L’aggettivo ‘balcanico’, oltre ad identificare la penisola posta all’estremo sud- orientale del continente europeo, viene utilizzato per definire una situazione geo-politica in ebollizione, prossima all’esplosione, in cui più fazioni riconducibili a gruppi etnici contrapposti ciclicamente si scontrano in conflitti e faide nel corso dei quali pare che il genere umano non possa risparmiarsi le peggiori nefandezze.
A parere di chi scrive, l’aggettivo medesimo può essere utilizzato, in una accezione nuova ed atecnica, anche per definire in certo uso propagandistico delle vicende processuali, piuttosto comune nella maggior parte dei Paesi della penisola balcanica.
Secondo tale pratica, accade sovente che processi per fatti comuni, per quanto gravi, siano sfruttati dalle diverse forze politiche o parti interessate, per dimostrare teoremi e per dare forza alla propria tesi politica.
È un uso ovviamente abusivo dei risultati della attività processuale, al tempo stesso indice e causa della profonda sfiducia che i popoli balcanici in generale nutrono nei confronti dei rispettivi (ed altrui) sistemi giudiziari e del modesto ruolo che alla funzione giudiziale viene in tali Paesi riconosciuta, ancora profondamente dominati dall’idea della forza piuttosto che da quella delle regole e del diritto.
È una circostanza sfortunata che, talora per calcolo, talora per assenza di calcolo (ingenuità? miopia?) diplomazie straniere ed addirittura credibili istituzioni internazionali contribuiscano, consapevolmente o meno, ad alimentare tale situazione di scollegamento dei fatti dalla realtà processuale.
Una vicenda giudiziaria recentemente conclusasi a Pristina (capitale della Repubblica del Kosovo) con la condanna di alcuni imputati per crimine organizzato e per traffico di esseri umani costituisce un esempio paradigmatico della tendenza sopra descritta
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Il processo, conosciuto come ‘Medicus case’ (dal nome della clinica privata di Pristina ove la attività illecita aveva luogo) ha avuto notevole risonanza internazionale per l’oggetto delle imputazioni, concernenti il traffico di esseri umani ed il crimine organizzato, due temi assai ‘sexy’ a livello di opinione pubblica internazionale e di primario interesse per le agenzie internazionali per la protezione dei diritti umani
Secondo la tesi dell’accusa, risultata sostanzialmente fondata al termine del processo, un gruppo di chirurghi, anestesisti e personale paramedico aveva dato vita, tra il 2007 ed il 2008 ad una associazione criminosa diretta al reperimento con mezzi illegali, di organi umani (reni) ed all’esecuzione di trapianti a favore di pazienti di diversa nazionalità.
Lo schema illecito era stato ideato e condotto da un chirurgo turco, dr.Yusuf Somnez, noto nel suo Paese come “il chirurgo del Diavolo” o “Doctor Frankestein” e già indagato per esercizio abusivo della professione medica e per traffico di esseri umani e di organi in Turchia ed in altri Paesi dell’area.
Le indagini, dopo le perquisizioni iniziali ed i conseguenti sequestri effettuati dalla polizia kosovara alla fine del 2008, sono state avocate e condotte dall’Ufficio del Procuratore Speciale Internazionale della Missione dell’Unione Europea in Kosovo (EULEX) che, come certamente noto al lettore, dal 2008 svolge una attività di supporto all’amministrazione della giovane Repubblica balcanica nelle tre aree della Giustizia, Polizia e Dogane (Border Control).
Il processo, durato tre anni (l’indictment è stato ‘filed in Court’ alla fine del 2010; la sentenza è stata depositata alla fine del 2013) è stato condotto da un Panel formato da due giudici internazionali (un polacco con funzioni di Presiding Judge ed un americano) ed un giudice locale; le imputazioni, oltre al Trafficking in Persons (art.139 del Codice Penale del Kosovo, CCK) ed Organized Crime (artiche 274.3 CCK), concernevano l’esercizio abusivo della professione medica (art.221 CCK), lesioni personali gravi (art.154 CCK) nonché diversi reati di abuso e di falso.
Poiché la Turchia aveva rifiutato l’estradizione di Yusuf Somnez (il chirurgo al centro della ‘rete’) mentre Israele aveva rifiutato di consegnare alla giustizia kosovara Moshe Harel (detenuto in Israele per fatti analoghi e mediatore tra ‘venditori’ ed ‘acquirenti’ di reni) e considerato che il codice di procedura penale del Kosovo (Kosovo Code of Criminal Procedure – KCCP) non consente il processo in contumacia, gli imputati principali erano il proprietario della clinica nonché chirurgo direttamente coinvolto nelle operazioni (Lutfi Dervishi) e suo figlio (Arban Dervishi) in qualità di general manager della clinica. Anche due medici anestesisti erano imputati, assieme ad alcuni funzionari amministrativi della clinica e del Ministero della Salute del Kosovo in relazione alle accuse di falso e di abuso.
