Sommario: 1.Il casus belli: l’imputazione coatta nei confronti del sottosegretario Delmastro e le reazioni della politica - 2. Sgrammaticature istituzionali o un ballon d’essai? - 3. La posizione del Prosecutor nei Paesi di common law - 4. Il dono avvelenato del monopolio incontrollato dell’azione penale
1. Il casus belli: l’imputazione coatta nei confronti del sottosegretario Delmastro e le reazioni della politica
Il caso, o meglio il casus belli, è noto e può perciò essere rievocato solo per brevi cenni.
Il sottosegretario del Ministero della giustizia, Andrea Delmastro delle Vedove, era stato indagato per il reato di rivelazione di segreto di ufficio per aver riferito a un suo compagno di partito, l’on. Giovanni Donzelli, il contenuto di un rapporto di polizia penitenziaria sui dialoghi in carcere tra l’anarchico Alfredo Cospito e alcuni boss mafiosi detenuti con lui in regime di 41-bis.
La Procura di Roma aveva chiesto l’archiviazione del procedimento ravvisando “l'esistenza oggettiva della violazione del segreto amministrativo”, ma sostenendo "l'assenza dell'elemento soggettivo del reato, determinata da errore su legge extra-penale”.
Investito della richiesta di archiviazione il giudice per le indagini preliminari, ritenendo che sussistessero sia l’elemento oggettivo che quello soggettivo del reato, aveva disposto l’imputazione coatta nei confronti del sottosegretario.
Fonti anonime del Ministero della giustizia emanavano immediatamente un commento fortemente critico sulla vicenda, sostenendo che “ l’imputazione coatta nei confronti del sottosegretario Andrea Delmastro delle Vedove, come nei confronti di qualsiasi altro indagato, dimostra l’irrazionalità del nostro sistema” in quanto il pubblico ministero “è il monopolista dell’azione penale e quindi razionalmente non può essere smentito da un giudice sulla base di elementi cui l’accusatore stesso non crede” .
A ruota seguiva un intervento, anch’esso promanante da fonti anonime, questa volta della Presidenza del Consiglio dei Ministri, nel quale ", in riferimento non solo al caso del sottosegretario, ma anche a quello della ministra Daniela Santanchè si affermava: "è lecito domandarsi se una fascia della magistratura abbia scelto di svolgere un ruolo attivo di opposizione e abbia deciso così di inaugurare anzitempo la campagna elettorale per le elezioni europee”.
Al suo rientro dall’estero, dove si trovava per impegni istituzionali, il Ministro della giustizia Carlo Nordio dichiarava: “Mi riconosco nella nota che abbiamo dato. Ribadisco che, da un punto di vista squisitamente tecnico, il codice Vassalli non ha portato alle estreme conseguenze il principio del processo accusatorio che vuole il pubblico ministero monopolista dell’azione penale. E ha lasciato al giudice la possibilità di quella che si chiama imputazione coatta. Questo è in contrasto con i principi del processo accusatorio e secondo noi va riformato. Naturalmente finché la legge c’è va applicata. Quindi non c’è nessuna stranezza nel fatto che vi sia un’imputazione coatta, com’è stata fatta. Non è un’anomalia. L’anomalia è nell’ordinamento. Ma è una cosa tecnica”,
A sua volta il Presidente del Consiglio, on. Giorgia Meloni, intervenendo sull'imputazione coatta per Delmastro, sosteneva che essa "è sicuramente una questione politica. Delmastro è sottosegretario alla Giustizia, quindi riguarda un esponente del governo nell'esercizio del suo mandato" ed aggiungeva che l’imputazione coatta è "giuridicamente lecita ma è una scelta, quindi io la valuto come scelta" che "non avviene quasi mai". E "per come la vedo io in un processo di parti, la terzietà del giudice significa che il giudice non dovrebbe sostituirsi al pm imponendogli di formulare l'imputazione quando questi non intende esercitare l'azione penale".
2. Sgrammaticature istituzionali o un ballon d’essai?
Non c’è dubbio che, riguardate alla luce del nostro sistema processuale, le affermazioni ora ricordate, che criticano e contestano il potere di controllo del giudice sull’inazione del pubblico ministero, appaiono sorprendentemente dissonanti rispetto all’impianto del codice di rito, come immediatamente rilevato dal prof . Franco Coppi che non ha esitato a definire la sortita governativa come una idea antisistema.
