1. Prendere parte a un confronto interdisciplinare sulla figura del pubblico ministero significa per chi studia il processo penale occuparsi del suo protagonista più problematico, quello che da sempre ha posto le maggiori difficoltà di inquadramento. Nessun dubbio sul fatto che il giudice debba essere connotato da terzietà e da imparzialità, come pure nessuna incertezza sulla circostanza che la difesa sia sgravata da qualunque onere di collaborazione alla funzione cognitiva di un processo penale che deve restare «fatto dialettico» e non trasformarsi in «fatto obbligatoriamente cooperativo[1]. Quanto al pubblico ministero, «come sostenitore dell’accusa, dovrebb’essere parziale al pari di un avvocato» e «come custode della legge, dovrebb’essere imparziale al pari di un giudice», con il rischio di trasformarsi in un «giudice senza imparzialità» e in un «avvocato senza passione»[2].
Si tratta di un organo pubblico portatore di interessi di parte, la cui indipendenza non emerge nitidamente, nell’intensità e nella portata, neppure dal dettato costituzionale: a lungo ci si è interrogati sul combinato disposto dell’art. 101 comma 2 Cost., che testualmente riferisce la soggezione alla legge ai soli giudici, e dell’art. 107 comma 4 Cost., che vuole il p.m. circondato dalle «garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull'ordinamento giudiziario». Un organo sul quale paiono concentrarsi le ripercussioni di quella separazione delle carriere che molti ritengono indispensabile a garantire pienamente l’imparzialità del giudice: è il timore di un p.m. che orbiti nella sfera di influenza dell’esecutivo la principale obiezione sollevata dinanzi alla proposta di collocare magistratura requirente e giudicante su binari separati e non comunicanti. Un organo al centro di recenti riforme legislative, volte a soddisfare sollecitazioni sovranazionali: incide sulle prerogative del p.m. la nuova disciplina sull’acquisizione dei dati di traffico telefonico e telematico a fini di indagine penale introdotta dal decreto-legge n. 132 del 2021, conv. in legge n. 178 del 2021; come pure lo riguardano da vicino le prescrizioni del decreto legislativo n. 188 del 2021 in tema di informazione giudiziaria, su cui si concentrerà il mio intervento.
2. Il decreto in questione ha inteso assicurare il «compiuto adeguamento» della disciplina interna alla direttiva 2016/343/UE sul «rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza», prescrizione alla quale pochi principi costituzionali in materia di giustizia penale contendono il primato del precetto meno osservato. Sebbene il divieto di indicare pubblicamente come colpevole qualcuno la cui responsabilità penale non sia stata accertata con sentenza o con decreto penale irrevocabili venga genericamente riferito alle «autorità pubbliche»[3], il pubblico ministero resta il principale destinatario della novella: è lui a gestire la fase – le indagini preliminari – nella quale non di rado si registra l’adozione di provvedimenti di particolare risonanza anche mediatica, come l’applicazione di una misura cautelare personale, l’esecuzione di un sequestro, lo svolgimento di una perquisizione; intuibile l’interesse dell’opinione pubblica a conoscerne le ragioni, e altresì le dinamiche dell’inchiesta in cui sono adottati.
Fatalmente è in questa fase dominata dalla prospettazione accusatoria – non foss’altro perché molte delle attività che vi trovano esecuzione non contemplano il contraddittorio preventivo, affidando all’effetto sorpresa le chance di risultare efficaci – che l’art. 27 comma 2 Cost. corre i rischi maggiori di non essere rispettato; le improprie, ma ricorrenti, intonazioni colpevoliste con cui si riferisce dell’attività di indagine risentono di un pubblico ministero che scommette sulla propria ipotesi di verità, benché ancora non si sia confrontato con un’altra possibile ricostruzione dei fatti.
