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I casi Almasri e Delmastro: sta nascendo una nuova dottrina sulla discrezionalità del pubblico ministero?

di Nello Rossi
direttore di Questione Giustizia

Per le forze che compongono la destra di governo, la stella polare nel valutare i provvedimenti ed i comportamenti di giudici e pubblici ministeri resta quella dell’interesse contingente e della pura convenienza politica. Ma l’analisi delle modalità con cui sono stati polemicamente affrontati i casi Almasri e Delmastro segnala che, sotto la superficie dei tatticismi e degli opportunismi, stanno emergendo i segni di una nuova, sorprendente ed a suo modo “coerente” dottrina. Dopo anni di veementi polemiche nei confronti dello strapotere del pubblico ministero, non si esita a teorizzare una sua accresciuta discrezionalità, grazie alla quale risolvere “a monte” questioni che rischiano di divenire lunghe e spinose se immesse e “trattate” nel circuito giudiziario. Un vero e proprio frutto avvelenato e comunque un’opzione pericolosa in quanto tale dilatazione di discrezionalità, destinata a realizzarsi sminuendo le prerogative del giudice, porrebbe con forza il tema della responsabilità politica dell’ufficio del pubblico ministero e della sua collocazione nella sfera dell’esecutivo. In definitiva, un controllo del giudiziario situato direttamente alla sorgente dell’azione penale inciderebbe anche sul ruolo e sulle prerogative dei giudici preventivamente estromessi dalle questioni istituzionalmente più rilevanti e sensibili. 

O voi ch’avete gli intelletti sani,
mirate la dottrina che s’asconde
sotto ’l velame de li versi strani.

Dante, Inferno, IX, vv. 61-63

1. Una nuova dottrina sul pubblico ministero? 

Bisogna avere antenne sensibili per cogliere, nei movimenti erratici della destra sulle questioni di giustizia, il segno di nuove tendenze o l’emergere di inedite infatuazioni. 

Intendiamoci: per le tutte le forze che compongono la destra di governo, la stella polare nel valutare i provvedimenti ed i comportamenti di giudici e pubblici ministeri resta quella dell’interesse contingente e della pura convenienza politica. 

Di più: è la dialettica, elementare e brutale, dell’“amico-nemico” ad ispirare gli aspri e perentori commenti, le scomposte reazioni mediatiche e le ritorsive risposte istituzionali a condotte e decisioni sgradite degli attori del giudiziario.

In quest’ottica il diritto è cavillo, intralcio, ostacolo da superare oppure artificio destinato a giustificare ed ammantare le scelte della politica. In ogni caso un’intendenza destinata a seguire le avanzate del potere, assecondando la più ampia libertà di azione e la primazia del comando politico. 

Eppure «sotto ‘l velame de li versi strani», sotto la superficie delle giravolte strumentali, dei tatticismi, degli opportunismi e delle incoerenze si cominciano ad intravvedere i segni di una nuova sorprendente ed a suo modo “coerente” dottrina. 

Dopo anni di veementi polemiche nei confronti dello strapotere del pubblico ministero, la destra al governo sembra orientata a puntare le sue carte su di una sua accresciuta discrezionalità, grazie alla quale risolvere “a monte” questioni che rischiano di divenire lunghe e spinose se immesse e “trattate” nel circuito giudiziario. 

Per ricercare le manifestazioni e individuare le ragioni di questa inedita “tendenza” occorre esaminare con attenzione i “casi” nei quali essa si è espressa. 

 

2. La vicenda di Almasri e la denuncia di Li Gotti

Il più recente segnale del “favore” verso una dilatazione della discrezionalità del pubblico ministero si è avuto nella vicenda innescata dalla denuncia presentata dall’ex onorevole Li Gotti nei confronti della Presidente del Consiglio, dei Ministri della Giustizia e dell’Interno e del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio per i reati ministeriali di favoreggiamento e peculato che sarebbero stati commessi nella gestione del caso Almasri[1]

Il carattere di questo scritto ci induce a non indugiare sulla reazione mediatica dell’on. Meloni, che in una apparizione sui social ha dapprima ingannevolmente presentato come “avviso di garanzia” un atto di iscrizione nel registro degli indagati che ha natura e funzione diversissime e si è poi descritta come vittima di oscure manovre, pronta a rintuzzarle e capace di farlo perché non ricattabile e non disposta a farsi intimidire.