Lasciamo pure da parte la singolare affermazione del Ministro secondo cui, per superare un presunto limite del codice Vassalli (non avere portato alle estreme conseguenze il principio del processo accusatorio che vuole il pm monopolista dell’azione penale ed aver lasciato al giudice la possibilità di un controllo sull’inazione dell’organo di accusa) si dovrebbe ……ritornare al passato, e cioè “al testo originario del codice di procedura penale del 1930 che porta il nome del ministro Rocco” nel cui ambito “il pubblico ministero decideva autonomamente di archiviare le notizie di reato oppure di procedere portando l’imputato a giudizio”[1].
Resta il fatto che per il giurista italiano - che si ostini a muoversi nel quadro dei principi costituzionali propri del processo penale - è del tutto naturale che il pubblico ministero sia controllato dal giudice sia quando “agisce” e “chiede” di procedere sia quando rimane inerte e chiede di archiviare[2].
Per un verso, infatti, grazie al controllo sull’attività del pubblico ministero, il sistema garantisce ai cittadini che non sia l’organo di indagine e di accusa ad adottare direttamente ed autonomamente nella fase delle investigazioni preliminari provvedimenti che comprimono diritti costituzionalmente garantiti come la libertà personale, la proprietà privata, la libertà e segretezza delle comunicazioni. Deve essere un giudice ad autorizzare tali atti che sono a loro volta impugnabili e controllabili nel circuito giurisdizionale fino al giudizio di legittimità della Corte di cassazione.
Per altro verso il controllo del giudice sull’inazione del pubblico ministero si pone come un naturale corollario del principio di obbligatorietà dell’azione penale e ambisce ad essere l’antidoto all’esercizio capriccioso e discriminatorio della discrezionalità “investigativa” del pubblico ministero nello svolgimento delle indagini e della discrezionalità “fisiologica”[3] che si esprime nella qualificazione giuridica dei fatti, offrendo alle persone offese una forma di tutela contro l’ingiustificata inerzia dell’organo di accusa.
Per manifestare stupore, dissenso, disapprovazione verso l’esercizio, del tutto fisiologico, dei poteri del giudice sull’inazione del pubblico ministero, il Ministro della giustizia, il Presidente del Consiglio ed i rispettivi “uffici” hanno dunque dovuto compiere una operazione di trasmigrazione spazio-temporale degna di un romanzo fantasy.
Si sono cioè dovuti trasferire - per il momento con l’immaginazione - in altri sistemi giuridici – segnatamente in quello statunitense – connotati dal principio di piena discrezionalità dell’azione penale e dal monopolio incontrollato del pubblico ministero per il suo esercizio (nonchè dalla responsabilità politica per l’operato dell’accusa), in questo modo esprimendo una opzione politica favorevole a tali sistemi e auspicando una “evoluzione” in tale direzione del sistema italiano.
In altri termini la spericolata operazione politica e mediatica di critica al giudice – ritenuto colpevole di una indebita e inopportuna invasione di campo nella sfera del pubblico ministero - è apparsa a tal punto incurante delle coordinate del diritto costituzionale e processuale vigente che può essere compresa solo se la si considera come un ballon d’essai o una prova di esordio di una nuova “cultura” del pubblico ministero, detentore di poteri così ampi da “dover” essere assoggetto all’esecutivo.
Per comprendere il senso di tale mossa vale la pena di ricordare i tratti essenziali dell’ordinamento processuale cui i polemisti si sono dichiaratamente ispirati: il sistema vigente nei paesi di common law e segnatamente negli Stati Uniti.
3. La posizione del Prosecutor nei Paesi di common law
Nella tradizione di common law l’affidamento totale ed esclusivo dell’esercizio dell’azione penale alla discrezionalità dell’ufficio del prosecutor è la risultante tanto di fattori storici quanto della fisionomia del modello processuale adversary.
A sorreggere la prosecutorial discretion e a definirne l’amplissima portata concorrono sul piano storico “l’origine privata dell’accusa, di derivazione inglese” e “il potere del rappresentante del sovrano di porre fine con un atto denominato nolle prosequi a qualsiasi procedimento avviato da un privato, ove gli interessi della corona lo richiedessero”[4].
Sul piano strutturale e funzionale si ritiene poi che la versione classica del processo accusatorio - imperniato sul confronto e sullo scontro delle tesi contrapposte di accusa e difesa come via migliore per la ricerca della verità e sulla pressocchè totale passività del giudice – renda indispensabile un contraddittorio convinto ed effettivo, con un prosecutor spontaneamente e realmente desideroso di partecipare con la necessaria aggressività alla dialettica processuale[5].