Si rivolgono specificamente all’organo d’accusa le prescrizioni dell’art. 3 d.lgs. n. 188 del 2021, e ci si aspetterebbe di rintracciarvi indicazioni – presidiate in modo efficace – in grado di guidare con mano ferma il comportamento del pubblico ministero. In realtà, mi sembra che le novità normative per lo più confermino due deprecabili tendenze invalse nell’agire legislativo. Da un lato, la difficoltà di tradurre in modo tecnicamente appropriato intenzioni apprezzabili, di riuscire cioè a confezionare disposizioni adeguate a realizzarle, non di rado per aver importato acriticamente formule impiegate da fonti sovranazionali. Dall’altro, la tentazione di legiferare “a rate”, ovvero di rimandare al futuro ritocchi o integrazioni che pure sin dall’inizio si avvertono come necessari, e che spesso sono destinati a non essere mai apportati.
L’intervento legislativo riguarda una disposizione controversa di una riforma controversa. Il riferimento è alla c.d. riforma Castelli, che anche sul versante della informazione giudiziaria ha perseguito il disegno di rafforzare l’organizzazione verticistica della procura della Repubblica e di irrobustire le prerogative del titolare dell’ufficio. L’art. 5 d.lgs. n. 106 del 2006 lo individua come interlocutore esclusivo degli operatori dell’informazione. È il solo legittimato a intrattenere i rapporti con i mass media, potendo al massimo avvalersi di un magistrato dell’ufficio appositamente delegato.
Sui sostituti procuratori grava invece il divieto, sanzionato in sede disciplinare, di «rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l’attività giudiziaria dell’ufficio». La loro “invisibilità” si estende alle stesse comunicazioni fornite dal procuratore della Repubblica, tenuto ad attribuire le informazioni «in modo impersonale all’ufficio», evitando «ogni riferimento ai magistrati assegnatari del procedimento» (art. 5 comma 2 d.lgs. n. 106 del 2006)[4]. Accortezze che si giustificarono con l’intento di impedire smanie di protagonismo mediatico dei titolari di inchieste di particolare rilevanza e quindi di spiccata appetibilità mediatica. Peraltro, al di là della pronosticabile difficoltà di dare conto delle dinamiche di una indagine condotta da altri, si tratta di una sindrome che potrebbe colpire allo stesso modo il procuratore della Repubblica: basta uno sguardo all’attualità giudiziaria per rendersi conto che non tutti hanno sviluppato adeguati anticorpi al riguardo, sebbene costituisca illecito disciplinare – peraltro di non agevole dimostrazione – sollecitare la pubblicità di notizie relative alla propria attività, come pure costituire canali informativi personali riservati o privilegiati.
All’interno di questa cornice normativa, le aggiunte operate dal d.lgs. n. 188 del 2021 intendono disciplinare il quomodo dell’informazione sul procedimento penale e, prima ancora, si propongono di regolarne l’an. Partiamo dal quomodo. La precisazione, nel comma 2-bis, che vada assicurato il diritto dell’indagato e dell’imputato «a non essere indicati come colpevoli fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili» è, nella sostanza, una parafrasi del dictum dell’art. 27 comma 2 Cost. Dall’inciso «in ogni caso» traspare lo sforzo di sancirne l’assolutezza, l’impossibilità di ammettere eccezioni, ma l’inderogabilità del precetto pare già pienamente rintracciabile nella norma costituzionale.
3. Le novità sembrano altre due, entrambe apprezzabili.
Una è il divieto di assegnare alle inchieste «denominazioni lesive della presunzione di innocenza»: non di rado le suggestive locuzioni prodotte dalla fantasia degli inquirenti esprimono «un’anteprima di colpevolezza», come ha denunciato il difensore di uno degli imputati per i fatti di Bibbiano commentando l’infelice denominazione “Angeli e demoni”. L’altra è l’obbligo per il procuratore della Repubblica – o per il magistrato delegato ai rapporti con i media – di «chiarire la fase in cui il procedimento pende», di localizzare cioè nella “topografia” del procedimento l’attività di cui si sta dando conto, così da far comprendere soprattutto che l’atto compiuto nella fase delle indagini si fonda su una ipotesi di verità unilateralmente formulata dall’organo dell’accusa. Si tratta di una operazione culturale di “ecologia” dell’informazione giudiziaria, essenziale per restituire consapevolezza a un’opinione pubblica abituata da una comunicazione mediatica di scadente fattura a ritenere che, per esempio, una richiesta di rinvio a giudizio equivalga a una condanna e una misura cautelare personale a una pena detentiva.
