I provvedimenti pubblicati rappresentano i primi esempi di applicazione dell’art. 434 cod. proc. civ. : ma non solo nella cronologia risiede il loro, indubbio, interesse.
Sia la sentenza della sezione lavoro della Corte di Appello di Roma, sia quella della Corte di Appello di Salerno affrontano la novella, adottando una linea rigorosa nella lettura delle nuove disposizioni contenute nell’art. 434 cod. proc. civ., come sostituito dall’art. 54 comma 1 lett. c bis) del d.l. 22.6.2012 n. 83 convertito in legge con L. 7 agosto 2012 n. 134, del tutto analogo, nella sostanza al nuovo art. 342 cod. proc. civ., applicabile nel giudizio ordinario.
Il caso affrontato dai giudici della capitale riguarda un’ipotesi di liquidazione di differenze retributive per festività, straordinario, ferie e permessi, in cui il giudice di prime cure ha riconosciuto una determinata somma, a titolo di corrispettivo per permessi retribuiti di cui al C.C.N.L. applicabile, nella misura corrispondente a 15 minuti al giorno, in assenza della prova dell’uso aziendale secondo il quale siffatti permessi sarebbero stati effettivamente fruiti all’inizio o alla fine dell’orario di lavoro.
Nel formulare il gravame contro la sentenza del Tribunale di Velletri, l’appellante - secondo la ricostruzione della Corte- si limita a riproporre le eccezioni formulate nel primo grado di giudizio, in ordine all’insussistenza del diritto alle differenze retributive ed all’infondatezza dei conteggi allegati al ricorso introduttivo in primo grado, con ciò affermando l’erroneità della sentenza nella parte in cui accerta il diritto al ricalcolo delle voci retributive, così come nella parte in cui rigetta la tesi della società resistente in relazione ai permessi.
Nel dichiarare l’inammissibilità dell’appello, la Corte territoriale introduce alcune considerazioni interpretative, che si intendono orientate dai principii costituzionali del giusto processo e della ragionevole durata (111 Cost.).
Viene offerta una lettura della nuova disciplina sulla forma dell’appello che comporta l’obbligo di redazione dell’impugnazione secondo uno schema che ricalca il provvedimento decisorio, con l’indicazione delle parti della sentenza che si intendono impugnare, ma anche con l’articolazione delle modifiche che si richiedono in fatto, in relazione alla ricostruzione compiuta dal giudice di primo grado, nonché con l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione di legge e la loro rilevanza ai fini della decisione impugnata.
Da queste premesse deriverebbe l’inammissibilità dell’impugnazione ogni volta in cui non solo siano indicate le statuizioni non condivise, ma siano anche omesse le modifiche analiticamente proposte con riferimento a ciascuna parte della sentenza. Nel caso di specie, l’appello, per essere conforme al disposto del nuovo art. 434 cod. proc. civ., avrebbe dovuto non solo contenere i prospetti contabili alternativi rispetto a quelli posti a base della decisione, ma anche individuare il “testo” di una diversa pronuncia sulle c.d pause caffè, relativamente al regime di fruizione dei permessi giornalieri ex art. 5 CCNL applicabile.
Il provvedimento della Corte di appello di Salerno riguarda, invece, la materia assistenziale: la decisione impugnata ha per oggetto il riconoscimento della provvidenza dell’indennità di accompagnamento, sulla base di una consulenza tecnica svolta nel giudizio di primo grado.
L’ente previdenziale propone appello affermando che il diritto alla prestazione, fondato sulla consulenza, “non trova alcun riscontro nella realtà psicofisica del dell’appellato”, con richiamo a sostegno del motivo di appello alle “deduzioni medico legali del sanitario dell’INPS”.
La Corte salernitana, dopo un’ampia argomentazione sul significato della riforma, chiarisce che la formulazione di motivi che si limitino alla reiterazione della tesi difensiva proposta in primo grado, senza tener conto delle ragioni della decisione impugnata è inidonea “a determinare sia l’effetto demolitorio di tali ragioni, sia l’effetto sostitutivo delle stesse con una nuova motivazione”.
Entrambe le decisioni hanno il pregio della chiarezza: per essere ammissibile l’atto di appello deve essere formulato così come la sentenza che si pretende di ottenere dal giudice dell’impugnazione.