Interessa di più, almeno in questa sede, la qualificazione dell’iscrizione nel registro degli indagati dei soggetti denunciati come “atto voluto“ e non come “atto dovuto” nel contesto della procedura per i reati ministeriali[2]

Tesi – accusatoria nei confronti del Procuratore di Roma - prontamente fatta propria anche dall’ Unione delle Camere Penali che da tempo sembra aver assunto il patrocinio del governo e di quasi tutte le sue iniziative in materia di giustizia. 

A sostegno dell’affermazione dell’“iscrizione” come atto voluto - per ostilità, pregiudizio e ritorsione verso il governo e la premier – sono stati addotti svariati argomenti, tutti diretti a sostenere che, a fronte della denuncia di Li Gotti, il procuratore della Repubblica di Roma non avrebbe dovuto né iscrivere alcun nominativo nel registro degli indagati né trasmettere alcunché al Tribunale dei ministri ma “semplicemente” cestinare l’atto. 

Secondo alcuni, la nota circolare dell’ex procuratore della Repubblica di Roma, Giuseppe Pignatone, sulla non automaticità delle iscrizioni nel registro degli indagati avrebbe dovuto imporre un più attento vaglio della denuncia a seguito del quale non si sarebbe dovuto procedere alle iscrizioni. 

Altri ha invocato la riforma Cartabia e i più stringenti criteri previsti nell’attuale testo dell’art. 335 c.p.p., per negare necessità ed opportunità delle iscrizioni. 

Secondo la tesi più radicale, infine, la denuncia di Li Gotti, per la sua vaghezza e genericità, non era in alcun modo una notitia criminis

In realtà il valore di questi ed altri argomenti va saggiato alla luce della procedura “speciale” introdotta per i reati ministeriali con la legge costituzionale 6 gennaio 1989 n. 1 e con le norme attuative previste dalla legge 5 giugno 1989, n. 219, che hanno ridisegnato radicalmente tale procedimento per quanto riguarda le fasi delle indagini preliminari e della eventuale autorizzazione a procedere. 

In altri termini si può dare un giudizio incondizionatamente positivo della circolare Pignatone[3] ed avere ben presente la portata del nuovo testo dell’art. 335 c.p.p.[4] ma non si possono trasferire meccanicamente gli approdi della circolare e della riforma Cartabia nella materia dei reati ministeriali, disciplinata da una legge che costituisce un unicum tanto sotto il profilo sostanziale (l’individuazione del reati ministeriali) tanto negli aspetti procedurali (il Tribunale dei ministri in veste di dominus della fase delle indagini preliminari e la previsione di una fase parlamentare autorizzatoria). 

Come è noto l’art. 6 della legge costituzionale n. 1 del 1989 stabilisce, nel suo primo comma, che «I rapporti, i referti e le denunce concernenti i reati indicati nell’art. 96 della Costituzione sono presentati o inviati al procuratore della Repubblica presso il Tribunale del capoluogo del distretto di corte d’appello competente per territorio» e prevede poi, nel secondo comma, che «Il procuratore della Repubblica, omessa ogni indagine, entro il termine di quindici giorni, trasmette con le sue richieste gli atti relativi al collegio» per i reati ministeriali (comunemente chiamato Tribunale dei ministri), previsto dall’art. 7 della stessa legge. 

In base a questa peculiare normativa il ruolo del procuratore non può, ad avviso di chi scrive, essere qualificato come «meramente esecutivo[5]» ma è comunque radicalmente diverso da quello che egli è chiamato a svolgere nei procedimenti per i reati comuni. 

Se infatti il procuratore deve trasmettere al Collegio, insieme agli atti relativi alla notizia di reato, anche le sue richieste - magari provvisorie e formulate allo stato degli atti – non può non avere il «potere-dovere di formulare un preventivo inquadramento giuridico della fattispecie[6]» che serva a valutare la natura ministeriale del reato[7]

Al tempo stesso, però, l’assoluta impossibilità di compiere qualsiasi tipo di indagine sancita dalla formula radicale del secondo comma dell’art. 6 della legge n, 1 del 1989 («omessa ogni indagine») impedisce al procuratore ogni verifica preliminare sui fatti oggetto dei rapporti, referti o denunce ricevuti e, nella fase iniziale della procedura, lo vincola strettamente alla prospettazione in tali atti contenuta, che altri e non lui potrà e dovrà verificare. 

