Langres, 1743. Denis Diderot viene arrestato. Non esattamente in un carcere: va in un monastero, vicino Troyes, ma in ogni caso perde la libertà personale. La libertà di stampa però non c’entra: Diderot non è ancora l’intellettuale che avrebbe segnato le Lumières francesi. È stato invece suo il padre che, contrario al matrimonio che il figlio stava progettando, aveva scritto alle autorità, ottenendo l’internamento di Denis. Fuggito, il futuro enciclopedista riuscirà, una volta raggiunta a 30 anni la maturità matrimoniale, a sposare Anne-Antoinette Champion, camiciaia. Non sarà un matrimonio felice, né lungo.
Cinque anni dopo la morte del filosofo, nel 1789, la Déclarations des droits de l’homme e du citoyen, all’articolo 9, prevederà che «Essendo ogni uomo presunto innocente fino a quando non sarà stato dichiarato colpevole, se è giudicato indispensabile arrestarlo, ogni rigore che non sarà necessario per assicurarsi della sua persona deve essere severamente punito dalla legge». È la stessa norma che, presente nel preambolo dell’attuale costituzione francese, sarà considerata da Parigi come la prova che la direttiva del Parlamento europeo (la 2017/343) è stata recepita dall’ordinamento giuridico.
L’obiettivo è chiaro, contrastare gli abusi delle autorità di giustizia. È una norma che si rivolge agli organi dello Stato, non ad altri; e ancora oggi la direttiva europea – dopo un primo tentativo di disciplinare anche la stampa – e il decreto legislativo 188/21 si rivolge solo agli organi dello Stato. Andare oltre potrebbe avere conseguenze paradossali: si può forse imporre agli organi di informazione, e alla società civile, di essere innocentisti? Si può pensare di esigere un’opinione, sia pure in nome di un grande principio di civiltà, in un’area giuridica europea, rigorosamente liberaldemocratica, dove «la libertà giornalistica – come ha rilevato la Corte di giustizia europea in più sentenze (Prager e Oberschlick contro l’Austria, Thoma contro il Lussemburgo, Belpietro contro l’Italia) – comprende anche il ricorso possibile a una certa dose di esagerazione, e persino di provocazione»?
No, ma non si può neanche negare che esiste un problema. All’interno del processo penale è sorto, quasi in contemporanea con lo sviluppo del mass media, un tema più preciso, quello del danno reputazionale del cittadino coinvolto in un processo penale, indipendentemente dall’esito, dalla sentenza finale che, oltretutto, non riflette solo situazioni di fatto, ma anche fattispecie giuridiche che possono dare o togliere significato ai fatti stessi (Non si dice comunemente, e in modo sicuramente non rigoroso, che la verità processuale non è la verità storica?). Il crimine, le indagini, il processo, sono poi naturalmente straordinarie macchine narrative, che possono schiacciare i singoli, trasformarli da individui in ruoli funzionali stereotipati: Edipo re di Sofocle è già un processo drammatizzato, sia pure sui generis, le piattaforme di streaming sono piene di procedural dramas e legal dramas, e il dibattimento, con i suoi rapporti – in quel caso un po’ caricaturali – con la stampa sono persino diventati, in Chicago, un musical. I media diventano davvero mezzo di comunicazione di massa attorno ai temi di cronaca nera e giudiziaria: basti ricordare che l’esigenza di fondare l’associazione stampa estera di Londra è emersa dopo l’arrivo di numerosi inviati desiderosi di seguire le vicende di Jack lo squartatore. Come dimenticare poi – su un piano del tutto diverso, quello del giornalismo indubbiamente di qualità – il caso Dreyfus e il J’accuse di Emile Zola, che ancora oggi sono materia di spettacolo?