Attiene al quomodo anche l’individuazione per via legislativa degli strumenti di comunicazione che possono essere impiegati. L’avverbio «esclusivamente» non lascia dubbi sul fatto che il procuratore della Repubblica non possa avvalersi di strumenti alternativi rispetto a comunicati ufficiali e conferenze stampa. Non è più consentito, quindi, diffondere informazioni sul procedimento penale mediante colloqui informali, interviste alla stampa, dichiarazioni rese nel contesto di trasmissioni televisive, verosimilmente nell’intento di impedire modalità di diffusione che non assicurano parità di accesso agli operatori della comunicazione e che appaiono di dubbia attitudine al rispetto dell’art. 27 comma 2 Cost.
Tra i due canali ammessi, il d.lgs. n. 106 del 2006 stila comunque una graduatoria: vanno preferiti i comunicati ufficiali, naturalmente redatti avendo cura di evitare «spunti critici verso giudici o avvocati, oppure affermazioni apodittiche quasi che le tesi dei pubblici ministeri (…) rappresentino la verità inconfutabile, definitivamente accertata»[5]. Le conferenze stampa sono consentite nei «casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti»; più che di un evento «affollato e clamoroso» – si è saggiamente precisato – dovrebbe trattarsi di «un incontro con più giornalisti, preceduto da un avviso rivolto (…) all’intera platea dei media potenzialmente interessati»[6], e organizzato – viene da aggiungere – evitando allestimenti scenografici, deprecabilmente diffusi, in grado di veicolare subliminali messaggi colpevolisti.
Il d.lgs. n. 188 del 2021 esige che la determinazione di procedere alla conferenza stampa sia esplicitata con atto motivato. Ci si attenderebbe che il procuratore della Repubblica fosse chiamato a esplicitare i motivi che conferiscono all’inchiesta quella «particolare rilevanza pubblica» alla quale l’interpolato art. 5 d.lgs. n. 106 del 2006 subordina il ricorso allo strumento comunicativo in questione. Invece, un legislatore non proprio irreprensibile ha stabilito che nel provvedimento vadano indicate «specifiche ragioni di pubblico interesse». Praticando un’operazione di ortopedia interpretativa, possiamo probabilmente arrivare a leggere le due locuzioni in combinato disposto, facendo discendere dalla particolare rilevanza pubblica dei fatti l’interesse pubblico alla conoscenza.
Non sfugge, ad ogni modo, quanto la locuzione «pubblico interesse» sia anodina, e dunque inidonea a rappresentare criterio di selezione: «i procedimenti giudiziari e le questioni relative all’amministrazione della giustizia sono di pubblico interesse», afferma la raccomandazione Rec (2010)12 del Consiglio d’Europa. Tutti i procedimenti giudiziari, dunque, dal momento che la giustizia penale è amministrata in nome del popolo e che il popolo deve poter conoscere come è amministrata la giustizia in suo nome, perché ne va del controllo democratico sullo ius dicere. Se così stanno le cose, come si potrebbe sindacare la scelta del procuratore della Repubblica di avvalersi della conferenza stampa anziché di un più asettico comunicato invocando ragioni di pubblico interesse? Chi potrebbe escluderne la legittimità, in una particolare realtà territoriale, quando sia ritenuta utile a «rimarcare la presenza dello Stato, illustrare gli sforzi compiuti, i successi conseguiti, gli obiettivi ancora non raggiunti (…) ringraziare e gratificare le forze di polizia che operano in condizioni difficilissime» e a «tentare di rompere il “cono d’ombra informativo” sulla ‘ndrangheta (…) funzionale in primo luogo proprio agli interessi dell’organizzazione mafiosa»[7]?
4. La medesima discutibile espressione ricompare, peraltro, anche con riguardo all’an della comunicazione. La diffusione di informazioni sul procedimento penale – afferma il nuovo comma 2-bis dell’art. 5 d.lgs. n. 106 del 2006 – è consentita solo quando «strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre specifiche ragioni di interesse pubblico».