In assenza di tali requisiti, sulle istanze di giustizia riferibili al caso oggetto del giudizio, devono senz’altro prevalere le istanze derivanti dalla ragionevole durata del processo.
La disposizione di cui all’art. 434 cod. proc. civ. e quella di cui all’art. 436 cod. proc. civ., che richiama gli artt. 348 e 348 ter cod. proc. civ., secondo i giudici capitolini, hanno il compito, almeno implicitamente, di chiarire che la ragionevole durata del processo è canone interpretativo in qualche modo prevalente sulla giustizia della decisione, intesa quale conformità alla legge sostanziale.
Il legislatore sceglie senz’altro la prima, quando la parte che chiede la riforma della sentenza di primo grado omette di indicare con puntualità, non solo le parti del provvedimento che vuole impugnare, ma altresì le parti della sentenza che assumono un rilevo causale rispetto alla decisione e le modifiche che debbono essere apportate al provvedimento decisorio con riferimento al fatto, nonché il rapporto causale fra la violazione di legge denunciata e la decisione impugnata.
Di fronte alla chiarezza di tali assunti, tratti dalla lettura dei primi provvedimenti che applicano la novella agostana, è dovere degli interpreti chiedersi se il legislatore abbia davvero inteso attribuire alla rapidità della decisione (e quindi, alla realizzazione del canone della ragionevole durata) un valore preminente rispetto al diritto della parte di ottenere con l’appello la verifica della correttezza della decisione di primo grado.
Non vi è dubbio che la disposizione, anche se letta in senso restrittivo, non presenta profili di incostituzionalità: la decisione di appello, infatti, viene resa da un giudice imparziale, sulla base di una normativa preesistente, in un processo cui possono partecipare in condizione di parità tutte le parti protagoniste del primo processo.
Nondimeno, è doveroso chiedersi se le nuove disposizioni sui requisiti dell’appello autorizzino un’opzione esegetica che, a fronte di un appello formalmente non preciso e puntuale, sacrifica il singolo processo e la sua giusta composizione, in favore della necessità di ridare efficienza e rapidità al complessivo sistema delle impugnazioni, giustificando così una lettura rigorosamente formale dei requisiti dell’atto introduttivo dell’impugnazione.
In realtà sull’effettiva portata della novella la dottrina propone letture problematiche, di segno diverso rispetto a quello che caratterizza i provvedimenti pubblicati.
Secondo G. Costantino (La riforma dell’appello, Congresso Nazionale Forense, Bari 22-24 novembre 2012 in www.Treccani.it) la riforma non fa che esplicitare “le conclusioni cui era pervenuta la giurisprudenza” limitandosi a pretendere la denuncia dell’ingiustizia del provvedimento sotto il profilo ontologico e l’indicazione, sul piano normativo, del contenuto della nuova valutazione richiesta.
Per G. Verde (Diritto di difesa e nuova disciplina delle impugnazioni in www. Judicium.it) la struttura delle nuove disposizioni sulla forma dell’appello trasforma “l’appello da rimedio contro l’ingiustizia della sentenza in impugnazione intesa a rimediare agli errori del primo giudice”.
Per R. Caponi (La riforma dell’appello civile dopo la svolta nelle commissioni parlamentari in www. Judicium.it) si deve temere, nella pratica giurisprudenziale, una lettura che si spinga a richiedere, a pena di inammissibilità, la redazione di una motivazione alternativa a quella della sentenza impugnata.
La preoccupazione della dottrina sembra dunque quella di scongiurare il pericolo che i giudici utilizzino la riforma per scopi che trascendono la decisione del processo, facendone uno strumento, unitamente alla valutazione ex art. 348 ter cod. proc. civ., di mero incremento della produttività e di smaltimento dell’arretrato, a scapito della verifica della qualità della decisione di primo grado.