Ne consegue che tutte le volte che tale prospettazione non sia palesemente inverosimile, fantasiosa o giuridicamente inconcepibile, il procuratore commetterebbe un evidente abuso cestinando rapporti, referti o denunce a lui indirizzati ed omettendone la trasmissione al Tribunale dei Ministri. 

Riguardata alla luce di queste considerazioni generali, la vicenda della scarcerazione, della successiva espulsione e del rapidissimo rimpatrio del generale Almasri appare “notoria” in alcuni dei suoi aspetti di fatto ma del tutto confusa e oscura in altri dei suoi profili fattuali e giuridici. 

Non è infatti dato di sapere se l’inerzia del Ministro della Giustizia nel trasmettere gli atti alla Procura generale presso la Corte di appello di Roma per consentire la presentazione delle richieste riguardanti la posizione del generale Almasri, sia stata davvero dovuta alla mole ed alla complessità della documentazione da consultare e valutare (spiegazione incredibile e risibile, ma sin qui l’unica offerta) o se sia stata il frutto di una scelta politica che ha anteposto la ragion di stato, id est un preminente interesse nazionale, al rispetto dello Statuto di Roma e se tale scelta sia stata condivisa e con chi. Ed analoghi interrogativi riguardano tempi e modi della opzione per il rimpatrio con un volo dei Servizi di sicurezza. 

Si trattava, all’evidenza, di dati di fatto e di diritto che reclamavano accertamenti in base ai quali scegliere tra l’archiviazione della denuncia[8] e l’apertura della fase parlamentare del procedimento che segna la riemersione della politicità del procedimento[9], nella quale la Camera competente è chiamata a dire se i Ministri abbiano agito al fine di tutelare un interesse dello stato costituzionalmente rilevante ovvero di perseguire un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo. 

Ragionare diversamente, pretendendo che il procuratore della Repubblica – privo per legge di ogni possibilità di autonoma verifica dei fatti denunciati e trovandosi di fronte ad una denuncia che silenzi e reticenze del governo concorrevano a rendere non inverosimile e fantasiosa - intervenisse autoritativamente “a monte” della procedura prevista da una legge costituzionale, cestinando l’atto, significa attribuire all’ufficio del pubblico ministero una sorta di impropria discrezionalità politica, totalmente diversa dalla discrezionalità fisiologica e dalla discrezionalità investigativa esercitate nei procedimenti ordinari[10]

Nel caso Almasri, dunque, la maggioranza di governo ed i media ad essa legati si sono dichiarati a favore di un ampliamento della discrezionalità del pubblico ministero in forme e modi inediti e irrintracciabili nell’esperienza giuridica del Paese. 

 

3. Il caso Delmastro

La più eloquente espressione della nuova “dottrina”, tutta politica, di cui parliamo si è avuta nella vicenda che ha visto come protagonista il sottosegretario del Ministero della giustizia, Andrea Delmastro delle Vedove, indagato per il reato di rivelazione di segreto di ufficio per aver riferito a un suo collega di partito, l’on. Giovanni Donzelli, il contenuto di un rapporto di polizia penitenziaria sui dialoghi in carcere tra l’anarchico Alfredo Cospito e alcuni boss mafiosi detenuti con lui in regime di 41-bis.

Come si ricorderà la Procura di Roma aveva chiesto l’archiviazione del procedimento ravvisando «l'esistenza oggettiva della violazione del segreto amministrativo», ma sostenendo «l'assenza dell'elemento soggettivo del reato, determinata da errore su legge extra-penale».

Investito della richiesta di archiviazione il giudice per le indagini preliminari, ritenendo che sussistessero sia l’elemento oggettivo che quello soggettivo del reato, dispose l’imputazione coatta nei confronti del sottosegretario. 

Fonti anonime del Ministero della giustizia emanarono immediatamente un commento fortemente critico sulla vicenda, sostenendo che «l’imputazione coatta nei confronti del sottosegretario Andrea Delmastro delle Vedove, come nei confronti di qualsiasi altro indagato, dimostra l’irrazionalità del nostro sistema» in quanto il pubblico ministero «è il monopolista dell’azione penale e quindi razionalmente non può essere smentito da un giudice sulla base di elementi cui l’accusatore stesso non crede».

