Dal significato delle norme costituzionali agli insegnamenti delle concrete vicende giudiziarie, il più recente libro di Edmondo Bruti Liberati (Pubblico ministero. Un protagonista controverso della giustizia, Raffaello Cortina Editore, 2024) a partire dalle questioni più discusse sulla figura e il ruolo del pubblico ministero offre una lettura orizzontale della giustizia penale, per come è e per come è percepita e raccontata.
E’ un esempio di come si possa comunicare la complessità del mondo della giustizia – talora apparente, talora reale ma affrontabile con gli strumenti comunicativi adeguati - senza necessità di avvolgersi nel linguaggio dei chierici del diritto e senza, diametralmente, scadere nei luoghi comuni o in forzate semplificazioni che ne sono il terreno di coltura.
Anzi, uno dei pregi del lavoro di Edmondo Bruti Liberati è proprio quello di rivelare, spesso impietosamente, la “fiera del luogo comune” che sembra trovare un terreno privilegiato quando si parla di giustizia penale e di ruolo del pubblico ministero: una figura a proposito della quale, come l’Autore scrive, «abbondano iperboli e luoghi comuni».
Una considerazione centrale è l’originalità del disegno della figura e del ruolo del pubblico ministero nella Costituzione e nell’ordinamento giudiziario italiano: nel contesto – non scontato, che la lettura rivela - di una differenziazione di modelli nelle varie esperienze nazionali (e ora, con gli EPPO, sovranazionali) tanto spinta e produttiva di originalità da rendere improponibile ogni meccanica trasposizione di modelli. La lettura delle scorrevoli considerazioni storiche e comparatistiche contenute nel libro, aiuta a superare questa tentazione.
Particolarmente utili e puntuali sono le citazioni che il libro contiene.
Si tratta di riferimenti che consentono di allargare lo sguardo ad affermazioni e prese di posizione che talora illuminano circa la ricorrenza di temi e problemi; talora rivelano l’occasionalità, o, peggio, la strumentalità di alcune dichiarazioni.
Della prima specie sono i richiami a due eminenti giuristi cattolici: Giorgio Balladore Pallieri, che nel 1954 censura (con «impietosa analisi») i ritardi nell’attuazione delle previsioni costituzionali sui contrappesi costituzionali al potere governativo: «All’epoca della emanazione della Costituzione italiana si prevedeva come possibile una ascesa al potere dei partiti di estrema sinistra, e si pose quindi gran cura di creare tutta una serie di organi e di istituti capaci di infrenare ogni tendenza totalitaria del partito al potere; sulla Corte costituzionale, sul Consiglio superiore della magistratura, sulle regioni si confidava tra l’altro non poco a questo scopo. La eventualità non si è realizzata e, con assai poco discernimento politico sia per il presente che per il futuro, vi è stata tendenza a ritenere che quelle limitazioni si risolvessero in inutili impacci»; gli «inutili impacci» che oggi riemergono nella cultura dell’accentramento del potere.
E Costantino Mortati, che, nel 1976, non esita a dedicare una pagina del suo manuale di diritto costituzionale, all’atteggiamento di allora delle Procure della Repubblica nei confronti di indagati (o indagabili) eccellenti: «Prassi che vede troppo spesso violato da numerosi titolari dell’organo il principio consacrato nell’art. 112 Cost. dell’obbligatorietà dell’azione penale, per effetto di fattori vari di pavidità, di indifferentismo, di compiacenza al potere pubblico che si risolvono in connivenza con chi delinque».
Un atteggiamento destinato a mutare tra la fine degli anni Settanta e la prima metà degli anni Ottanta, per la spinta di una nuova generazione di magistrati, per l’emergere di nuovi metodi di lavoro nelle procure e, in definitiva, per l’affermarsi di un’idea “orizzontale” di magistratura: una “magistratura senza carriera” in linea con la previsione dell’articolo 107, terzo comma, della Costituzione.
Ma quei pubblici ministeri che superano, nei fatti, la gerarchizzazione degli uffici, hanno bisogno di nuove forme organizzative, di mezzi moderni, di una polizia giudiziaria che, come vuole l’articolo 109 della Costituzione, dipenda effettivamente dall’autorità giudiziaria.
Problemi che il Codice di procedura penale entrato in vigore nel 1989 consentirà di affrontare con maggiore maturità ma non di risolvere, come involuzioni, anche recenti, mostrano.