Da questa impostazione di principio discende che la scelta di non esercitare l’azione penale – in sostanza la cestinazione diretta delle notizie di reato – è, nell’ordinamento statunitense, esente da un incisivo controllo giurisdizionale[6].
In sostanza il prosecutor è arbitro pressocchè assoluto dello screening, la decisione iniziale sull’opportunità di iniziare il procedimento: può scegliere se farlo per tutto o solo alcuni dei reati attribuiti all’imputato, e in caso negativo, ricorrere ad un dismissal secco (archiviazione) della notizia di reato o a meccanismi alternativi “ all’esercizio dell’azione penale[7].
Nella common law classica, poi, era sottratto al sindacato del giudice anche il potere di archiviare la notizia di reato con un atto di recesso dall’imputazione - nolle prosequi - dopo la formulazione di una accusa in un indictment o in una information.
Successivamente, nell’ordinamento federale “ la decisione di porre termine al procedimento tramite il dismissal” è stata assoggettata al leave of Court mentre nella maggior parte delle giurisdizioni il nolle prosequi è stato sottoposto ad un onere di motivazione o all’assenso del giudice anche se sono rari i casi nei quali i giudici contrastano le decisioni dell’ufficio del prosecutor[8].
In sostanza nel processo penale nordamericano la discrezionalità del prosecutor è nella fase iniziale dei procedimenti pressocchè illimitata e la passività del giudice nei suoi confronti trova fondamento e sostegno anche nel principio costituzionale della separazione dei poteri in virtù del quale “i giudici non devono interloquire sulle ….. scelte (del prosecutor n.d.r) facendo egli capo al potere esecutivo (nell’ordinamento federale) o essendo responsabile solo di fronte al popolo che lo ha eletto (in quelli statali)"[9].
In estrema sintesi, le coordinate essenziali del sistema nordamericano sono dunque rappresentate dal monopolio incontrollato del prosecutor sull’esercizio dell’azione penale, dal suo potere di cestinazione delle notizie di reato, da rari e blandi controlli giudiziali sul dismissal dell’accusa e sul nolle prosequi dell’azione già formalmente iniziata.
La conclusione che gli studiosi del sistema traggono al termine di questa ricostruzione è che la più incisiva arma di controllo del privato cittadino sull’operato dell’accusa è lo strumento elettorale: l’organo dell’accusa “ che non deve rendere conto a nessun altro organo dello Stato intorno al modo in cui esercita i suoi poteri ….. è responsabile di fronte al popolo.: se ne tradisce la fiducia può essere sconfitto alle elezioni"[10].
L’unico bilanciamento del “monopolio dell’azione” e della piena discrezionalità dell’ufficio del prosecutor nel decidere di agire o di restare inerte sta dunque nella responsabilità politica “diretta” dell’organo di accusa - realizzata tramite l’elezione del suo vertice - o nella responsabilità mediata dell’organo politico cui l’ufficio del prosecutor è sottoposto.
4. Il dono avvelenato del monopolio incontrollato dell’azione penale
Alla luce di queste sintetiche osservazioni un dato emerge con chiarezza.
Le considerazioni critiche sulla pretesa “irrazionalità” del nostro sistema processuale e i dissensi riservati dal Ministro Nordio e dalla Presidente Meloni al provvedimento di imputazione coatta adottato dal GIP di Roma stridono con il principio di obbligatorietà dell’azione penale e con l’intero impianto del nostro codice di rito.
Le critiche trovano invece il loro terreno di coltura in un altro sistema processuale, connotato dal binomio “monopolio assoluto del pubblico ministero e piena discrezionalità dell’azione penale” avente come unico e indispensabile contrappeso la responsabilità politica diretta (per via elettorale) o mediata (per sottoposizione alla direzione del governo) dell’organo dell’accusa.
In altri termini è come se, nell’intervenire criticamente sul caso Delmastro, i due esponenti del governo si fossero già proiettati con le loro argomentazioni in un contesto totalmente diverso dall’attuale, da loro ritenuto preferibile a quello vigente che ci si propone di modificare radicalmente.