Al suo rientro dall’estero, dove si trovava per impegni istituzionali, il Ministro della giustizia Carlo Nordio dichiarò: «Mi riconosco nella nota che abbiamo dato. Ribadisco che, da un punto di vista squisitamente tecnico, il codice Vassalli non ha portato alle estreme conseguenze il principio del processo accusatorio che vuole il pubblico ministero monopolista dell’azione penale. E ha lasciato al giudice la possibilità di quella che si chiama imputazione coatta. Questo è in contrasto con i principi del processo accusatorio e secondo noi va riformato. Naturalmente finché la legge c’è va applicata. Quindi non c’è nessuna stranezza nel fatto che vi sia un’imputazione coatta, com’è stata fatta. Non è un’anomalia. L’anomalia è nell’ordinamento. Ma è una cosa tecnica».

A sua volta il Presidente del Consiglio, on. Giorgia Meloni, intervenendo sull'imputazione coatta per Delmastro, sostenne che essa «è sicuramente una questione politica. Delmastro è sottosegretario alla Giustizia, quindi riguarda un esponente del governo nell'esercizio del suo mandato» ed aggiungeva che l’imputazione coatta è «giuridicamente lecita ma è una scelta, quindi io la valuto come scelta» che «non avviene quasi mai». E «per come la vedo io in un processo di parti, la terzietà del giudice significa che il giudice non dovrebbe sostituirsi al pm imponendogli di formulare l'imputazione quando questi non intende esercitare l'azione penale».

Non a caso le sortite del Ministro e della Presidente del Consiglio furono subito definite dal professor Franco Coppi come una idea antisistema. 

Per il giurista italiano - che si ostini a muoversi nel quadro dei principi costituzionali propri del processo penale - è del tutto naturale che il pubblico ministero sia controllato dal giudice sia quando “agisce” e “chiede” di procedere sia quando rimane inerte e chiede di archiviare[11].

Per un verso, infatti, grazie al controllo sull’attività del pubblico ministero, il sistema garantisce ai cittadini che non sia l’organo di indagine e di accusa ad adottare direttamente ed autonomamente nella fase delle investigazioni preliminari provvedimenti che comprimono diritti costituzionalmente garantiti come la libertà personale, la proprietà privata, la libertà e segretezza delle comunicazioni. Deve essere un giudice ad autorizzare tali atti che sono a loro volta impugnabili e controllabili nel circuito giurisdizionale fino al giudizio di legittimità della Corte di cassazione.

Per altro verso il controllo del giudice sull’inazione del pubblico ministero si pone come un naturale corollario del principio di obbligatorietà dell’azione penale e ambisce ad essere l’antidoto all’esercizio capriccioso e discriminatorio della discrezionalità «investigativa» del pubblico ministero nello svolgimento delle indagini e della discrezionalità «fisiologica[12]» che si esprime nella qualificazione giuridica dei fatti, offrendo alle persone offese una forma di tutela contro l’ingiustificata inerzia dell’organo di accusa.

Per manifestare stupore, dissenso, disapprovazione verso l’esercizio, del tutto fisiologico, dei poteri del giudice sull’inazione del pubblico ministero, il Ministro della giustizia, il Presidente del Consiglio ed i rispettivi “uffici” hanno dovuto assumere come riferimento altri sistemi giuridici – segnatamente quello statunitense – connotati dal principio di piena discrezionalità dell’azione penale e dal monopolio incontrollato del pubblico ministero per il suo esercizio (nonché dalla responsabilità politica per l’operato dell’accusa), in questo modo esprimendo una opzione politica favorevole a tali sistemi e auspicando una «evoluzione» in tale direzione del sistema italiano[13].

Le considerazioni critiche sulla pretesa “irrazionalità” del nostro sistema processuale e i dissensi riservati dal Ministro Nordio e dalla Presidente Meloni al provvedimento di imputazione coatta adottato dal GIP di Roma stridono con il principio di obbligatorietà dell’azione penale e con l’intero impianto del nostro codice di rito. 

Le critiche trovano invece il loro terreno di coltura in un altro sistema processuale, connotato dal binomio “monopolio assoluto del pubblico ministero e piena discrezionalità dell’azione penale” avente come unico e indispensabile contrappeso la responsabilità politica diretta (per via elettorale) o mediata (per sottoposizione alla direzione del governo) dell’organo dell’accusa.

