La teoria della Joint Criminal Enterprise (JCE - iniziativa criminale comune) è una delle questioni maggiormente dibattute nel diritto penale ed umanitario internazionale.
Nel tentativo di fare una drastica semplificazione si può dire che, come nel concorso di persone, è necessario decidere quale sia il minimo contributo che il singolo debba assicurare, ed in quali forme, perché si possa ritenere che egli abbia partecipato all’azione criminale ‘di gruppo’.
Nel diritto interno la questione si presenta in genere di semplice soluzione, grazie all’elaborazione consolidata della dottrina e della giurisprudenza ed al fatto che i reati, anche quando commessi in concorso, non giungono mai alle dimensioni evocate nei processi per crimini di guerra.
Ma nella Corte penale destinata a giudicare i crimini commessi nella ex-Yugoslavia, vuoi perché di formazione (relativamente) recente, vuoi perché destinata a giudicare fatti di dimensioni epocali, il dibattito è feroce ed ha dato luogo ad un alternarsi di decisioni contraddittorie.
La dottrina, elaborata fin dalle prime decisioni della corte (Tadic, 1999), era stata progressivamente raffinata con successive decisioni dell’Appeal Chamber (tra cui Ojdanic, 2003) che ne avevano distillato gli elementi costitutivi.
Ciò al fine di soddisfare le aspettative della Procura, che in fondo erano le ragioni per cui la stessa Corte era stata costituita nel 1993, di pervenire alla formulazione degli indictments non solo nei confronti degli autori diretti di crimini di guerra (per i quali si configura direct responsibility) o dei loro superiori gerarchici (command/superior responsibility), ma anche di coloro che, anche non militari, avevano avuto un ruolo di sostegno organizzativo nelle fasi preparatorie ovvero avevano rafforzato con hate speeches o teorie manifestamente razziste e discriminatorie, l’establishment che aveva provocato la catastrofe umanitaria. In quest’ultimo senso, si giustifica, ad esempio, il processo nei confronti di Vojislav Šešelj (link qui) presso l’ICTY.
Come è stato notato da diversi osservatori, sia a livello accademico che di polemica e propaganda giornalistica e di parte, sempre abbondanti quando si tratta di ‘fare le pulci’ alle istituzioni internazionali, vi è il rischio di un eccessivo ampliamento dell’ambito della responsabilità, estendendo l’incriminazione a condotte che non diano un contributo sostanziale alla azione criminale.
Un po’ come nel caso del concorso esterno all’associazione mafiosa, ipotesi ammessa dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione da oramai venti anni ma contestata anche in tempi recenti a seguito della pronuncia CEDU nel caso Contrada, nell’Aprile del 2015, la JCE è una creazione ‘pretoria’ che rischia di violare, se utilizzata estensivamente, esigenze fondamentali di tipizzazione degli illeciti (nullum crimen sine lege).
Pur su questo piano scivoloso, la teoria della Joint Criminal Enterprise era fiorita per oltre un decennio nelle sentenze della Corte, alimentata dalla ragionevole esigenza di portare alla sbarra i maggiori autori degli (innegabili) crimini di guerra o contro l’umanità commessi nei Balcani nell’infausto lustro 1991 – 1995 (e poi rinnovati nel biennio 1998 – 1999 in Kosovo).
L’armonia e la condivisione di una comune interpretazione giuridica che avevano consentito lo sviluppo della giurisprudenza si è sgretolata a partire dalla fine del 2012, con la decisione d’appello nel caso del generale Croato Ante Gotovina che aveva ribaltato la condanna irrogata dalla Trial Chamber (primo grado) sul presupposto (anche) della sussistenza di una JCE.
Per comprendere lo sgomento e lo sdegno che la decisione assolutoria aveva provocato nei circoli accademici e giudiziari internazionali, nelle associazioni delle vittime e nell’opinione pubblica serba, bisogna sapere che l’imputato non era un qualsiasi militare bensì il capo delle forze croate nel teatro principale dell’“Operation Storm”, alle dirette dipendenze del fanatismo del Presidente Croato, Franjo Tuđman. L’operazione, ‘la più grande battaglia sul suolo europeo dopo la fine della seconda guerra mondiale’, aveva fatto piazza pulita delle popolazioni Serbe che vivevano (da secoli) nel territorio a cavallo tra Croazia e Serbia. A seguito dell’offensiva oltre 150.000 persone di origine serba avevano dovuto lasciare la propria abitazione per trovare rifugio dai bombardamenti e dai rastrellamenti.