Se l’ancoraggio alle esigenze di indagine può valere a rendere il primo presupposto meno evanescente – il codice di rito penale subordina ad esso, ad esempio, la possibilità di avvalersi delle intercettazioni[8] – decisamente più indefinita appare l’alternativa dell’interesse pubblico, e a restituirle maggiore determinatezza non vale il riferimento normativo a «specifiche ragioni». Si possono fornire informazioni agli abitanti di un luogo interessato da un presunto reato ambientale, per motivi di sicurezza, suggerisce la direttiva 2016/343. Si può voler garantire la corretta informazione dei cittadini[9], l’esercizio del diritto di cronaca, l’onore e la reputazione dei cittadini, precisa l’art. 6 del Codice etico dell’Associazione nazionale magistrati. Ma nell’interesse pubblico rientra certamente molto altro. Non aiuta a circoscrivere la latitudine della formula normativa quanto emerge dalle Linee-guida del Consiglio superiore della Magistratura sulla comunicazione giudiziaria del luglio 2018: risultano «di effettivo interesse pubblico (…) i casi e le controversie di obiettivo rilievo sociale, politico, economico, tecnico scientifico»; ma cosa significa «obiettivo»? Lo stesso C.S.M., nel parere sulla novella in esame, sembra rassegnato al fatto che, «ove non rilevino concomitanti esigenze investigative», tutto dipenda da «valutazioni di opportunità affidate al procuratore e influenzate fatalmente dalla sua sensibilità culturale»; valutazioni che nella sostanza appaiono insindacabili.
Abbondano nelle nuove disposizioni gli avverbi che dovrebbero esercitare una funzione restrittiva («esclusivamente», «strettamente», «solo»), ma le clausole generiche che vi sono impiegate, non meno numerose, ne vanificano la capacità di limitare la discrezionalità decisionale del procuratore della Repubblica. Probabilmente, quindi, sarebbe destinata a rivelarsi inefficace anche l’introduzione di un illecito disciplinare ad hoc per l’eventualità in cui le prescrizioni del decreto legislativo siano disattese. La vaghezza dei parametri secondo cui il procuratore deve orientarsi finirebbe di fatto per rendere imbelle la minaccia sanzionatoria. Sembra eccessivo, quindi, l’allarmismo che si è diffuso negli ambienti della magistratura di fronte all’iniziativa legislativa orientata a presidiare con lo strumento disciplinare le disposizioni appena ripercorse: si è ipotizzato che, temendo sanzioni, nessun procuratore della Repubblica interloquirà più con gli operatori della comunicazione. In realtà, la sensazione è che se non si saprà più nulla delle indagini dipenderà, più che dal timore del medesimo di incorrere in sanzioni, dalla discrezionalità inopportunamente conferitagli dalla disciplina.
Infatti, anche ammesso che si riuscisse ad attribuire un significato univoco all’interesse pubblico alla conoscenza delle dinamiche dell’inchiesta – ed è operazione piuttosto ardua – il procuratore della Repubblica resterebbe libero di azionare a piacimento la leva dell’informazione giudiziaria. La preoccupazione di impedire eccessi comunicativi ha indotto a stabilire che «la diffusione di informazioni sui procedimenti penali è consentita solo quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre specifiche ragioni di interesse pubblico». Significa che, in presenza di quei presupposti, il procuratore è autorizzato a fornire informazioni, cioè che ne ha la facoltà, non l’obbligo. Con il risultato che, mentre può elargire con soddisfazione i dettagli di una vicenda giudiziaria di trascurabile rilevanza per l’opinione pubblica conclusasi per gli inquirenti con successo, può legittimamente omettere di dare conto di attività di indagine rivelatesi infruttuose, quand’anche meritevoli di essere rese note alla collettività. La preoccupazione legislativa riguardava gli eccessi comunicativi; a ben vedere, tuttavia, le regole che avrebbero dovuto contrastare l’arbitrio dell’informazione alimentano l’«arbitrio del silenzio», permettendo che vengano sottratte «per tempi più o meno lunghi, alla conoscenza ed al controllo dell’opinione pubblica informazioni non coperte da alcun segreto (…) solo per valutazioni di opportunità compiute dagli inquirenti»[10].