In altri termini è come se, nell’intervenire criticamente sul caso Delmastro, i due esponenti del governo si fossero già proiettati con le loro argomentazioni in un contesto totalmente diverso dall’attuale, da loro ritenuto preferibile a quello vigente che ci si propone di modificare radicalmente[14].

 

4. Una conclusione del tutto provvisoria

Forse è troppo presto per dire se le posizioni assunte dai massimi responsabili di governo nei casi Almasri e Delmastro siano state dettate solo da esigenze politiche contingenti o se siano davvero, come sin qui ipotizzato, i segni premonitori di un nuovo orientamento mirante ad ampliare la discrezionalità del pubblico ministero ed a ridurre il ruolo di controllo e lo spazio di intervento del giudice. 

E’ certo però che una siffatta tendenza sarebbe un frutto avvelenato e un’opzione pericolosa che porterebbe acqua al mulino dei sostenitori del controllo politico sul pubblico ministero, suscitando più di un interrogativo sulla sorte dell’ufficio requirente. 

E’ davvero desiderabile un pubblico ministero come quello evocato nelle polemiche sui casi Delmastro e Almasri, monopolista dell’azione penale, sottratto al controllo del giudice nel caso di inerzia e dotato del potere di cestinare liberamente le notizie di reato? 

E quali sarebbero i limiti, i contrappesi ed i meccanismi di controllo e responsabilità di un organo così potente e dei funzionari chiamati a comporlo? 

Il bilanciamento del “monopolio dell’azione” e della piena discrezionalità dell’ufficio del pubblico ministero nel decidere di agire o di restare inerte non potrebbe che essere ricercato 

nella responsabilità politica “diretta” dell’organo di accusa - realizzata tramite l’elezione del suo vertice - o nella responsabilità mediata dell’organo politico cui l’ufficio del prosecutor è sottoposto.

Le nuove teorizzazioni della destra sui poteri del pubblico ministero dovranno misurarsi seriamente con questa prospettiva, del tutto estranea alla tradizione giuridica del nostro Paese. 


 
[1] Alla vicenda Questione giustizia ha dedicato grande attenzione. Vedi gli scritti di V. Bolici, A. Di Martino, La pagliuzza e la trave: il caso «Almasri» in Questione giustizia on line, 25.1.2025 e di A. Nappi, Fare chiarezza sul caso Almasri, in Questione giustizia on line, 3.2.2025. V. anche M. Caianiello, C. Meloni, Caso Almasri: una discutibile interpretazione della legge di cooperazione dell’Italia con la CPI ha portato alla scarcerazione del primo ricercato arrestato sul suolo europeo nell’ambito delle indagini in Libia, in Sistema penale, 2025.

[2] Può darsi che, come è stato scritto da C. Intrieri, in Linkiesta, 3.2.2025, Un paese poco normale, si tratti di «questione che potrebbe appassionare qualche azzeccagarbugli», come peraltro dimostrato dai precedenti di analoghe procedure che hanno seguito il loro iter fisiologico senza tradursi in questioni politiche di primario rilievo. Ma resta il fatto che, su tale questione, la presidente del Consiglio ha innescato una polemica furibonda nei confronti della magistratura e segnatamente del procuratore della Repubblica di Roma; così che misurare la validità sotto il profilo giuridico dell’iniziativa non è affatto irrilevante ai fini del giudizio sulla reazione politica del premier e del governo.

[3] E’ questo il giudizio di chi scrive, che della fase di elaborazione e discussione della circolare datata 17 ottobre 2017 fu partecipe come procuratore aggiunto e la posizione di questa rivista espressa nell’articolo di Donatella Stasio, «No ad iscrizioni frettolose». Pignatone sfata la leggenda dell’“atto dovuto”, in Questione giustizia on line 17.10.2017.

[4] Il testo vigente dell’art. 335 c.p.p (modificato dall’art. 15, co. 1, lett.a) n. 1 del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, cd. Riforma Cartabia) ha stabilito che la notizia di reato suscettibile di iscrizione è quella «contenente la rappresentazione di un fatto, determinato e non inverosimile, riconducibile in ipotesi a una fattispecie incriminatrice».

