Le critiche rivolte al Ministro da vari giuristi[1] per non aver cooperato con la Corte penale internazionale garantendo la «consegna» di un presunto criminale internazionale (peraltro accompagnate da costruttive osservazioni sulle alternative alla scelta interpretativa dei magistrati che ne hanno disposto la scarcerazione) sono state respinte e talvolta persino stigmatizzate da interventi di influenti voci dell’accademia e della magistratura[2], accomunati dall’idea che la decisione del ministro sia un legittimo atto politico discrezionale ed insindacabile – se non, appunto, sul piano politico.
Per vero, sulla vicenda e sulla sua valutazione si è innestato l’ulteriore tassello della decisione del Procuratore di Roma di attivare il tribunale dei ministri, contestando la violazione di norme penali interne. È tuttavia necessario distinguere i due segmenti e darne una valutazione separata: da un lato sta la decisione di non cooperare con la Corte penale internazionale e la sua valutazione sul piano del diritto internazionale e delle regole che governano i rapporti di quella con lo Stato italiano; dall’altro lato sta la valutazione operata sul piano del diritto penale interno, che ha inevitabilmente alimentato il fuoco polemico che piaga i rapporti fra politica e magistratura. Qui interessa fare qualche rapida puntualizzazione soltanto sul primo segmento, per la sua importanza internazionale che va molto al di là del caso concreto e delle vicende domestiche, perché la decisione italiana assesta un brutto colpo alla fiducia negli organi della giustizia penale internazionale, alla loro legittimazione, e più in generale all’impegno dello Stato nel garantire la legalità internazionale in modo non selettivo.
Dunque, è stato affermato che l’«estradizione» come legittima scelta politica discrezionale del ministro sarebbe una premessa talmente scontata nella “vicenda Almasri” dall’essere stata del tutto trascurata nel dibattito giuridico, bollato come fantasioso e vagamente surreale, oltre che partigiano[3].
In realtà, se si legge quanto è stato argomentato da chi scrive e da altri, sia pure con lo stile cursorio degli scritti d’occasione – ma senza nessuna indulgenza a semplificare – si dovrebbe riconoscere che non v’è stata nessuna trascuranza. È invece da respingere proprio il punto di partenza del rimprovero rivolto: nella realtà del sistema normativo internazionale ed italiano (e non certo nella nostra fantasia di giuristi) il procedimento di «consegna» del sospettato di crimini previsti dallo Statuto di Roma non è affatto un normale procedimento di estradizione: quest’ultimo riguarda rapporti fra Stati, e crimini "ordinari" (cioè previsti dal diritto interno); quello di consegna alla Corte è un diverso, speciale procedimento di cooperazione, che concerne i più gravi crimini che scuotono la coscienza della comunità internazionale in quanto tale)[4]. Non sarà magari un procedimento completamente "verticale", cioè impostato su un rapporto di tecnica sovra-ordinazione del tribunale internazionale allo Stato – come invece era certamente per i cosiddetti Tribunali ad hoc – ma non c’è nessun serio dubbio che lo Stato abbia il dovere di cooperare integralmente («cooperate fully»: art. 86 dello Statuto). La consegna è dunque obbligatoria e non facoltativa (salvo casi eccezionali di cui diremo, che non ricorrono nella vicenda in esame); e, insistiamo nel sostenere, lo è anche per il diritto interno per come può essere legittimamente interpretato (ovviamente può essere violato per decisione "politica"; ma si tratta di una decisione che, appunto, è in violazione di legge, e del diritto internazionale).
Dunque, l’interpretazione (i cui fondamenti qui non ripeteremo) secondo la quale non è a discrezione del Ministro di dar corso o meno alla richiesta della Corte, veicolata da un mandato di arresto internazionale, è volta a prendere sul serio gli obblighi internazionali, il rispetto dei quali è parte dell’essere uno stato di diritto, precisamente in quanto l’Italia consente «alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo».