L’investigazione ed il processo hanno esposto un traffico di (individui e dei loro) organi che ha interessato una trentina di venditori provenienti dai Paesi più poveri della ex-Unione Sovietica e dalla Turchia mentre i beneficiari provenivano da Germania, Canada, Israele e Polonia.
In Corte, i testimoni hanno raccontato drammatiche storie di sofferenza da parte dei venditori, generalmente mai pagati l’intera cifra promessa (tra i 10.000,00 ed i 15.000,00 euro) ed afflitti dalle conseguenze di pratiche chirurgiche lontane dall’eccellenza medica, senza supporto post-operatorio e con gravi conseguenze da rigetto.
Il pm del processo
Oltre agli 80 testimoni esaminati, elemento centrale della attività istruttoria sono state le richieste di rogatoria rivolte a 10 Paesi (Svizzera, Germania, Canada, Ucraina, Russia, Moldavia, Polonia, Stati Uniti d’America, Turchia ed Israele) nonché al Consiglio d’Europa per l’acquisizione di documenti o l’esame di testimoni con videolink.
La sentenza, come detto, ha sostanzialmente confermato l’accusa per tutti gli imputati, salvo dichiarare talune imputazioni minori prescritte o non più previste dalla legge come reato.
I principali imputati hanno ricevuto condanne per otto anni di reclusione ciascuno per il traffico e per il crimine organizzato.
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Come detto, fin da subito la vicenda processuale ha avuto risonanza a livello mondiale. Testate come Le Monde, The Guardian, El Pais ed emittenti televisive come la BBC ed altri primari media outlets hanno compreso la rilevanza della vicenda per la drammaticità della storia di sfruttamento che veniva denunciata (i ricchi acquirenti pagavano fino a 100,000,00 euro, i venditori dai Paesi poveri ricevevano le briciole) e per la disperazione che il processo esponeva.
Attraverso i vari resoconti veniva inoltre confermata l’immagine/clichè del Kosovo come crocevia di traffici illeciti e di terra senza legge, alla mercè del crimine organizzato.
Ma ciò che ha fatto da catalizzatore dell’interesse della pubblica opinione internazionale ed ha prestato il fianco a successive manipolazioni è stata la menzione del ‘Medicus case’ nel rapporto presentato all’inizio del 2011 dal parlamentare svizzero Dick Marty, nominato dal Comitato per gli Affari Legali e Diritti Umani della Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa relatore sul tema dei “Trattamenti inumani e traffico illecito di organi umani in Kosovo”.
Il rapporto rispondeva ad una mozione presentata all’Assemblea perché venisse condotta una investigazione sulle rivelazioni concernenti il tema del traffico d’organi di prigionieri Serbi dell’Esercito di liberazione del Kosovo (KLA-UCK) all’epoca del conflitto (1999), rivelazioni contenute in un libro di memorie pubblicato nel 2008 da Ms.Carla Del Ponte, già Procuratrice Capo presso il Tribunale Internazionale per la ex-Yugoslavia.
Nel libro di memorie veniva descritta l’attività d’indagine svolta in Albania per individuare la notoria ‘Yellow House’, una casa di campagna ove, secondo le indicazioni delle fonti della Procuratrice, prigionieri Serbi del movimento irredentista kosovaro sarebbero stati condotti, uccisi e quindi mutilati di organi (reni, cuore) da destinare al mercato nero. Il traffico, è l’implicita conclusione, avrebbe generato notevoli entrate, destinate a sostenere la guerra di liberazione.
Nelle 27 pagine del rapporto si delinea un quadro molto chiaro della vicenda, giungendo ad ascrivere ad uno dei leaders dell’epoca del KLA-UCK, ed attuale Primo Ministro della Repubblica del Kosovo (Hasim Thaqi), la consapevolezza o quanto meno la tolleranza del traffico, che viene dato nei fatti per certo.
In due passaggi del rapporto si afferma che vi sarebbero convincenti elementi per affermare che “la attività criminale sviluppata grazie al caos esistente nella regione (nel 1999, ndr) ad iniziativa di certi leaders del KLA legati al crimine organizzato, è continuata, seppure in altre forme, fino ad oggi, come dimostrato da una investigazione condotta dalla Missione dell’Unione Europea EULEX relativa alla clinica Medicus” (pg.3) e che “il profilo di traffico di organi nelle detenzioni post conflitto descritte nel nostro report è strettamente collegato all’attuale caso della clinica Medicus, non meno che attraverso prominenti Kosovari e personalità internazionali che appaiono come cospiratori in entrambe”.
Come è facilmente intuibile, le conclusioni alle quali il rapporto è pervenuto hanno avuto un effetto dirompente sul piano della relazioni Serbia-Kosovo e nella politica kosovara: esse sono state utilizzate dalla Serbia come evidenza che il Kosovo è governato da un gruppo di banditi sanguinari, pronti ai crimini più terribili (ammazzare i prigionieri per venderne gli organi), mentre sono state liquidate dalla politica del Kosovo e dell’Albania come prova di una cospirazione antialbanese capeggiata da un politico svizzero (Dick Marty, appunto) asseritamente noto per il suo pregiudizio anti-americano (gli USA essendo il primo alleato del Kosovo) ed anti-schipetaro.