[5] Su questa tematica cfr. M. Pati, Profili sostanziali e procedurali della disciplina dei reati ministeriali, in Nomos, Le attualità del diritto, on line, p. 17. A questo scritto si rinvia anche per un esame della disciplina precedente a quella della legge costituzionale n. 1 del 1989.

[6] A. Toschi, Commento all’art. 6 della l. cost. 16 gennaio 1989, n. 1, in Leg. Pen. 1989, p. 493.

[7] A. Ciancio, Commento all’art. 96 della Costituzione italiana, in. R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, Torino, UTET, p. 1873.

[8] Il provvedimento di archiviazione è adottato nelle ipotesi previste dall’art. 2 della legge n. 219 del 1989 (che integra l’art. 8, comma 3, della legge costituzionale n. 1 del 1989).

[9] M. Olivetti, Il c.d. Tribunale dei ministri all’esame del CSM: osservazioni a margine ad alcune risposte a quesiti, in Giur. Cost., 1993, p. 1517.

[10] Sul punto mi sia consentito di rinviare al mio scritto, Per una cultura della discrezionalità del pubblico ministero, in Questione giustizia on line 3.6.2021.

[11] Su questi profili del caso Delmastro, cfr. C. De Robbio, Imputazione cotta e sistema accusatorio, in Giustizia insieme on line, 13 luglio 2023.

[12] Sui temi della discrezionalità fisiologica, della discrezionalità investigativa e della discrezionalità organizzativa del pubblico ministero mi sia consentito rinviare al mio scritto, Per una cultura della discrezionalità del pubblico ministero, in Questione giustizia on line, 3 giugno 2021 e nel n. 2 del 2021 della Rivista Trimestrale intitolato Pubblico ministero e stato di diritto in Europa, par. 6.1., 6.2., 6.3.

[13] Nella tradizione di common law l’affidamento totale ed esclusivo dell’esercizio dell’azione penale alla discrezionalità dell’ufficio del prosecutor è la risultante tanto di fattori storici quanto della fisionomia del modello processuale adversary
A sorreggere la prosecutorial discretion e a definirne l’amplissima portata concorrono sul piano storico «l’origine privata dell’accusa, di derivazione inglese» e «il potere del rappresentante del sovrano di porre fine con un atto denominato nolle prosequi a qualsiasi procedimento avviato da un privato, ove gli interessi della corona lo richiedessero» (V. Fanchiotti, La giustizia penale statunitense, Procedure v. Antiprocedure, Torino, Giappichelli, 2022 p. 63). 
Sul piano strutturale e funzionale si ritiene poi che la versione classica del processo accusatorio - imperniato sul confronto e sullo scontro delle tesi contrapposte di accusa e difesa come via migliore per la ricerca della verità e sulla pressoché totale passività del giudice – renda indispensabile un contraddittorio convinto ed effettivo, con un prosecutor spontaneamente e realmente desideroso di partecipare con la necessaria aggressività alla dialettica processuale (V. Fanchiotti, op.cit. p.64). 
Da questa impostazione di principio discende che la scelta di non esercitare l’azione penale – in sostanza la cestinazione diretta delle notizie di reato – è, nell’ordinamento statunitense, esente da un incisivo controllo giurisdizionale (R. Gambini Musso, Il processo penale statunitense. Soggetti e Atti, Torino, Giappichelli, II Ed. 2001, p. 35).
In sostanza il prosecutor è arbitro pressoché assoluto dello screening, la decisione iniziale sull’opportunità di iniziare il procedimento: può scegliere se farlo per tutto o solo alcuni dei reati attribuiti all’imputato, e in caso negativo, ricorrere ad un dismissal secco (archiviazione) della notizia di reato o a meccanismi alternativi «all’esercizio dell’azione penale» (V. Fanchiotti, op. cit. p. 65).
Nella common law classica, poi, era sottratto al sindacato del giudice anche il potere di archiviare la notizia di reato con un atto di recesso dall’imputazione - nolle prosequi - dopo la formulazione di una accusa in un indictment o in una information.
Successivamente, nell’ordinamento federale «la decisione di porre termine al procedimento tramite il dismissal» è stata assoggettata al leave of Court mentre nella maggior parte delle giurisdizioni il nolle prosequi è stato sottoposto ad un onere di motivazione o all’assenso del giudice anche se sono rari i casi nei quali i giudici contrastano le decisioni dell’ufficio del prosecutor (R. Gambini Musso, op. cit. p. 36).
In sostanza nel processo penale nordamericano la discrezionalità del prosecutor è nella fase iniziale dei procedimenti pressoché illimitata e la passività del giudice nei suoi confronti trova fondamento e sostegno anche nel principio costituzionale della separazione dei poteri in virtù del quale «i giudici non devono interloquire sulle […] scelte (del prosecutor n.d.r) facendo egli capo al potere esecutivo (nell’ordinamento federale) o essendo responsabile solo di fronte al popolo che lo ha eletto (in quelli statali)» (V. Fanchiotti, op.cit. p. 64). 
In estrema sintesi, le coordinate essenziali del sistema nordamericano sono dunque rappresentate dal monopolio incontrollato del prosecutor sull’esercizio dell’azione penale, dal suo potere di cestinazione delle notizie di reato, da rari e blandi controlli giudiziali sul dismissal dell’accusa e sul nolle prosequi dell’azione già formalmente iniziata.
La conclusione che gli studiosi del sistema traggono al termine di questa ricostruzione è che la più incisiva arma di controllo del privato cittadino sull’operato dell’accusa è lo strumento elettorale: l’organo dell’accusa «che non deve rendere conto a nessun altro organo dello Stato intorno al modo in cui esercita i suoi poteri [...] è responsabile di fronte al popolo: se ne tradisce la fiducia può essere sconfitto alle elezioni» (R. Gambini Musso, op. cit. p. 38).
L’unico bilanciamento del “monopolio dell’azione” e della piena discrezionalità dell’ufficio del prosecutor nel decidere di agire o di restare inerte sta dunque nella responsabilità politica “diretta” dell’organo di accusa - realizzata tramite l’elezione del suo vertice - o nella responsabilità mediata dell’organo politico cui l’ufficio del prosecutor è sottoposto.