La premessa fondamentale di tutto il ragionamento svolto dai critici (come chi scrive) della decisione ministeriale sta dunque nel riconoscere che la materia della repressione dei crimini internazionali e degli strumenti di cooperazione ad essa finalizzati si colloca su un piano qualitativamente diverso rispetto alla cooperazione "orizzontale" nella repressione dei crimini comuni. È inappropriato quindi affermare una libera discrezionalità politica nel non cooperare nella lotta contro l’impunità per i primi. Innanzi tutto, è appena il caso di ricordare che il commettere core crimes – che sono spesso realizzati da (o con il supporto di) apparati statuali – non può esser considerato espressione legittima di sovranità – almeno a partire da Norimberga, per tutto il Novecento e certamente con il più ampio consenso dopo gli anni Novanta. Coerentemente, quei crimini non sono atti per i quali, davanti ai tribunali internazionali, sia opponibile l’immunità funzionale.
Su queste basi, risulta ben comprensibile anche la limitazione della discrezionalità nel cooperare alla consegna: ovviamente la decisione politica può essere in senso contrario, come è accaduto in questo caso, ma un competente giudizio su questa decisione non può non essere sorretto dalla consapevolezza che non si tratta di decisione soltanto soggettivamente «rivoltante» (come pure è stato detto: è davvero pericoloso qui affidarsi all’aleatorietà dei sentimenti)[5], ma oggettivamente contraria al diritto internazionale[6].
Come non è assoluta la sovranità, in questo ambito, non è assoluto il potere della Realpolitik, e neppure è assoluta – cioè rimessa alla pura discrezionalità politica– la facoltà di opporre ragioni di sicurezza nazionale. Queste possono essere opposte soltanto nei limiti previsti dallo Statuto di Roma, che qui sono del tutto inconferenti (cfr. essenzialmente l’art. 72 dello Statuto).
Chi ha contraddetto questi argomenti ne ha sorriso come di fantasie politicamente preconcette, come abbiamo detto. E pazienza: esercitando l’autoironia di Totò, direi che quel ghigno «m’è parso una ghiglia».
[1] M. Caianiello e C. Meloni, in https://www.sistemapenale.it/it/opinioni/caianiello-meloni-una-discutibile-interpretazione-della-legge-di-cooperazione-dellitalia-con-la-cpi-commento-allordinanza-di-scarcerazione-nel-caso-almasri-davanti-alla-corte-dappello-di-roma; A. di Martino e Valeria Bolici, in questa Rivista: https://www.questionegiustizia.it/articolo/la-pagliuzza-e-la-trave-il-caso-almasri; G. Vanacore, in https://www.sistemapenale.it/it/scheda/vanacore-la-scarcerazione-del-generale-libico-elmasry-nota-critica-alla-interpretazione-resa-dalla-corte-di-appello-di-roma-sullart-11-della-legge-di-cooperazione-tra-litalia-e-la-corte-penale-internazionale.
[2] Mi riferisco in particolare ad O. Mazza, in Il Dubbio del 30 gennaio 2025; e P. Borgna, in Huffingtonpost del 31 gennaio 2025 (https://www.huffingtonpost.it/politica/2025/01/31/news/paolo_borgna_essere_indipendente_vuole_dire_essere_responsabili_i_magistrati_ci_riflettano-18316801/).
[3] Di «fantasioso guazzabuglio in salsa giuridica», di «valutazioni politiche» e «dibattito vagamente surreale» parla ad es. O. Mazza, cit.
[4] Basti aprire un qualunque testo in materia; ricordo qui soltanto un classico: Robert Cryer at al., An Introduction to International Criminal Law and Procedure, Cambridge University Press, 20194, 483.
[5] Il termine fra virgolette è usato da P. Borgna, cit.
[6] Cfr. ad esempio il giudizio di V. Zagrebelsky, in https://www.lastampa.it/editoriali/lettere-e-idee/2025/01/31/news/cosi_roma_ha_violato_il_diritto_internazionale-14973472/.