La decisione della maggioranza dell’Appeals Chamber era stata decisamente criticata dalle dissenting opinions dei giudici posti in minoranza, uno dei quali (l’italiano Fausto Pocar) aveva espresso in toni severi il proprio dissenso per gli errori commessi dalla maggioranza (‘the sheer volume of errors and misconstructions in the Majority’s reasoning…’; “the Majority’s mischaracterization of the Trial Chamber analysis…”) giungendo a parlare di grottesca ricostruzione di alcuni dei fatti rilevanti della decisione.
Sulla sussistenza della JCE (affermata dalla Trial Chamber e negata dalla Appeals Chamber) il membro della Corte aveva osservato che “the Majority negligently misapplied the standard of review” che essa stessa aveva stabilito, liquidando in soli tre paragrafi una questione giuridica che aveva occupato il Tribunale in primo grado in una lunga disamina.
Ma la stoccata più decisa della dissenting opinion del Giudice Pocar si trova alla fine, laddove egli si chiede “cosa mai volesse raggiungere la Maggioranza annullando la mera esistenza della JCE piuttosto che concentrarsi sul significativo contributo alla JCE di Gotovina”. La conclusione che segue (“lascio la domanda come una questione aperta”) indica chiaramente che la decisione della Maggioranza risultava incomprensibile (ed indigesta, verrebbe da aggiungere) all’autorevole estensore della dissenting opinion. Quasi l’allusione ad una ‘hidden agenda’ da parte della Maggioranza.
Ma nello sgretolarsi dell’unità di intenti della Corte, questo non era che il primo passo.
Il revirement giurisprudenziale (visto dai più come un’eresia) si consolidava qualche mese dopo con la pronuncia emessa dal Tribunale di primo grado nel caso Jovica Stanišić e Franko Simatović. La sentenza (30 Maggio 2013) ha disposto la assoluzione, assai contestata, dei due alti funzionari del Servizio di Sicurezza del Ministero dell’Interno Serbo (SDB), accusati di aver partecipato ad una Joint Criminal Enterprise che aveva ad oggetto, tra la primavera del 1991 e la fine del 1995, la persecuzione, deportazione e trasferimento forzato di popolazioni non serbe dai territori occupati da Belgrado in Croazia e Bosnia Herzegovina.
Sintomo inequivoco dei dissensi interni alla Corte che il nuovo orientamento giurisprudenziale aveva creato, anche in conseguenza del discredito e delle critiche attirate sull’istituzione giudiziale internazionale è stata la mail inviata a distanza di pochi giorni dal giudice danese della Corte, Frederik Harhoff che apertamente accusava il Presidente della Corte (l’Israeliano naturalizzato Americano Meron) di aver esercitato indebite pressioni affinché l’orientamento tradizionale della corte sul tema della JCE fosse rivisto ed affinché venisse affermato un nuovo principio, secondo cui i comandanti e i compartecipi dovessero essere ritenuti responsabili delle atrocità commesse dai subordinati solo in caso di una loro “diretta intenzione di commettere il crimine”, escludendo quindi che fosse sufficiente la semplice accettazione che i crimini potessero essere commessi in esecuzione di un disegno generale. Sulla lettera e le sue implicazioni, si è già scritto su questa rivista (link qui). I toni della lettera, che evocava esplicitamente un complotto giudeo-americano, di ambiente diplomatico-militare, ed il giudice Harnhoff sono stati duramente criticati per un intervento dai più giudicato in violazione di minimi standards etici.
Il problema esposto (la diatriba giurisprudenziale tra sostenitori e detrattori della JCE) tuttavia permaneva ed è stato nuovamente affrontato, nel Dicembre appena passato, dalla sentenza d’appello nello stesso caso (Jovica Stanišić e Franko Simatović).
La Appeals Chamber, presieduta dal giudice Fausto Pocar (quello della dissenting opinion) ha annullato la decisione di assoluzione ed ha disposto la rinnovazione del giudizio da parte di un nuovo collegio che dovrà conformarsi ai principi di diritto esposti dalla Corte d’Appello.
Nella decisione di secondo grado il collegio ha diffusamente analizzato il verdetto di assoluzione concentrando le proprie osservazioni critiche su taluni aspetti cruciali nella definizione dello standard legale della JCE.