[14] Il nuovo ambiente istituzionale “auspicato” dall’esecutivo non potrebbe però essere realizzato – come voluto e sostenuto da molti, primi tra tutti gli esponenti dell’avvocatura - grazie ad una separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri che preservi il principio della obbligatorietà dell’azione penale nonché l’attuale fisionomia istituzionale e l’indipendenza dal potere politico del pubblico ministero. 
Un monopolio pieno ed incontrollato dell’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero (quale quello prospettato dal Ministro della Giustizia), sganciato dal controllo dei giudici e suscettibile di tradursi in discriminazioni, insabbiamenti, arbitri, del tutto impossibili da impedire e contrastare, non può essere esercitato da un corpo ristretto di magistrati professionali operanti al di fuori di ogni circuito di responsabilità “politica”.
Di fronte ad una tale prospettiva anche i più appassionati sostenitori dell’indipendenza del pubblico ministero - tra cui certamente si annovera chi scrive – sarebbero costretti ad invocare forme di controllo e di responsabilità in grado di scongiurare l’autoreferenzialità e l’irresponsabilità di un tale ufficio. 
Se, dunque, come sembra probabile, le dichiarazioni del Ministro e della Presidente del Consiglio sono voci dal sen fuggite che esprimono desideri e progetti per il futuro della giurisdizione penale, cittadini ed operatori della giustizia dovranno essere particolarmente attenti nel prevedere e valutare i punti di approdo finali degli intendimenti riformatori del governo e della sua maggioranza.
La posta in gioco è troppo alta per rimanere irretiti nel gioco delle ambiguità e degli inganni che da troppo tempo caratterizzano il confronto e le iniziative legislative sul versante della giustizia penale. 
Da un lato i magistrati del pubblico ministero dovrebbero essere i primi a rifiutare il dono avvelenato della sottrazione della loro “inazione” al controllo del giudice, che rappresenterebbe solo il preludio dell’assoggettamento a controlli di natura politica.
Dall’altro lato gli avvocati, da anni impegnati nella campagna per la separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri, dovrebbero interrogarsi seriamente sui pericoli di stravolgimento delle loro proposte che mirano a differenziare le carriere in un quadro di salvaguardia del principio di obbligatorietà dell’azione penale e di indipendenza del pubblico ministero dal potere politico.