Secondo taluno, un rimedio è offerto dalla possibilità riconosciuta a chiunque vi abbia interesse dall’art. 116 c.p.p. di ottenere il rilascio a proprie spese di copie di atti. Sarebbe in ogni caso un rimedio solo parziale, perché un conto è la diffusione pubblica, un conto la comunicazione indirizzata al solo soggetto richiedente. Ma non è affatto scontato che lo stesso trovi concreta applicazione. Risulta radicata nella prassi una certa resistenza culturale al riconoscimento di questo diritto quando a rivendicarlo sia un soggetto terzo rispetto al procedimento: nella maggior parte dei casi i giornalisti richiedenti atti del procedimento si sono visti negare l’accesso. Una resistenza a cui l’art. 5 d.lgs. n. 106 del 2006 potrebbe fornire un argomento ulteriore, ove si ritenesse che il rilascio di copie sia in fondo una species del genus relazioni con i mezzi di comunicazione, che la “riforma Castelli” ha affidato alla gestione esclusiva del procuratore della Repubblica.
5. L’impressione è che il legislatore non possa sottrarsi a una rimeditazione della disciplina, limitandosi a dettare poche prescrizioni, chiare e seriamente sanzionate. Nel riavvolgere il nastro normativo, si dovrebbe partire dal valore imprescindibile e vitale della pubblicità della giustizia penale per un ordinamento democratico; dalla consapevolezza che, «sottratta ad una efficace forma di controllo da parte della società, la repressione penale (…) sviluppa fatalmente l’aspetto deteriore di quella politicità che le è connaturale, divenendo pericoloso strumento di affermazione di parte»[11]. La legittimazione sociale della magistratura, il recupero auspicabile di una credibilità oggi declinante, passano dunque attraverso il rendere conto con trasparenza dell’operato giudiziario.
Perciò, anziché preoccuparsi di stabilire quando l’informazione giudiziaria è consentita, come attualmente avviene, si dovrebbe imporla là dove non ricorrano esigenze di tutela del segreto investigativo, sul presupposto che l’interesse pubblico a conoscere le attività inquirenti esista in re ipsa[12]. I limiti all’informazione sul procedimento vanno in ogni caso tracciati con un affilato bisturi normativo; pericoloso e inaccettabile cortocircuito quello che permette, come di fatto accade oggi, che sia il controllato, ossia il vertice dell’ufficio giudiziario, a selezionare cosa possa conoscere il controllante, ossia la collettività.
Una volta disciplinata l’informazione sul procedimento in modo che rappresenti non l’eccezione ma la regola, è giusto che il legislatore si occupi delle sue modalità: assicurare il rispetto della presunzione di non colpevolezza significa interessarsi del linguaggio, delle forme e dei toni impiegati. Se questi non sono attentamente sorvegliati, qualunque comunicazione, da chiunque gestita, quale ne sia il veicolo, è in grado di violare l’art. 27 comma 2 Cost. La comunicazione giudiziaria dell’accusa deve “autodefinirsi” con la massima chiarezza: chiunque, esercitando una normale diligenza, deve potersi rendere conto che quel messaggio promana da un organo di parte, che corrisponde, in altri termini, a una narrazione unilaterale e provvisoria, fondata unicamente su una ipotesi di responsabilità. Analoghe accortezze vanno imposte agli operatori della comunicazione: sebbene sia piuttosto evidente che un loro atteggiamento disinvolto può vanificare un impeccabile contegno informativo tenuto dal procuratore della Repubblica, ad oggi gli stessi beneficiano di una condizione di sostanziale anomia. Il d.lgs. n. 188 del 2021 li ha inspiegabilmente ignorati, mentre avrebbe dovuto da un lato assicurare loro l’accesso alle informazioni ostensibili sul procedimento penale, dall’altro però obbligarli a forme di diffusione delle stesse rispettose dell’art. 27 comma 2 Cost.[13].