Si è osservato in particolare che la corte di primo grado, pur avendo accertato la commissione dei crimini descritti nel capo di imputazione da parte delle forze di polizia e dei servizi segreti del Ministero dell’Interno Serbo, si era limitata a valutare la responsabilità dei due capi dei Servizi Segreti quale responsabilità diretta (direct responsibility) o di superiore (command/superior responsibility).
Così facendo, la Trial Chamber aveva completamente omesso di valutare se vi fosse stata una Joint Criminal Enterprise, se cioè coloro che a vario titolo avevano partecipato allo sforzo bellico che costituiva il crimine di guerra o nel corso del quale erano stati commessi crimini di guerra, fossero uniti da una comunità di intenti diretta alla commissione dei reati medesimi.
Questa, in fondo era l’accusa avanzata fin dall’inizio dal Prosecutor nei confronti dei due imputati. A costoro certo non poteva essere ascritta la diretta commissione delle violazioni umanitarie (non avendo operato ‘sul campo’ ma solo in ruoli organizzativi di vertice della struttura) né la funzione di comando (le forze operative di polizia organizzate, armate, finanziate e rifornite dai due apparatčik, erano poste al comando di funzionari di polizia).
Ma ben potevano essere considerati un elemento fondamentale del regime di Milošević, cioè di quell’establishment impegnato nel disegno genocidiale di supremazia serba che ha devastato i Balcani nella decade dei Novanta. Ed in effetti, la partecipazione a fianco di Milošević nei meeting in cui la espulsione dei Croati dai territori rivendicati alla Grande Serbia, così come il ruolo organizzativo delle Forze di Polizia e dei Servizi Segreti (le cui unità hanno commesso nefandezze maggiori di quelle perpetrate dall’Esercito Serbo), avrebbe richiesto una approfondita disamina del materiale probatorio anche sotto tale prospettiva d’accusa. Ciò che, a giudizio della Corte d’Appello, è stato totalmente omesso nel giudizio di primo grado.
I due imputati in fondo erano la ‘cinghia di trasmissione’ tra il livello politico in cui gli ordini venivano elaborati (Milošević, Šešelj e, per la repubblica Serbo Bosniaca, Karadžić) e le forze di polizia nonché le bande irregolari a cui veniva demandata l’esecuzione.
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La decisione di secondo grado è una poderosa riaffermazione dei principi che avevano informato l’attività della corte nel decennio in cui essa si era guadagnata il maggiore credito internazionale ed il rispetto delle Università e dei commentatori di settore. Un patrimonio di indubbio valore, un accumulated wisdom che non andava disperso e che avrebbe costituito la base esperienziale e di legittimazione per l’altra grande istituzione giudiziale internazionale, la Corte Penale Internazionale.
Come in tutte le cose umane, il credito che si accumula con grande fatica può essere disperso con sorprendente celerità.
C’è da confidare che il “raddrizzamento della barra” da parte del Collegio presieduto dall’autorevole Presidente sia sufficiente ad indurre un ripensamento del revirement giurisprudenziale.
Il test case per verificare l’impatto della decisione sulla giurisprudenza della Corte potrebbe essere vicino: entro il primo trimestre di quest’anno è preannunciata la decisione nel caso di Vojislav Šešelj. Le accuse si riferiscono alla partecipazione ad una JCE con la leadership Serba per la promozione di politiche discriminatorie e per la realizzazione della pulizia etnica nei Balcani.
Come già detto in questa rubrica, il caso pende dal 2003, l’imputato è rimasto in custodia cautelare per oltre dieci anni e le arringhe sono state pronunciate oltre tre anni fa.
Se si potesse prevedere l’esito di un processo cercando di interpretare le stelle (habent sua sidera lites), vien da dire che i segni premonitori sono nel senso della conferma dell’orientamento tradizionale (ciò che potrebbe significare la condanna dell’imputato).
E’ passata la stagione e la stella del Presidente Meron alla Corte, così come l’influenza che poteva esercitare la sua giurisprudenza, che esigeva il direct intent.
Inoltre, nessuno dei giudici del collegio giudicante, composto da un giudice francese, dalla italiana Prof. Lattanzi e da un giudice del West Africa, ha mai partecipato a decisioni ‘eretiche’, rispetto alle quali i giudici italiani e francesi hanno sempre presentato dissenting opinion, quasi a voler significare un comune sentire ed una identità di vedute sul tema della JCE.