06/02/2025
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09/03/2024
Il caso Delmastro e il ruolo del pubblico ministero: le lezioni “americane” del governo

Le reazioni politiche del Ministro della giustizia e del Presidente del Consiglio all’imputazione coatta decisa dal giudice nel caso Delmastro non esprimono solo il disappunto per una pronuncia sgradita ma contengono affermazioni di principio che sembrano preannunciare intenti di fuoriuscita dal nostro modello processuale. Teorizzare il ripristino di un monopolio assoluto ed incontrollato del pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale; auspicare la rinascita di un suo insindacabile potere di cestinazione delle notizie di reato ; puntare a sottrarre l’organo di accusa al controllo giudiziale sulla sua eventuale inerzia: tutte queste scelte, che vanno in direzione dell’attribuzione di un amplissimo potere discrezionale al pubblico ministero, porrebbero – immediatamente o dopo un breve periodo di sperimentazione – il problema della responsabilità “politica” di tale ufficio. Le sortite ministeriali gettano dunque un fascio di luce sulla cultura e sulle opzioni di fondo del governo di centro destra in tema di assetto e di prerogative dell’ufficio del pubblico ministero e rendono chiaro che - con buona pace delle anime belle che “per ora” sostengono il contrario – non si mira affatto ad una separazione delle carriere di giudici e pm con il mantenimento del principio di obbligatorietà dell’azione penale e di garanzie di indipendenza dell’ufficio del pubblico ministero. Cerchiamo di spiegare come e perché l’innesto sul tronco del nostro ordinamento processuale di una logica mutuata da altri contesti istituzionali- segnatamente quello statunitense - avrebbe come ineluttabile effetto la radicale trasformazione della fisionomia del pubblico ministero e reclamerebbe o la sua sottoposizione all’esecutivo o una scelta per l’elettività. 

25/07/2023
Il nuovo volto delle indagini preliminari ed il rischio della fuga dalla giurisdizione

La riforma Cartabia, per quanto ampia negli orizzonti normativi, ha costellato la fase delle indagini preliminari di una congerie di adempimenti e controlli che imbrigliano il lavoro di Pubblico Ministero e Giudice. Sovrapposizione di competenze e confusione interpretativa penalizzano la certezza del diritto e disorientano strategie investigative e atti di impulso processuale. Il rischio è quello del riflusso: un ripiego verso la non azione, mancanza di intervento e vuoto di tutela penale. 

14/04/2023
La riforma c.d. “Cartabia" in tema di procedimento penale. Una pericolosa eterogenesi dei fini

Il legislatore, con il decreto legislativo n. 150 del 2022, attuativo della l. n. 134 del 2021, c.d. "Cartabia", è intervenuto sul tema del procedimento penale, stravolgendo il campo dei rapporti tra giudice e pubblico ministero. In relazione ad alcuni degli istituti introdotti, su tutti l’iscrizione coatta prevista dal nuovo art. 335 ter c.p. e il nuovo ambito applicativo dell’art. 408 c.p.p., pare che il legislatore abbia fatto confusione facendo del giudice un pubblico ministero e del pubblico ministero un giudice. Il tutto è avvenuto in nome di principi di efficienza aziendalistica e in sacrificio del principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale. La riforma c.d. "Cartabia" in tema di procedimento penale, dunque, rischia di rappresentare una pericolosa eterogenesi dei fini dove gli scopi diventano mezzi e i mezzi diventano scopi. 

19/12/2022
La disciplina dell’archiviazione e dell’udienza preliminare nella riforma del processo penale: un nuovo ruolo dei protagonisti della giurisdizione penale

L’innovativa regola di giudizio per la presentazione della richiesta di archiviazione e la conseguente nuova norma che prescrive al giudice dell’udienza preliminare di pronunziare sentenza di non luogo a procedere «anche quando gli elementi acquisiti non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna» sono destinate ad incidere profondamente sui compiti e sul ruolo del pubblico ministero, del giudice dell’udienza preliminare e del difensore. 
L’articolo esamina tali trasformazioni e si sofferma sul tema della capacità dei protagonisti tecnici della giurisdizione, pubblici e privati, di metabolizzare l’importante mutamento di paradigma processuale del quale la riforma in esame si è fatta portatrice e che ha di fatto anticipato il baricentro dell’accertamento giudiziario della responsabilità dell’imputato, dalla fase del dibattimento vero e proprio, a quella, precedente, del controllo sulle risultanze delle indagini.

06/10/2022