Alla fine del film L’ultima minaccia un Humphrey Bogart comprensibilmente soddisfatto per essere riuscito nell’impresa di salvare il suo giornale pronuncia la celebre battuta «È la stampa, bellezza». Un fotogramma da proiettare in loop, se il legislatore non dovesse rimediare con sollecitudine a una omissione troppo rischiosa per risultare tollerabile più a lungo.
[1] O. Dominioni, L’imputato fra protagonismo dell’accusa e subalternità della difesa, in Arch. pen., 1982, p. 78.
[2] P. Calamandrei, Elogio dei giudici scritto da un avvocato, Ponte alle Grazie, 1999, p. 56.
[3] Così l’art. 1 d.lgs. n. 188 del 2021, che al comportamento non rispettoso della presunzione di non colpevolezza riconnette il diritto ad ottenere il risarcimento del danno e la rettifica della dichiarazione.
[4] Benché sia «un dato rilevante per la pubblica opinione sapere se quella specifica indagine è svolta da un pubblico ministero noto per la sua professionalità e rigore o da un p.m. noto, all’opposto, per iniziare indagini che non approdano quasi mai a risultati, oltre il grande clamore mediatico iniziale», fa osservare E. Bruti Liberati, Delitti in prima pagina. La giustizia nella società dell’informazione, Milano, 2022, p. 210.
[5] A. Spataro, Comunicazione della giustizia sulla giustizia. Come non si comunica, in Quest. giust., 2018, n. 4, p. 297. Esigenza già segnalata dall’art. 6 del Codice etico dei magistrati, secondo cui questi devono attenersi a «criteri di equilibrio, dignità e misura nel rilasciare dichiarazioni ed interviste ai giornali e agli altri mezzi di comunicazione di massa, così come in ogni scritto e in ogni dichiarazione destinati alla diffusione».
[6] N. Rossi, Io magistrato dico: sui processi-show siamo a una rivoluzione, intervista a V. Stella, Il Dubbio, 27 ottobre 2021.
[7] G. Pignatone, Comunicazione della Procura della Repubblica: una garanzia anche per l’imputato, in Quest. giust., 2018, n. 4, p. 262.
[8] L’esemplificazione che ne offre la direttiva 2016/343 attiene alla diffusione di materiale video accompagnata dall’invito a collaborare alle indagini con informazioni utili a individuare il presunto autore del reato; la diffusione di notizie potrebbe essere rivolta anche a vagliare la reazione di una persona la cui utenza sia intercettata, si ipotizza nel parere reso dal Consiglio superiore della magistratura sul d.lgs. n. 188 del 2021.
[9] Ad esempio, intervenendo in funzione correttiva o di chiarificazione, rispetto a notizie non veritiere o parziali circolate con riguardo all’operato inquirente.
[10] N. Rossi, Il diritto a non essere “additato” come colpevole prima del giudizio. La direttiva UE e il decreto legislativo in itinere, in www.questionegiustizia.it, 3 settembre 2021.
[11] G. Giostra, Processo penale e mass media, in Criminalia, 2007, p. 68.
[12] Mentre non può dirsi altrettanto per quei dettagli che non hanno attinenza con il procedimento penale, la cui propalazione soddisferebbe soltanto l’interesse del pubblico, ovvero la sua curiosità.
[13] Basterebbe, «senza perdersi in analitici e settoriali rivoli prescrizionali, prevedere l’illiceità di qualsiasi forma di comunicazione pubblica (conferenza stampa, highlights della polizia, articolo giornalistico, programma televisivo, ecc.) che rappresenti implicitamente o esplicitamente l’accusato come colpevole», suggerisce persuasivamente G. Giostra, Un catechismo per atei, in https://www.medialaws.eu, 4 febbraio 2022.
Il contributo riproduce, corredata da note essenziali, la relazione tenuta al convegno Il pubblico ministero: un profilo interdisciplinare (Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Foggia, 7 aprile 2022) e destinata alla pubblicazione negli Atti.