Il giornalismo, nel suo comportamento fisiologico deve però rispettare gli individui e la loro dignità. La Carta dei doveri italiana è molto chiara, in proposito, e presenta norme anche sul trattamento del condannato, la cui rieducazione deve essere sempre tenuta presente. Occorre allora ricondurre il fenomeno della giustizia mediatica a una patologia del giornalismo talmente diffusa da essere segno di un decadimento complessivo, forse irreversibile? No, non subito. Le esasperazioni giornalistiche non possono essere negate, la tentazione di scivolare dal piano strettamente processuale a quello dello spettacolo, in una forma che è più vicina all’infotainment che all’informazione è sicuramente forte. I dettagli personali, processualmente irrilevanti, che sono stati enfatizzati sulla figura e la latitanza di Matteo Messina Denaro, già condannato, dopo la sua cattura, sono un esempio recente.
Non sarebbe del tutto fuori luogo però appellarsi qui al principio… della presunzione di innocenza o, meglio, al principio razionale della sospensione del giudizio, dell’epoché.
Il motivo è semplice. Ci sono fattori, nel rapporto tra media e processo penale, che sono per così dire strutturali. Non fanno parte della patologia, ma vanno colti per quello che sono. Ricordano che il processo e il racconto del processo sono una realtà inevitabilmente tragica.
Il primo fattore strutturale riguarda lo sguardo del giornalista, che è più ampio, mentre quello del giurista – magistrato o avvocato – è più profondo. I fatti che emergono da un processo, anche quelli che portino a una sentenza di proscioglimento, possono essere oggetto di valutazioni di tipo diverso da quello strettamente giuridico: valutazioni politiche, sociali, etiche, morali, persino moralistiche. Un uomo politico può legittimamente frequentare ambienti “discutibili” – viene subito in mente la compagnia di escort – ma il rischio di essere ricattati da potenze straniere, tema emerso a proposito di qualche leader estero, ha o non ha una rilevanza politica? Il caso del Qatargate non ha ancora una verità giuridica, ma il comportamento dei deputati del Parlamento europeo non ha una rilevanza politica? I casi di cronaca nera non hanno anche, tutti, una valenza sociale e persino etica? Mantenere distinti i diversi piani fa parte del dovere di accuratezza dell’informazione, ma non si può pensare che la valutazione dei giornalisti possa semplicemente riflettere l’approccio specializzato del giurista.
Il secondo fattore strutturale riguarda invece il disallineamento dei tempi tra informazione e giustizia. Non solo nel senso, banale, che il processo richiede tempi lunghi – indagini, analisi dei legali, produzione degli atti, il dibattimento – che non possono tollerare la pressione dei giornalisti in cerca di notizie; ma anche nel senso che il lavoro giornalistico si svolge – sempre più, si può dire – in tempi rapidissimi tali da rendere molto complessa la ricostruzione di quanto accaduto. Il rischio di inciampare in un’informazione non accurata è sempre presente.
Il terzo fattore strutturale riguarda il ruolo dei professionisti dell’informazione e ormai – nell’era dei social network – tutti coloro che diffondono notizie. Non si può pensare che la società civile, nella sua multiformità, ripeta passivamente i messaggi veicolati dai media (quali, oltretutto, tra i tanti?). Lector est in fabula, si potrebbe dire parafrasando Umberto Eco, il lettore, il telespettatore, il navigatore inserisce la propria personalità nella lettura: l’enciclopedia, le competenze linguistiche, i valori. Anche il più asettico resoconto di un dibattimento sarà letto secondo la griglia interpretativa – a cominciare dagli schemi narrativi di riferimento – di chi riceve l’informazione. La teoria delle comunicazioni di massa più diffusa, la teoria dell’agenda setting, spiega correttamente che i media, a parte situazioni molto particolari e nel brevissimo periodo, sono in grado di indicare i temi di cui è importante occuparsi, non quale opinione avere su essi. In un mondo che è dominato – come spiega Glauco Giostra – da una sorta di “presunzione di colpevolezza”, per il qualche chi cade nelle maglie della giustizia «qualcosa dovrà pur aver fatto»; e che è continuamente martellato da un’ideologia law and order, accompagnata da forme di garantismo per i potenti, oppure da un populismo penale che sospetta di tutti, il colpevolismo trova ostacoli solo nell’eventuale sfiducia per il lavoro dei magistrati.