Nel catalogo delle citazioni di interventi strumentali o incongrui spicca invece il revirement di Marcello Pera, che nel 1993 scrive, in piena stagione di “Mani pulite”, che di fronte alle indagini «questi partiti devono retrocedere e alzare le mani» e che «il garantismo, come ogni ideologia preconcetta, è pernicioso»; salvo, tre anni dopo, scagliarsi contro le indagini giudiziarie, affermando «l’inchiesta Mani pulite è stata un’operazione mirata, finalizzata, diretta a decapitare una parte dello schieramento politico. È stata una rapina a toga armata ai danni della politica».
Una delle osservazioni conclusive contenute nel libro, ma che ben potrebbe figurare come sintetico orientamento iniziale, rivela una chiave di lettura indispensabili nell’affrontare il tema del procedimento penale: «spesso pretendiamo che chi, come il pm, percorre il primo tratto di questo delicato tragitto, indirizzi subito il processo sulla via giusta».
E’ un fascino dell’immediatezza che talvolta coinvolge (o travolge) gli uffici di procura sia nella scelta degli atti da compiere sia nella comunicazione esterna.
Argomento quantomai delicato, al quale il libro di Bruti Liberati dedica pagine significative (ponendosi in continuità con il suo precedente Delitti in prima pagina. La giustizia nella società dell’informazione[1]), nelle quali, arrivando alla stretta attualità, si afferma con chiarezza che «la presunzione di innocenza trova la sua prima tutela nelle norme del processo sulle garanzie del diritto di difesa»; e che «la pretesa di intervenire sul terreno della comunicazione con normative apparentemente stringenti si rivela insieme vana e potenzialmente lesiva degli altrettanto rilevanti valori dell’informazione, della cronaca e della critica».
La fase delle indagini, di cui il pubblico ministero sembra essere protagonista esclusivo, è invece caratterizzata dalla complessità del rapporto con la polizia giudiziaria, da controlli del giudice per le indagini preliminari, da vicende comunicative complesse che rendono delicato e faticoso il lavoro del pubblico ministero.
Dunque – come per ogni magistrato – si tratta dello svolgimento equilibrato di un servizio; e non dell’esercizio di un potere ad alto impatto e bassa responsabilità.
Che tale diviene nella rappresentazione, talora strumentale, che alcuni riformatori ne danno; ma anche nell’autorappresentazione salvifica che alcuni – pochi – pubblici ministeri danno di se stessi, e che viene scolpita nel libro con efficacia: «Vi è un protagonismo “oggettivo” del/dei singolo/i pm che svolgono indagini su fatti di grande impatto nell’opinione pubblica; ma vi è anche il “protagonismo” ricercato fino all’esibizionismo narcisistico di taluni. Abbiamo conosciuto magistrati che si propongono sulla stampa e soprattutto in televisione non solo come quelli che risolvono un caso, ma come quelli che hanno la ricetta per risolvere questo o quel fenomeno criminale. L’esaltazione della chiusura corporativa e dell’autoreferenzialità trova riscontro nelle correnti del populismo che affidano alla repressione penale la soluzione di tutti i mali della società».
Nel descrivere il funzionamento delle procure della Repubblica, Edmondo Bruti Liberati dimostra come solo la conoscenza dei dati reali, anche numerici, può supportare il discorso pubblico sui temi della giustizia: così per le risorse e gli organici, così per le intercettazioni; così per l’intero sviluppo delle funzioni del pubblico ministero in tutte le fasi del procedimento penale, a proposito delle quali, con un’efficacia “narrativa” che di certo colpirà sia il lettore giurista sia il lettore cittadino comune, vengono smontati luoghi comuni e vere e proprie leggende metropolitane sul processo accusatorio (con una penetrante critica dei limiti del modello statunitense).
La rassegna dei problemi aperti, dai criteri di priorità alla separazione delle carriere (anche qui ricordando, con i numeri, che una questione che necessariamente dovrebbe comportare un pesante intervento costituzionale in realtà riguarda poche unità di magistrati) sfocia nell’invito a costruire tra tutti gli operatori della giustizia, dunque anche gli avvocati, una comune cultura della garanzia dei diritti.
Un ragionamento complessivo, quello di Edmondo Bruti Liberati, basato sui fatti: che, è vero, come diceva Lenin, «hanno la testa dura», ma hanno bisogno di essere comunicati con efficacia, per contrastare la tendenza al “surfing mentale” che tende a (o pretende di) farci accettare come reale ciò che di lontano dalla realtà dei fatti è semplicemente ripetuto con pervicacia da chi ha interesse a farlo o da chi quei fatti ignora.
[1] Raffaello Cortina Editore, 2022; recensito da Nello Rossi su questa Rivista, www.questionegiustizia.it/articolo/delitti-e-processi-in-prima-pagina