A fronte di tali perplessità, che probabilmente i due provvedimenti delle Corti andranno a rafforzare, conviene ricordare che, se non è previsto costituzionalmente l’accesso indiscriminato ad una pluralità di gradi di giudizio (fatto salvo il ricorso per cassazione per violazione di legge), e se il legislatore statuale gode di una certa discrezionalità nel prevedere un limite all’accesso delle impugnazioni, tuttavia “le limitazioni non devono restringere o ridurre l’accesso in modo tale o con tale estensione da pregiudicare l’intima essenza di questo diritto; in particolare tali limitazioni non sono compatibili con l’art. 6, comma I Cedu, qualora esse non perseguano uno scopo legittimo, ovvero qualora non vi sia una ragionevole relazione di proporzionalità tra il mezzo impiegato e lo scopo perseguito” (Corte EDU, 21 giugno 2011, Dobrić v. Serbia).
Il quadro costituzionale ed europeo sembra piuttosto orientare la giurisprudenza verso canoni interpretativi “elastici”, capaci di conservare il compito correttivo dell’appello senza nondimeno consentire l’abuso del processo.
Non si tratta certamente nella pratica di un compito facile, anche perché l’ampio accesso all’impugnazione dei provvedimenti, da sempre assicurato dal legislatore processuale italiano, finora sostanzialmente senza alcun filtro posto a monte, informa il sentire giuridico delle categorie coinvolte.
Trovare, per la prima volta, un vero e proprio sbarramento imposto dal legislatore per alleggerire il processo da richieste di revisione dei provvedimenti decisori, che si dimostrino, per il modo in cui vengono redatte, prive della possibilità di essere esaminate, comporta certamente per tutti, ed in primis per i giudici di appello, un cambio di passo, una sfida da affrontare, avendo ben presente l’obbiettivo della realizzazione di una migliore efficienza della giustizia nel suo complesso.
In questa stessa direzione, una lettura che non sacrifichi la giustizia sostanziale sull’altare della rapidità, potrebbe piuttosto limitare la portata dell’art. 434 cod. proc. civ. (così come quella dell’art. 342 cod. proc. civ.) nel senso di imporre che l’atto introduttivo dell’appello, in un rapporto dialogico con la sentenza impugnata, individui le questioni di fatto e di diritto che si intendono risolte male e ne indichi la soluzione alternativa, senza tuttavia richiedere la redazione di una vera e propria motivazione alternativa (pur pretendendo che sia precisata la causalità dell’errore di diritto denunciato sulla decisione impugnata).
Si tratterebbe insomma di onerare la difesa dell’obbligo di puntualizzare gli errori commessi dal primo giudice e di chiarire quindi le correzioni richieste, di mettere cioè il giudice di appello nella condizione di comprendere bene quale decisione si pretende di ottenere.
Il rischio che comporta la richiesta di arricchire gli atti di appello di ulteriori contenuti, quali appunto la prospettazione della motivazione conseguente all’accoglimento delle censure formulate, è quello di introdurre formalismi inutili per il percorso decisionale, ed anche ultronei rispetto al carattere sistematico di verifica della decisione di primo grado, che l’appello conserva pur sempre nel nostro ordinamento, venendo a trasformare così il secondo grado in un giudizio sugli atti di parte anziché in un giudizio sulla sentenza impugnata.
Nè può trascurarsi di considerare che, a fronte di un irrigidimento eccessivo della giurisprudenza rispetto alla valutazione di inammissibilità, il correttivo finirebbe per produrre non un minore utilizzo del mezzo di impugnazione ma più semplicemente - dopo il primo periodo di rodaggio – il ricorso generalizzato ad una formalistica predisposizione degli atti di appello che comporti il superamento del primo scoglio processuale, con buona pace di ogni tentazione in ordine all’utilizzo deflattivo della norma.
La novella, al contrario, può essere un’occasione per costruire un rinnovato rapporto di collaborazione fra il giudice e le parti in vista della realizzazione dell’obiettivo comune: enucleare con precisione ciò che si vuole modificare del provvedimento di primo grado e come si vuole modificarlo, rende infatti più semplice e spedita la decisione di appello, senza sacrificare il diritto alla revisione delle decisioni in funzione del carico complessivo di lavoro.
Le molte critiche mosse alla riforma delle impugnazioni possono contribuire ad orientare gli interpreti al mantenimento di un’ampia conservazione del diritto di difesa, ed il legislatore ad un rinnovato ascolto delle categorie coinvolte, per evitare che il percorso del processo civile continui ad incappare, ogni anno, nella sua mini riforma “rivoluzionaria”, che lungi dal produrre effetti, rende sempre più illeggibile il codice di procedura civile.