, Riv.it.dir.proc.pen., 2013, 55), rappresentano, sotto tale profilo, i “sigilli” argomentativi posti, dal giudice della libertà, sulla scelta di applicare la misura cautelare meno afflittiva in una prospettiva individualizzata, tendente alla verifica dei comportamenti concreti, del rischio recidiva nonché della condizione personale e sociale del soggetto.

In quest’ottica, la decisione annotata esprime al meglio l’attuale stagione giurisprudenziale, caratterizzata da impostazioni sempre più flessibili del criterio dell’adeguatezza, i cui segni possono persino leggersi in alcune pronunce concernenti le fattispecie associative in senso stretto: «pur nella gravità che assumono i delitti richiamati dal comma 3 dell’art. 275 c.p.p., la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia carceraria, non risultando assistita da adeguato fondamento razionale, deve considerarsi alla stregua di presunzione relativa, dovendo il giudice verificare, sempre ed in ogni caso, che non siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure, tenendo conto del decorso temporale che può, utilmente, essere apprezzato quando, trattandosi di associazione criminale, questa si sia sciolta da tempo» (Cass., sez. VI, 13 ottobre 2011, n. 41351, Giur. it., 2012, 1144.).

V’è da domandarsi, a questo punto, se il brusco “temporale” di settore – per tornare alla metafora meteorologica iniziale – possa rendere ancora tollerabile (e sino a quando?) la deroga specifica contemplata nell’art. 275 comma 3 c.p.p. per i delitti di criminalità strettamente mafiosa (a difesa della previsione: Grevi, Nuovo codice, cit., 10), ovvero se esso sia destinato a travolgere, in maniera alluvionale, anche la residua presunzione di tipo assoluto (già auspicata da Cristiani, Misure cautelari e diritto di difesa, Torino, 1995, 46).

Non si può non ricordare, tuttavia, come la specificità del fenomeno mafioso, sotto il profilo probatorio, abbia trovato un riconoscimento costituzionale nell’art. 111 comma 5 Cost., con la deroga del “contraddittorio inquinato”, il che potrebbe forse indurre a ritenere che un’eccezione analoga di “doppio binario” possa reggere – seppure entro gli stretti confini sopra delineati – anche sul fronte cautelare.

Del resto, la stessa Consulta ha voluto sinora preservare il ristretto ambito di operatività della presunzione proprio con riguardo alla condotta partecipativa (Corte cost., 29 marzo, 2013, n. 57, ult. loc.cit., fa riferimento al «dato empirico, ripetutamente constatato, della inidoneità del processo e delle stesse misure cautelari a recidere il vincolo associativo e a fare venire meno la connessa attività collaborativa, sicché, una volta riconosciuta la perdurante pericolosità dell’indagato o dell’imputato del delitto previsto dall’art. 416-bis c. p., è legittimo presumere che solo la custodia in carcere sia idonea a contrastarla efficacemente»).

La questione appare tuttora aperta e particolarmente spinosa.

Si comprende del resto come l’esito finale non sarà segnato esclusivamente dai risvolti tecnici, in quanto l’elevatezza del bene giuridico in rilievo e la complessità di spinte e reazioni politico-criminali – esprimenti la realtà storica e istituzionale del nostro Paese – rendono il processo penale assai sensibile alle variazioni delle ideologie dominanti (più in generale, Garapon, Lo stato minimo, il neoliberismo e la giustizia, Milano, 2012, 71 ss.).

 

12/07/2013
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