Le conseguenze di questi fattori strutturali sono importanti.
Le competenze attuali di tutti gli attori del processo e dei giornalisti appaiono insufficienti. Avvocati e magistrati devono imparare le tecniche di comunicazione. Non è una questione meramente linguistica, anche se questo aspetto non va sottovalutato. È vero: non è pensabile che la ricchezza semantica del diritto ceda a esigenze di ipersemplificazione perché sia compresa dal grande pubblico: è impossibile azzerare – e questo è un vincolo anche per il giornalismo – le asimmetrie informative esistenti in una società complessa. Una certa semplicità meramente stilistica, un ricorso meno intenso ad abbreviazioni come il riferimento alle norme attraverso la mera numerazione degli articoli, a vantaggio del contenuto delle norme, una presentazione più comprensibile delle argomentazioni e delle motivazioni (delle sentenze, per esempio), non può che aiutare, però. Il rischio che il discorso possa scivolare verso la drammatizzazione di un processo – con i protagonisti che diventano eroi, furfanti e grandi saggi – va inoltre tenuto nella debita considerazione. I giornalisti d’altra parte devono rinunciare al luogo comune che vede il loro lavoro come mero rispecchiamento dei fatti: vivono in un mondo di interazioni simboliche, e sono immersi in queste interazioni simboliche. I fatti atomici sono molto rari; e sono quasi inesistenti nei processi penali, il cui gioco è quello di far mutare gli eventi di significato. Imparare a leggere le carte processuali, a seguirei le indagini, i dibattimenti, è diventato fondamentale: in un giornalismo di qualità, così spesso evocato le competenze devono necessariamente innalzarsi.
I flussi di informazioni devono essere inoltre completi e frequenti. Il silenzio non è un’opzione. Nel silenzio, parla il silenzio. Nel senso che i pregiudizi, i luoghi comuni, gli automatismi che animano la società civile prendono il sopravvento rispetto a un’informazione consapevole e accurata. Gli avvocati penalisti chiedono, per risolvere il problema del danno reputazionale, il più grande silenzio. È un errore, sotto molto punti di vista. La vicenda del Qatargate è stata emblematica, sotto questo punto di vista.
A Bruxelles, alla fine dello scorso anno, la Procura ha arrestato quattro deputati europei. Il comunicato emesso indicava, malgrado la rilevanza non solo giudiziaria della vicenda, solo le date di nascita dei quattro rappresentanti del Parlamento. Il giorno dopo, però, i giornali belgi avevano molti particolari, non tutti rilevanti ai fini processuali. Emerge immediatamente un problema: non c’era un level playing field tra i vari giornali europei, Nessuno vuole un appiattimento della stampa, tantomeno sulle posizioni delle Procure, ma la parità delle posizioni di partenza è importante, come è importante un minimo comun denominatore delle informazioni. Una stampa dipendente dalla discrezionalità delle procure – o anche degli avvocati difensori – è una stampa con rapporti troppo stretti tra fonti e giornalisti, troppo stretti perché poi si possa immaginare un lavoro di analisi e di critica accurata e approfondita del lavoro delle fonti stesse.
Un sistema di segretezza ancora più rigido, come desiderato da diversi avvocati, metterebbe il giornalismo – e la comunicazione non professionale dei social network – nelle mani di pochi frammenti di informazione, non controllata, che circolerebbero liberamente lasciando gonfiare i pregiudizi. Non è un’opzione che possa essere ragionevolmente proposta.
