Con la sentenza dello scorso 31 gennaio le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno compiuto un importante passo in avanti nel percorso di emancipazione interpretativa dalle scelte più discutibili e regressive della c.d. Fini-Giovanardi, che nei primi mesi del 2006 aveva introdotto una serie di importanti modifiche alla legislazione penale in materia di stupefacenti. Modifiche improntate, rispetto al passato, ad una maggiore severità rispetto ad ogni attività comunque connessa alla circolazione di sostanze stupefacenti, con la criticatissima equiparazione tra i vari tipi di droghe e nel contesto di un generale inasprimento delle pene, caratterizzato da un preoccupante ampliamento delle maglie dell'intervento repressivo fino a lambire i comportamenti di mero consumo (cfr. Cass., sez. II, n. 23574/2009).
Per quanto specificamente riguarda l’oggetto della presente riflessione, il legislatore di centrodestra aveva riscritto il testo dell'art. 75, che in origine prevedeva l'applicazione di una sanzione amministrativa per colui il quale facesse “un uso personale” di sostanze stupefacenti. A seguito della modifica del 2006, invece, era stato stabilito che, ai fini dell’applicazione della sanzione amministrativa, lo stupefacente dovesse essere destinato ad un uso “esclusivamente” personale.
Una modifica testuale apparentemente innocua, quella appena descritta; ma che in realtà aveva frequentemente dato luogo, nelle interpretazioni dei giudici di legittimità (v. Cass., sez. III, n. 35706 del 2011; Cass., sez. IV, n. 46023 del 2011), a pronunce di condanna nei casi sia di «mandato all'acquisto» (ovvero di incarico all'acquisto di un soggetto da parte degli altri appartenenti al medesimo gruppo di consumatori) che di «acquisto comune» (ossia di compartecipazione collettiva all'acquisto stesso): ipotesi per le quali, precedentemente alla modifica normativa, le Sezioni unite avevano optato per la non punibilità in considerazione della “omogeneità ideologica della condotta del procacciatore” rispetto a quella degli altri componenti del gruppo, tale da caratterizzare la detenzione dello stupefacente in realtà come una codetenzione, escludendo, per questa via, la configurabilità di condotte di cessione (si veda Cass. Sez. Un., n. 4 del 1997).
Benché non si conoscano ancora i passaggi argomentativi della Suprema corte, le cui motivazioni saranno note tra circa un mese, è probabile che la soluzione accolta sia stata determinata da una lettura del fenomeno ispirata ad un criterio di ragionevolezza. E' infatti contrastante con il più elementare buon senso escludere la rilevanza penale del consumo individuale di droga e, al contempo, sanzionare penalmente il consumo realizzato in un contesto collettivo. Entrambe le condotte considerate, quella di mandato all'acquisto e di acquisto comune, del resto, esprimono una sostanziale condivisione di tutti i partecipanti (esecutori dell'acquisto e destinatari dello stupefacente) ad un progetto comune, sicché la differenziazione del regime giuridico appare davvero irragionevole.
Siamo dunque in presenza di un'importante pronuncia, che tuttavia non può certo nascondere la necessità di un intervento di profonda rivisitazione della nostra legislazione penale sulle droghe, su cui il prossimo parlamento dovrà necessariamente pronunciarsi.
Anche a voler prescindere, infatti, da opzioni di schietta impostazione antiproibizionistica, di difficile percorribilità nell'attuale contesto politico-culturale, sono certamente possibili ed anzi appaiono ormai indifferibili alcuni interventi mirati, in grado di incidere su una situazione che vede nei reati in materia di stupefacenti le violazioni più frequentemente contestate nelle nostre aule di giustizie e, di riflesso, il principale titolo di detenzione nei nostri istituti penitenziari.
Interventi di modifica normativa che la recente mozione conclusiva del congresso di Magistratura democratica ha, sia pur rapidamente, indicato: “la repressione in via solo amministrativa dei fenomeni di cessione dei derivati della cannabis indica o quantomeno la reintroduzione della doppia tabella per droghe leggere e droghe pesanti e la conseguente differenziazione del regime sanzionatorio; la creazione di una fattispecie autonoma per i c.d. “fatti di lieve entità” (sottraendo quella che è, oggi, una circostanza attenuante alle incognite del giudizio di bilanciamento); una più netta tipizzazione degli indici legali dello spaccio di sostanze, onde evitare la frequente incriminazione di soggetti che hanno in realtà il profilo criminologico del mero consumatore; una chiara depenalizzazione della coltivazione di cannabis per uso personale; una generale riduzione delle pene edittali” (dalla mozione finale del XIX Congresso di Magistratura democratica).
Da ultimo giova segnalare un aspetto assai interessante, che qui si segnala per l’evidente connessione con il tema trattato: nei prossimi mesi la Corte costituzionale dovrà pronunciarsi sulla questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte d’Appello di Roma in data 28 gennaio 2013. Secondo i giudici capitolini, infatti, la scelta del legislatore di centrodestra di inserire nella legge n. 46 del 2006 di conversione del decreto legge n. 272 del 2005 sulle olimpiadi invernali, un maxiemendemento di contenuto assolutamente estraneo all’oggetto e alle finalità del testo originario del decreto di urgenza, esorbita dal potere di conversione attribuito al Parlamento dall’art. 77, comma 2, della Costituzione (v. Corte cost., sent. n. 22/2012). Con la conseguenza che, ove la questione dovesse essere accolta, si dovrebbe ritornare al regime previgente alla Fini – Giovanardi. Uno scenario, questo, disegnato per la prima volta da Luigi Saraceni in occasione di alcuni incontri di studio promossi dalla Società della Ragione, cui ha partecipato anche Magistratura democratica e che dall’ambito originario della riflessione politico-culturale approdano ora nei primi provvedimenti giudiziari.