La Serbia, di cui il Kosovo era fino al 1999 una provincia, ed il suo alleato storico, la Russia, hanno ripetutamente menzionato il ‘Medicus case’ in occasioni ufficiali, utilizzandolo come conferma della tesi del traffico di organi espiantati nel 1999 a prigionieri Serbi e per delegittimare così la guerra di liberazione portata avanti dal KLA con l’avvallo della Nato. Si è detto che ‘il lupo perde il pelo ma non il vizio’ e che il Premier kosovaro Hasim Thaqi non è un campione della libertà ma un bandito assetato di sangue.
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Ovviamente questa non è la sede per discutere il merito del rapporto Marty.
Piuttosto, in relazione al ‘Medicus case’ ed a sostegno della tesi iniziale di questo articolo (che, cioè, nei Balcani, ove conta di più l’apparenza della realtà, i risultati della attività processuale spesso contano di meno della apparenza che se ne può costruire), preme sottolineare i seguenti punti:
1) l’indagine che ha portato alla scoperta della attività illecita condotta nella clinica Medicus precede sia la pubblicazione del libro della dr.ssa Carla Del Ponte sia il Marty Report e trae origine da controlli della polizia di frontiera kosovara;
2) né nel corso delle indagini condotte dal Procuratore EULEX né nel corso del processo è emerso alcun profilo di possibile collegamento tra la attività chirurgica abusivamente condotta a Pristina nel 2008 ed il traffico di organi asseritamente avvenuto in Albania quasi un decennio prima; addirittura, uno dei possibili elementi di collegamento tra le due vicende secondo Marty (Mr.Shaip Muja, un medico, leader del KLA all’epoca del conflitto, consigliere del Premier Hasim Thaqi) è stato indicato come testimone dal Procuratore Internazionale EULEX e sentito come teste in Corte;
3) il collegio giudicante ha dovuto affrontare notevoli resistenze nella ricerca della prova provenienti proprio dagli Stati e dalle istituzioni che all’indomani della pubblicazione del Marty Report avevano richiesto con maggior forza un intervento internazionale per fare luce sul traffico di organi;
4) per esempio, la Russia, pur sollecitata più volte, anche a livello diplomatico, ha negato risposta alla richiesta di assunzione di testimoni e produzione di documenti in rogatoria;
5) ancora più gravi appaiono le decisioni del Consiglio d’Europa e della Svizzera, di non cooperare con la Corte negando la sospensione dell’immunità parlamentare di Dick Marty, quando ne era stata richiesta la testimonianza da parte del Procuratore EULEX.
Il punto merita un approfondimento: Dick Marty, in quanto parlamentare svizzero e membro della Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, gode di immunità per le opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni.
La corte, in considerazione delle gravi accuse e della espressa menzione del ‘Medicus case’ contenuta nel report, ove si allegano “a number of credible , convergent indications”, ha chiesto che la immunità venisse sospesa, così consentendo a Mr.Marty di testimoniare.
La richiesta è stata respinta sia dalla Confederazione elvetica che dal Consiglio d’Europa, invocando l’art.14 del General Agreement on Privileges and Immunities of the Council of Europe (“I rappresentanti dell’Assemblea Consultativa saranno immuni da ogni interrogazione ufficiale ….in relazione a parole dette o voti espressi nell’esercizio delle loro funzioni”).
Se non che, come viene evidenziato a pg.24 della sentenza, ove il punto viene affrontato, il successivo articolo 19 della medesima convenzione prevede “il diritto ed il dovere” da parte del Segretario Generale dell’organizzazione di sospendere l’immunità qualora essa impedisca il corso della giustizia e non ne derivi pregiudizio agli interessi del CoE.
La decisione del Consiglio d’Europa lascia perplessi, provenendo da una istituzione internazionale che fa della lotta al traffico di esseri umani un cavallo di battaglia.
Altrettanto può dirsi del rifiuto di testimoniare di Dick Marty che nella propria relazione aveva duramente stigmatizzato l’inerzia investigativa e le connivenze delle autorità internazionali in Kosovo, impegnandosi a dare “full and active support” a coloro che combattono l’indifferenza sul traffico di organi….
6) Il ‘Medicus case’ dimostra che la giustizia internazionale può produrre risultati positivi: tra mille difficoltà logistiche ed organizzative, i colleghi internazionali (assieme al giudice kosovaro, non dimentichiamo) sono riusciti a portare a termine un processo di notevole complessità, con prevalenti elementi di internazionalità, conducendo numerosi esami testimoniali in videolink, espletando decine di rogatorie.
V’è francamente da dubitare che un collegio giudicante composto esclusivamente da giudici locali avrebbe avuto la capacità e la determinazione per perseguire un simile risultato.