Per questi motivi, nel suo documento sul Decreto legislativo sulla presunzione di innocenza, l’Ordine dei giornalisti della Lombardia ha chiesto che quelle norme – il cui effetto è stato quello di ridurre fortemente i flussi di informazione – siano applicate soltanto alla comunicazione istituzionale delle procure che, come qualsiasi altro potere dello Stato, può – salvi gli obblighi di pubblicità degli atti – avere una propria strategia comunicativa. L’obbligo di pubblicità dei processi – sancita dalla Carta dei diritti europei (articolo 47) – ha spinto l’Ordine a chiedere anche che siano resi disponibili tutti gli atti depositati, a norma dell’articolo 116 del Codice di procedura penale. Non può essere pubblico il solo dibattimento, dal momento che molti procedimenti, per un principio di economia, lo evitano. Né si può pensare che parti importanti dell’operato di un potere dello Stato molto incisivo siano totalmente sottratte allo sguardo della società civile. È vero però che il dibattimento, quando viene svolto, deve assumere il ruolo centrale che la procedura penale gli attribuisce.
L’impraticabilità del segreto, al di là della fase delle indagini, e la necessità di un’informazione accurata impongono un rapporto strettissimo tra le fonti – pubbliche e private – e i professionisti dell’informazione, se non altro per la verifica delle informazioni: il flusso, va ripetuto, deve essere completo e continuo.
Tutto questo non risolve però il problema del danno reputazionale: quello subito, per esempio, dall’imputato che venga assolto. È un problema arduo: la reputazione è importante, ma lo è di più la libertà di espressione che – come tutte le libertà – non è semplicemente la libertà dell’individuo isolato nei confronti dello Stato e di chiunque abbia la concreta capacità di interferire, ma è la libertà di ciascuno (e soprattutto, si può aggiungere, di coloro che dicono cose per noi sgradevoli). è uno degli elementi costitutivi del sistema liberaldemocratico. La libertà di espressione e il diritto all’immagine e alla tutela della reputazione non possono essere messi sullo stesso piano, allora, se non ai margini; ossia laddove l’informazione sfiora la “patologia”, diventa poco accurata, non distingue i diversi piani dell’analisi, abbandona l’analisi critica – e il distacco che richiede – per scivolare nei cliché narrativi, nel biasimo, nell’indignazione sterile, nell’evocazione di emozioni violente, nella ricerca di una capro espiatorio e purificatore.
Siamo però, qui, nel campo del diritto o in quello della deontologia. In Belgio la depenalizzazione della diffamazione è stato il motivo che ha portato alla nascita di due press councils, uno per ciascuna comunità linguistica, che svolgessero compiti di valutazione deontologica. Sono note le imperfezioni di questo tipo di organismi, che sorgono – quasi invariabilmente – quando la politica tenta di disciplinare il giornalismo. La partecipazione è volontaria, le risorse sono scarse, l’autodichia domina e in alcuni paesi – la Gran Bretagna – ha generato comportamenti di protezione corporativa così forti da portare allo scioglimento – per indegnità, si potrebbe dire – di queste organizzazioni. L’Ordine italiano ha però caratteristiche che gli consentirebbero di superare – se cambia cultura, se cambiano le norme – una parte almeno di questi problemi: l’iscrizione è obbligatoria, la figura dei pubblicisti permette una naturale apertura alla società civile, i consigli di disciplina sono indipendenti e possono fare ricorso a competenze giuridiche, la cui presenza può anche essere istituzionalizzata (il consiglio lombardo è presieduto da un avvocato penalista e ha tra i suoi membri un ex magistrato e un ex preside della facoltà di giurisprudenza dell’Università di Milano). È un sistema da migliorare sotto molti punti di vista: le risorse restano scarse, la pubblicità delle decisioni non solo non è obbligatoria – per l’Ordine, e ancor meno per le testate coinvolte – ma di fatto è rischiosa per le norme sulla privacy, le sanzioni presentano un “salto” tra la censura e la sospensione per almeno due mesi, manca un sistema di mediazione. Può essere però una strada percorribile, soprattutto quando, oltre alla depenalizzazione della diffamazione, si porrà un limite forte – la Commissione Ue ha preso l’impegno di farlo – alle SLAPPS, le Strategic lawsuit against public participation, gli schiaffi rappresentati dalle liti temerarie e le querele presentate solo per intimidire il giornalista.