Il nuovo ambiente istituzionale “auspicato” dall’esecutivo non potrebbe però essere realizzato – come voluto e sostenuto da molti, primi tra tutti gli esponenti dell’avvocatura - grazie ad una separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri che preservi il principio della obbligatorietà dell’azione penale nonché l’attuale fisionomia istituzionale e l’indipendenza dal potere politico del pubblico ministero.
Un monopolio pieno ed incontrollato dell’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero (quale quello prospettato dal Ministro della Giustizia), sganciato dal controllo dei giudici e suscettibile di tradursi in discriminazioni, insabbiamenti, arbitri, del tutto impossibili da impedire e contrastare, non può essere esercitato da un corpo ristretto di magistrati professionali operanti al di fuori di ogni circuito di responsabilità “politica”.
Di fronte ad una tale prospettiva anche i più appassionati sostenitori dell’indipendenza del pubblico ministero - tra cui certamente si annovera chi scrive – sarebbero costretti ad invocare forme di controllo e di responsabilità in grado di scongiurare l’autoreferenzialità e l’irresponsabilità di un tale ufficio.
Se, dunque, come sembra probabile, le dichiarazioni del Ministro e della Presidente del Consiglio sono voci dal sen fuggite che esprimono desideri e progetti per il futuro della giurisdizione penale, cittadini ed operatori della giustizia dovranno essere particolarmente attenti nel prevedere e valutare i punti di approdo finali degli intendimenti riformatori del governo e della sua maggioranza.
La posta in gioco è troppo alta per rimanere irretiti nel gioco delle ambiguità e degli inganni che da troppo tempo caratterizzano il confronto e le iniziative legislative sul versante della giustizia penale.
Da un lato i magistrati del pubblico ministero dovrebbero essere i primi a rifiutare il dono avvelenato della sottrazione della loro “inazione” al controllo del giudice, che rappresenterebbe solo il preludio dell’assoggettamento a controlli di natura politica.
Dall’altro lato gli avvocati, da anni impegnati nella campagna per la separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri, dovrebbero interrogarsi seriamente sui pericoli di stravolgimento delle loro proposte che mirano a differenziare le carriere in un quadro di salvaguardia del principio di obbligatorietà dell’azione penale e di indipendenza del pubblico ministero dal potere politico.
Dal canto loro i cittadini dovranno valutare se è davvero desiderabile un pubblico ministero come quello evocato nella polemica sul caso Delmastro: monopolista incontrollato dell’azione penale, sottratto al controllo del giudice nel caso di inerzia e quindi dotato del potere di cestinare liberamente le notizie di reato .
Un organo pubblico così potente da non poter essere incarnato da funzionari non chiamati a rispendere dello loro scelte discrezionali e inevitabilmente destinati perciò ad essere inseriti in un circuito di responsabilità politica attraverso la dipendenza dal Ministro della giustizia o l’elezione dei vertici degli uffici di Procura.
[1] Così V. Zagrebelsky, Gli irresponsabili, in La Stampa del 9.7.2023, che ricorda come “subito dopo la fine del ventennio fascista e prima ancora della approvazione della Costituzione repubblicana un provvedimento urgente del governo (decreto legislativo n. 288 del 1944) dispose la modifica dell’art. 74 del codice nel senso che il pubblico ministero dovesse chiedere l’archiviazione della notizia di reato al giudice istruttore, il quale invece poteva disporre che si procedesse alla istruzione.”
[2] Su questi profili del caso Delmastro, cfr. C. De Robbio, Imputazione cotta e sistema accusatorio, in Giustizia insieme on line, 13 luglio 2023.
[3] Sui temi della discrezionalità fisiologica, della discrezionalità investigativa e della discrezionalità organizzativa del pubblico ministero mi sia consentito rinviare al mio scritto, Per una cultura della discrezionalità del pubblico ministero, in Questione Giustizia on line, 3 giugno 2021 e nel n. 2 del 2021 della Rivista Trimestrale intitolato Pubblico ministero e stato di diritto in Europa, par. 6.1., 6.2., 6.3.
[4] V. Fanchiotti, La giustizia penale statunitense, Procedure v. Antiprocedure, Torino, Giappichelli, 2022 p. 63.
[5] V. Fanchiotti, op.cit. p.64.
[6] R. Gambini Musso, Il processo penale statunitense. Soggetti e Atti, Torino, Giappichelli, II Ed. 2001, p. 35.
[7] V. Fanchiotti, op.cit. p.65.
[8] R. Gambini Musso, op. cit. p. 36.